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A Teatro

Pubblicato da chris84 il 1 novembre 2013

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Le luci in sala si abbassano, il brusìo al di là del sipario si affievolisce fino a diventare completo silenzio. Le cortine si dileguano ai lati del proscenio e un fievole raggio di luce scende dall’alto ad illuminarci. Non è la prima volta che recitiamo, ma la voglia di fare bene e l’ansia di sbagliare qualcosa sono quelle di sempre. Uno sguardo, un impercettibile gesto d’intesa e si instaura quel legame magico che ci accompagna lungo il copione, una pagina dopo l’altra. Il pubblico è come scomparso, grazie alle luci che evidenziano i nostri movimenti sul palco – così come il silenzio evidenzia le battute che ci scambiamo – e ci sembra di essere solo io e te, e di avere l’intero teatro per noi due. Non esiste sensazione più bella di questa, perché in fondo pensi che se pure dovessi sbagliare una battuta o due nessuno potrebbe vederlo. Questa sensazione, forse troppo rasserenante, ci porta a crederci padroni della scena e del copione, e si sa, la troppa sicurezza precede l’errore. Salto un paio di battute, ti brucio un paio di attacchi, ma tu riesci a far proseguire la rappresentazione senza troppi problemi, anche se leggo nei tuoi occhi una richiesta di tornare a concentrarmi; altrettanto silenziosamente ti chiedo perdono con lo sguardo. Continuiamo a recitare, io e te, e la trama si dipana pian piano come un gomitolo di lana rossa che rotoli sulle assi che stiamo calcando. Gli errori di poco prima però mi hanno un po’ innervosito: l’avere sbagliato una volta mi appare come un preludio di errori futuri, e difatti. Quasi alla fine del primo atto commetto un altro dei miei sbagli, piuttosto grave perché cercando di ricucire le battute scompagnate che mi escono di bocca, finisco per imbastire un discorso piuttosto maldestro che suona come una bugia, perfino in bocca ad un attore, o presunto tale. Si conclude la prima parte, le luci si riaccendono in sala mentre il velluto rosso torna a celare momentaneamente la ribalta. Sono cosciente del mio errore e mi dispiace così tanto di avere rovinato tutto che non ho il coraggio di guardarti negli occhi. Tu a voce bassa suggerisci che forse è meglio non tornare là fuori per continuare a trascinarsi goffamente tra le pagine di un copione che evidentemente non è fatto per noi. A quel punto la sorpresa mi fa alzare lo sguardo fino ad incrociarlo col tuo: ci leggo rassegnazione e tristezza, e questo mi prosciuga fino all’ultima stilla di sangue, come fosse acqua fatta cadere su una roccia arroventata dal sole del deserto. Mi guardi per un lungo, lunghissimo istante e poi: “promettimi che non sbaglierai più”.  È vero, non siamo attori professionisti, e si può dire che tutto è stato curato da noi in questo spettacolo: le luci, i costumi, le musiche, la regia ed ogni altra cosa, però è anche vero che ci teniamo tanto che questo spettacolo riesca al meglio e che ciascuno di noi si senta un vero attore, su un vero palco, a recitare la sua vera parte. “Te lo prometto”, e mentre pronuncio queste parole e sono pronto a dannarmi l’anima pur di mantenere la promessa, le luci tornano ad abbassarsi, il sipario svela ciò che prima era un universo a parte celato al resto del mondo, e noi torniamo in scena. Il secondo atto va meglio del primo, molto meglio oserei dire: il feeling piano piano si ristabilisce e la nostra recitazione si fa più sciolta, nel tono di voce come nei movimenti. Anche il tuo sguardo non è più quello di prima, si è fatto di nuovo fiducioso. Dimentico ancora qualcosa, ma è davvero roba di poco conto: ciononostante sono ormai talmente determinato ad essere perfetto per te che non cesso di fustigarmi per ogni singola virgola saltata, ogni cenno non perfettamente equilibrato. Anche il secondo atto si sta avviando al suo epilogo; noto in te una certa lontananza, quasi una freddezza che non è diretta a ciò che stai facendo bensì proprio a me, anche se all’inizio non gli do molto peso: magari sarai stanca, magari è solo un momento che passerà. Tutto ad un tratto però si sentono dei passi che si avvicinano da dietro le quinte, ed un terzo attore fa il suo ingresso in scena; resto piuttosto perplesso, anche un po’ sorpreso, perché non sapevo nulla di questo exploit e quindi non me l’aspettavo minimamente. Ma sono pur sempre un attore, per quanto dilettante, e quindi improvvisiamo! Cerco di inserirmi nel dialogo che è partito fitto tra te e lui, ma le vostre battute corrono da un lato all’altro del palco così veloci che non c’è spazio per me. Non demordo, e riprovo un paio di volte ad inserirmi, muovendomi come un gatto che voglia catturare un pesce rosso che nuoti dentro la sua boccetta piena d’acqua. Niente, è tutto inutile. Comincio ad accorgermi poco a poco che tra te e l’altro attore c’è un’intesa: sguardi, gesti, espressioni, è tutto giusto, tutto al suo posto. Le assi del palco cominciano a fendersi, dividendolo in due metà, e noi rimaniamo uno da una parte e una dall’altra, divisi soltanto da mezzo metro di vuoto, che però appare invalicabile; sarebbe una distanza ridicola da superare con un salto, e tuttavia il tuo sguardo mi blocca all’interno della mia metà. Ora è chiaro: non vuoi più recitare assieme a me, non ti interessa più che la nostra recita sia un successo, sei andata alla ricerca di altre mete, artistiche e di vita. Mi ritrovo ad aggirarmi disperato nella mia metà di palco, che diventa sempre più striminzita, ed all’improvviso divento cosciente degli sguardi dalla platea, che mi mettono terribilmente a disagio. Volto loro le spalle e con la coda dell’occhio guardo l’altra metà di palco che mi è ormai preclusa: quanto sei bella lì sopra! Non mi resta altro che ignorare i borbottii offesi del pubblico ed attendere che il sipario torni a chiudersi…

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