Le Storie del Cinghiale

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Stanze

Pubblicato da diego il 16 dicembre 2007

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-Il tizio ha detto che è molto
grande. Molto grande, si. Io ancora non ho visto tutte le stanze, ci credi?

Mentre pronunciava quelle parole
Fortunato stava accarezzando il muro. Era liscio e bianco e sodo. Sembrava una
landa innevata ancora vergine, senza ombre, senza impronta alcuna. La casa era
tutta sgombra, un susseguirsi di stanze vuote e intonaci candidi.

-Chi lo ha detto?

-Quello dell’agenzia. Quello che me
l’ha venduta.

A sentirne parlare avevo sbuffato.
Quelli delle agenzie. Quelli.

-Quelli ti dicono sempre ciò che
vogliono loro. Cos’è questa storia che non l’hai ancora vista? Non hai detto di
averla comprata?

-Infatti.

-Vuoi farmi credere che hai comprato
una casa senza averla vista?

Fortunato aveva fatto qualche passo
per la stanza. Il suo sguardo rasentava la beatitudine.

-Ho visto quello che mi serviva
vedere- aveva detto. –Ho visto che è grande. È quello che cercavo.

-Io non ti capisco, sai- avevo
borbottato. –Non ti capisco proprio. E se domani scopri di aver buttato i
soldi?

-Una casa così grande non può essere
un cattivo affare.

Voleva una casa grande, e dopo tanto
cercare era convinto di averla trovata. Perché avrei dovuto tirarlo giù dalle
nuvole? Fortunato era pieno di soldi.

 

Tornai alla casa tre giorni più
tardi, tanto per vedere come procedevano i lavori.

Due energumeni scaricavano mobili da
un grosso camion. Fortunato si strofinava le mani e aveva stampato in faccia
quel sorriso tronfio di chi ha appena concluso il miglior affare della sua
vita. Io invece diedi un’altra occhiata alla casa e mi ritrovai addosso né più
né meno che tutti i dubbi di tre giorni addietro.

È
troppo grande. Troppo grande per una persona sola. Che accidenti se ne farà mai
di una casa così grande?.

-Vieni- mi disse Fortunato. Guardava
la montagna di mobili accatastati. –Andiamo a fare un giro dentro.

La casa era un vecchio cascinale a
forma di L.

Oltrepassammo un cancello rugginoso e
ci tuffammo in una selva tropicale piena di trilli d’uccello. L’ingresso era
una porticina minuscola sormontata di edera.

Fortunato aveva fatto portare dentro
mobili, casse e cartoni pieni di scritte e di etichette.

-Hanno appena finito di scaricare- si
scusò, mentre passavamo nello strettissimo pertugio in mezzo agli imballi. –Non
ho ancora avuto tempo di sistemare…

-Fa niente.

Più avanti le casse finivano, e
cominciava la serie di stanze nude. Fortunato gongolava all’idea di avere a
disposizione una casa con tante stanze, io invece le trovavo angoscianti. Vuote.
Spoglie. Sembravano bocche gementi di affamati, protese verso di noi.

Il sole entrava di sbieco,
attraversava le stanze e veniva a sbattere nel corridoio. Era tutto squadrato,
tutto lineare. La luce e l’ombra
erano divise in segmenti nitidi.

-Voglio farti vedere una cosa- mi
disse Fortunato.

Arrivammo dove il corridoio curvava
ad angolo retto.

-Hai contato quante stanze ci sono?-
domandai. -Gesù, sembrano… devono essere decine.
Sono curioso di vedere cosa te ne farai di tutte quelle stanze.

-E’ una casa grande- disse Fortunato.
–E’ normale che ci siano tante stanze.

-A me non sembra tanto normale.

Arrivammo in fondo a quel lunghissimo
corridoio, dove c’erano un muro bianco e una 
porticina. Mi sembrava di aver camminato per tutta una vita.

Guardai la porticina e guardai
Fortunato. -Allora?

Fortunato l’aprì e tirò un cordino, accendendo
una lampadina gialla.

C’erano due rampe di scale. Una
saliva, l’altra scendeva. Fortunato mi elargì un sorriso malizioso e mi confidò:
-E’ su tre piani!

Tre
piani!

Tre piani. Ancora più stanze.

 

Un impegno di lavoro mi tenne lontano
da Fortunato e dalla sua nuova casa per i dieci giorni seguenti, nonostante la
curiosità che mi divorava, così quando tornai rimasi oltremodo sorpreso di
constatare la velocità con cui i lavori erano progrediti.

Trovai Fortunato sdraiato a terra. Si
era intrufolato sotto il mobile del lavello, da dove giungeva uno sferragliare
di chiavi e tubature.

Emerse dopo qualche minuto,
tergendosi il sudore. Sparpagliati per la stanza giacevano i pezzi smontati di
una bella cucina in legno di ciliegio, un tavolo imballato e il gigantesco
frigorifero cromato.

-Una bella cucina- commentai.

Fortunato si grattò la nuca. -Molto
spaziosa. Mi piacciono le cucine ampie.

-Si, direi di si. Come tutto il
resto.

Uscii in corridoio con l’intenzione
di vedere il resto della casa, ed ebbi l’impressione che Fortunato fosse un po’
a disagio.

 La catasta di mobili nel corridoio si era
abbassata. Fortunato aveva cominciato a disporli, e devo dire che in quel
lavoro mostrava pari dosi di buon gusto e senso pratico. Nella stanza di fianco
alla cucina aveva organizzato un tinello, con una bella credenza di legno
chiaro e un lungo tavolo da pranzo attorniato da mezza dozzina di sedie
impagliate. Aveva montato le bacchette delle tende alla finestra.

-Niente male- borbottai. Ancora mi
sembrava troppo grande per una persona sola, ma su quello preferii tacere. –E
il bagno? Dove hai messo il bagno?

Fortunato mi fece un cenno con la
chiave inglese. –In fondo. Forse lo metterò più vicino, non so ancora.

Nella stanza seguente aveva messo la
sua camera da letto, e in quella successiva una grossa libreria da parete, alta
fino al soffitto, e una scrivania in noce grande come un campo da calcio.

Oltre lo studio ricominciava quel
territorio del nulla di stanze vuote. Pozzi senza fondo. Non c’era altro da
vedere, così poco più tardi salutai e me ne andai.

 

Mi chiamò una settimana più tardi e
mi invitò a cena. Accettai senza sapere che c’erano altri invitati. In realtà
Fortunato aveva voluto organizzare una specie di piccola festa. Suppongo che
fosse una sorta di inaugurazione, anche se la casa non era ancora finita.

No, non era affatto finita.

Eravamo in cinque, più Fortunato. Non
conoscevo nessuno degli altri. Fortunato ci fece fare il giro del piano terra,
mostrandoci come aveva arredato le stanze. Quelle vuote erano ancora più di
metà. Bisognava oltrepassarle tutte per arrivare al bagno che stava in fondo al
corridoio, solitario come un ultimo baluardo.

Arrivammo fino alla porticina che
conduceva agli altri due piani, ma oltre quella si annidavano una moltitudine
di ombre, e dai sorrisi gelidi e dai brevi commenti, Fortunato comprese che
nessuno di noi aveva voglia di addentrarsi in quella zona. La tromba delle
scale sembrava una terra straniera e ostile. Nemmeno lui pareva averne una gran
voglia, per la verità.

Tornammo nella sala da pranzo.
Fortunato si fece aiutare da un suo amico allampanato a tirare fuori dal forno
il grosso arrosto di maiale, e io per ingannare il tempo scambiai qualche
parola con una bionda prosperosa di nome Marilena. Mi disse di essere una
vecchia compagna di scuola di Fortunato. Le chiesi cosa pensava della casa. Lei
disse che era una bella casa.

Eravamo tutti e due d’accordo che
fosse troppo grande per una persona sola.

-Tutte quelle stanze vuote mi mettono
addosso una certa angoscia- mi disse. Bevve qualche sorso di aperitivo e fece
un sorriso stentato e un poco imbarazzato. –Non so se mi spiego.

Si spiegava benissimo. A me facevano
lo stesso effetto.

Non fu una gran serata. Terminato il
dolce non rimasero molte parole. Aleggiava nell’aria la sensazione di essere
circondati da un gran vuoto, gli sguardi si volgevano troppo spesso agli
orologi.

Quando ci salutammo sulla soglia
Fortunato sorrideva, ma aveva l’aria abbacchiata.

 

Gli telefonai sovente. Volevo tenermi
aggiornato sul procedere dei lavori, e anche sul suo stato d’animo. Mi sentivo
dispiaciuto per com’era andata la sua festicciola d’inaugurazione, e desideravo
sincerarmi che non avesse lasciato strascichi.

Mi invitò una domenica pomeriggio.

Attraversai il giardino scacciando
nugoli di moscerini fastidiosi. Bussai alla porta e non rispose nessuno. Era
aperta.

Sudato marcio, Fortunato stava
spingendo la credenza attraverso il corridoio. Gli feci notare le lunghe
striature nere che lasciava sul pavimento e lui mi rispose con un’alzata di
spalle.

-Ho deciso di apportare qualche
modifica- disse. –E poi bisogna pur impiegare tutte quelle stanze, non ti pare?

-Ma sono troppe.

-Questo lo vedremo. Mi dai una mano,
per favore?

Mi levai la giacca e lo aiutai a
spingere la credenza fino alla prima delle stanze vuote. Pesava come un
ippopotamo.

-Vuoi mettere qui la sala da pranzo?

-Penso di si. Che te ne pare?

-Non 
saprei- dissi.

Non mi pareva una gran pensata
allontanare la sala da pranzo dalla cucina, ma non glielo dissi. Mi offrì una
bibita ghiacciata e mi chiese come andava il lavoro. Il mio lavoro andava bene,
gli dissi, tuttavia ero molto più interessato ai progetti che aveva per quella
casa.

-Quando sarà finita ti piacerà- mi
disse. –Puoi aiutarmi a portare anche il tavolo?

Lo aiutai. Fortunato era un caro
amico.

Eppure ogni volta che guardavo lungo
quel corridoio mi saliva dallo stomaco un gran turbamento. Era bianco, era
pulito. Nonostante gli sforzi di Fortunato, si aprivano ancora su di esso un
numero spropositato di stanze vuote. E quella porticina laggiù in fondo, girato
l’angolo… i luoghi che si dischiudevano al di là di essa. Cantine, soffitte, un
numero incalcolabile di altre stanze vuote. Il buio inesplorato e forse
interminabile dietro quella porticina. Il buio che con certezza ineluttabile attendeva
il suo momento.

Fortunato mi salutò con la promessa
di chiamarmi di lì a qualche giorno. Aveva intenzione di organizzare un’altra
cena.

 

Invitò le stesse persone della volta
precedente. Credo fosse un tentativo di replica per colmare le mancanze della
prima cena, quei disagi ben taciuti che tutti avevano avvertito. Nessuno stava
bene in quella casa. In cuor mio, ero certo che anche Fortunato non ci stesse
bene, nonostante le sue intenzioni.

Fortunato ebbe bisogno di parecchio
aiuto, perché grazie alla sua bella pensata adesso la cucina si trovava ad una certa
distanza dalla sala da pranzo. Portammo pentole, piatti, stoviglie e bicchieri,
e poi le portate. Sembravamo una di quelle file di formiche che si vedono nei
giardini, ma tutto sommato fu abbastanza divertente, e la cena piacevole.
C’erano momenti di silenzio, ma Fortunato era sempre lesto a porvi rimedio. In
quei momenti le pareti della sala da pranzo sembravano stringersi. Sembrava di
sentire il peso malandato di tutte quelle stanze vuote intorno, e sopra, e
sotto.

Verso le dieci ebbi necessità di
andare in bagno.

Allontanarmi dalla sala da pranzo,
dalle sue voci e dalle sue risate, non mi piaceva affatto. Era come se quella
casa enorme avesse il potere di risucchiarmi nei suoi meandri nascosti e
tenermi prigioniero per l’eternità. Come faceva Fortunato ad abitarci? Come
faceva a passarci le notti, tutto solo?

Non sapevo che Fortunato avesse una
relazione con Marilena. Non me ne aveva mai parlato. Lo scoprii tornando dal
bagno, quando passai davanti alla camera da letto e sentii le loro voci. Erano
voci tese. Il corridoio era deserto. Dalla sala da pranzo giungeva soffuso il
vociare degli altri. Sostai un momento ad ascoltare.

-Perché?- stava dicendo Fortunato in
quel momento. –Mi dici perché no?

Udii qualche passo. I tacchi delle
scarpe di Marilena.

-Ho detto di no.

-Bè, mi piacerebbe avere una
spiegazione. Non hai idea di quello che ho passato negli ultimi giorni per
sistemare questa casa. È stato un lavoraccio.

-Fortunato, è proprio la casa il problema.

-Guarda… ho cercato in tutti i modi
di renderla accogliente… se vuoi saperlo credo di esserci riuscito. Non le
manca niente, mi pare, a parte qualcuno che la abiti insieme a me.

Marilena emise un minuscolo gemito
strozzato. –Non ho certo detto questo! Non capisci? Non mi piace stare qui, mi
da una brutta sensazione. Cosa ci posso fare? Preferiresti che non fossi
sincera?

-No, ma vorrei che almeno ti
sforzassi un poco. Non ti sei fermata qui nemmeno una notte, da quando l’ho
comprata.

La voce di Fortunato ribolliva di
un’urgenza che mi piaceva poco. Lui era sempre pacato.

-Senti, forse dovremmo lasciar
perdere- disse Marilena. –Io… non so davvero come spiegartelo. Oddio, non so
nemmeno come spiegarlo a me. È troppo grande questa casa, non lo capisci? Mi
mette soggezione. Tutte quelle stanze vuote…

-Io credevo che ti piacessero le case
grandi. Io non avrei mai preso una casa del genere, se non fosse stato per te.

-Adesso non cercare di gettarmi
addosso delle responsabilità, d’accordo? Non sono stata io a comprare questa
casa. E poi ti sto solo dicendo la verità, mi dispiace.

-Fermati a dormire qui, stanotte.

Marilena sbuffò, e poi udii una
specie di fruscio. –No, mi dispiace. Senti, forse è meglio che lasciamo perdere
tutto. Credo che tu ti sia fatto un sacco di idee confuse su di me. Su noi due.
Non mi fraintendere, mi piaci molto Fortunato, questo non l’ho mai negato. Ma
questa casa invece non mi piace affatto, e tu ci stai diventando matto.

-Ehi, ma dove siete finiti tutti?

La voce arrivò dal corridoio, e mi
fece sussultare. Era il biondo allampanato, l’amico di Fortunato. Si chiamava
Pietro. Aveva bevuto vino rosso tutta la sera. Si era sporto dalla soglia della
sala da pranzo e mi guardava con un sorriso ampio e un po’ stolido, le braccia
allargate.

Fortunato e Marilena borbottarono
qualche altra parola. Sentii i loro passi avvicinarsi alla porta e mi dileguai
prima che uscissero.

 

Brutte faccende.

Dunque la casa non era l’unica
magagna di Fortunato. Adesso sapevo non solo che era invischiato in una
relazione sentimentale, ma anche che quella relazione era scricchiolante.
Sarebbe stata buona norma tenersene alla larga.

Pensavo a queste cose proprio una
domenica pomeriggio mentre passeggiavo. La meta della passeggiata era sempre la
stessa.

Il giardino in apparenza non aveva
subito mutamenti. Con l’avanzare della stagione calda però gli insetti
ronzavano sonoramente e le frasche s’infittivano nascondendo porzioni sempre
più ampie di muro.

Udì un poderoso colpo di mazza
riecheggiare in qualche viscere profondo.

Era Fortunato. Lo trovai in una delle
stanze vuote, a petto nudo, lucido di sudore, gli occhi stanchi ma determinati.
Brandiva una mazza da dieci chili e troneggiava su un cumulo di calcinacci e
mattoni frantumati.

-Oh!
Che accidenti stai combinando adesso?

Lo vedevo da me naturalmente, solo
che non credevo ai miei occhi: stava abbattendo i muri divisori delle stanze.
In quattro di esse aveva già terminato il lavoro. Vedevo attraverso i buchi
frastagliati delle ultime tre.

Fortunato appoggiò la mazza a terra e
afferrò un asciugamano. –Lo vedi bene cosa sto facendo, no? Mi aiuti a portare
fuori i calcinacci?

-Ma che ti prende? Hai deciso di abbattere
la casa?

-Solo qualche muro- Fortunato levò la
mazza e piazzò un colpo sul muro con un gemito affaticato. Si spaccò l’intonaco
e crollarono i mattoni rossi. Una polvere sottile e fastidiosa galleggiava
nell’aria calda. –Non avete tutti i torti, in fondo. Troppe stanze. Sono
davvero troppe. Io lo ammetto quando mi sbaglio, non è vero? Si, d’accordo, mi
sono sbagliato, ma sono ancora in tempo a rimediare. Avrò meno stanze e molto
più spazio.

Mi portai la mano alla testa. Era
completamente impazzito. -Tu sei matto! Ma cosa ti sei messo in testa di fare?

-Vedrai quando avrò finito. Sarà una
gran bella casa- e gettandomi addosso un altro dei suoi sorrisi sbilenchi
riprese a colpire con la mazza. –Una gran bella casa…

 

Fortunato mi chiamò perché lo
aiutassi a terminare un lavoro. Non sapevo di cosa si trattasse, e visti certi
ultimi sviluppi avevo quasi timore di scoprirlo. Quando arrivai a casa sua
stava per mettersi a piangere. Aveva abbattuto cinque o sei muri, ed era
disperato.

Mi aggirai per casa, incredulo. Aveva
portato via le macerie, ripulito e lisciato, intonacato e imbiancato, lavorando
come un folle per giorni e giorni, dall’alba al tramonto. Invece di cinque
stanze se ne trovava una sola, immensa, grande come una palestra olimpionica.

Fortunato aveva tentato di arredarla,
eppure tutti i suoi mobili di pregio lì dentro erano come sperduti. Lo spazio
vuoto si stendeva di fronte a lui e di fronte a me. Il muro opposto ci guardava
da una distanza irraggiungibile, e dietro quello attendevano altre stanze e ancora
altre stanze, immobili, silenziose.

Fortunato se ne stava seduto su un
tappeto verde singhiozzando con la testa tra le mani. Sembrava seduto sulla
battigia di un oceano bianco d’incalcolabile estensione. Un mare creato da lui
stesso, che non sarebbe mai riuscito ad attraversare con nessuna barca.

Mi sedetti accanto a lui.

-Che cos’ho fatto?- disse Fortunato
dopo un po’. –Mi dici che cosa ho fatto?

Io sospirai. Non sapevo cosa
rispondergli, per la verità, così me ne uscii con l’unico consiglio che mi
pareva avere un qualche genere di senso. Dissi: -Devi trovarti una casa più
piccola.

-Pensavo che sarebbe andato tutto
bene. Ero convinto che avrebbe
funzionato.

-Non hai più sentito Marilena?

-Non ha mai voluto saperne di questa
casa. Eppure ho lavorato tanto. Non l’ho più sentita, sai? Sparita- Fortunato
diede uno sguardo intorno, considerando quanto gli fosse costato tutto il suo lavoro.
L’ampiezza di quella stanza immensa lo disorientò e smise di guardare. –Cosa
dovrei fare adesso? Dimmelo tu.

-Te l’ho detto. Trovati una casa più
piccola. È l’unica cosa che puoi fare.

-Una casa più piccola…

-Esatto.

-Forse lo farò. Non ci sono riuscito,
vero?

Fortunato si aggrappava a me come un
naufrago si sarebbe aggrappato ad un relitto, si aggrappava alle parole che
potevo dirgli. Neppure io sapevo quali fossero.

-Nessuno ci sarebbe riuscito. Lascia
perdere tutto, dammi retta, trova una casa più piccola. Meno stanze. Vedrai che
ci starai bene.

Non avevo idea di cosa gli avrebbe
riservato il futuro. Forse avrebbe trovato infine la sua casa, un posto in cui
riuscire ad abitare, forse non lo avrebbe trovato mai. Per la verità non sapevo
nemmeno cos’avrebbe riservato a me.

Eppure stavamo seduti su quel tappeto
verde, guardandoci intorno spauriti. Attraverso il corridoio lunghissimo,
dall’angolo dietro cui si nascondeva la piccola porticina, ancora sentivamo
sussurrare le flebili voci delle stanze.

2 Commenti a “Stanze”

  1. emmaus 2007 dice:

    Diego, come al solito una storia che si legge d’un fiato, appassionante fin dalle prime righe, cominci e non smetti più. Davvero ben scritta, complimenti! Un solo, piccolissimo, neo (spero non me ne vorrai…): il “sì” affermativo si scrive accentato, e tra l’altro ho notato che le llinee del dialogo sono un po’ corte e un po’ lunghe. Accadeva anche a me, è un problema di formattazione, che puoi subito sistemare.
    Ciao! A rileggerti presto!!!

  2. Andrea dice:

    Bello come tuo solito. Appena trovo il tempo me lo rileggo… ho il sospetto che la casa possa significare qualcosa di più profondo, ma a quest’ora di notte purtroppo sono molto superficiale :)

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