Racconti fantastici

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La tela di Chiara (nuova versione)

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In una delle lettere scritte ad Alba prima del nostro fidanzamento le dissi che non avevo mai smesso di ricercare la felicità benché la mia esistenza fosse costellata da eventi tragici. Anch’io, come ogni essere vivente su questa Terra, avevo diritto a essere felice ma come ebbi occasione di provare più volte sulla mia pelle nessuno poteva opporsi al proprio destino!

Mi chiamo Francesco e nel 1958 vivevo in un ampio e lussuoso appartamento situato nel centro storico di Rocca Canterano che ereditai quando divenni maggiorenne come da testamento sottoscritto da mio padre ormai defunto, il gioielliere Virgilio De Roa.
Mia madre Lucia era figlia del Conte Carlo De Raimondi che morì in modo tragico la mezzanotte del 25 febbraio 1910, a soli sessant’anni, per mano di Gabriele Gioini, un uomo introdottosi alla sua corte sotto mentite spoglie con l’unico scopo di derubarlo.
Gioini venne assunto come maggiordomo ed era un uomo spregevole, bramoso di ricchezza, tanto da non provare alcun rimorso per l’omicidio. Egli fu colto in flagranza da mio nonno mentre rubava l’oro e l’argenteria di famiglia e per non finire in prigione gli sparò dritto al cuore uccidendo sul colpo.
Mio nonno era un uomo tutto di un pezzo: inflessibile e intransigente, a tal punto da conquistarsi l’appellativo di generale. Mio padre Virgilio era l’opposto: un uomo generoso e sorridente. Era sempre di buon umore perché sapeva cogliere l’aspetto positivo da ogni situazione e aveva una parola di conforto e incoraggiamento per ognuno di noi. Da mio padre Virgilio avevo ereditato non solo la sua gioielleria ma anche l’amore per l’arte e la poesia. Il buon Dio mi aveva regalato un dono meraviglioso: coglievo l’essenza della vita e la riproducevo su tela. Si, perché le mie creazioni erano un inno alla felicità. Tanto più l’oscurità albergava in me, tanto più lucenti e vive erano le mie rappresentazioni su tela: amavo ritrarre i paesaggi perché la natura era ricca di sfumature e colori che aggiungevano un pizzico di vivacità al grigiore della mia esistenza.

Osservavo il mondo con l’occhio di un ladro cercando di rubarne i segreti. Mi incantavo a guardare la natura nelle sue molteplici forme e cromaticità e l’armonia con cui queste si mescolavano tra di loro. Era un delirio per i miei occhi.
Solitudine. Abbandono. Sentimenti tipici della mia esistenza lasciavano il posto alla felicità anche se per pochi istanti. Sapevo che essa era uno stato d’animo passeggero e presto sarebbe tornata a essere un ricordo lontano.
Quando dipingevo mi sentivo rinascere: la mia mente prima intorpidita si riempiva di visioni che proiettavo sulle mie tele come se fossi in preda a un delirio onnipotente. Ero fuori controllo. Più ero triste e insofferente verso la società che mi aveva emarginato più sentivo il bisogno di dipingere: dopo la morte dei miei genitori, avevo trasformato la gioielleria in una galleria d’arte e centinai di quadri ne occupavano lo spazio.
Nella mia testa, i quadri erano una sorta di ponte verso la felicità e mi sembrava che in essi ogni rappresentazione prendesse forma come se volesse uscire dalla tela. A volte, avevo la sensazione che nella galleria d’arte ci fosse qualcosa di magico e le tele prendessero vita. Forse era solo suggestione.

Nel mio appartamento, che avevo tenuto così come lo avevo ereditato, vivevo da solo e l’unica compagnia che mi concedevo era quella dei miei tre cani: William, Greta e Dick. Erano affettuosi e fedeli. Mi adoravano, a differenza dei miei compaesani che mi evitavano per via del male involontario che provocavo agli altri: portavo sfortuna a chiunque incontrassi. Alcune voci giunsero alle mie orecchie, nei paesi le vecchie megere non facevano altro che spettegolare, e raccontavano del figlio del banchiere, un certo dr. Guido Giacomini che, mentre ritornava a casa da scuola dopo avermi incontrato e salutato, fu investito e ucciso da un’auto mentre attraversava la strada. O come, quella volta che dopo aver comprato il biglietto ferroviario, l’impiegato allo sportello, il Sig. Alfio Mari, fu ricoverato d’urgenza per appendicite acuta. E così via, vi potrei elencare altre storie che circolavano in paese sul mio conto, e divenute nel frattempo vere e proprie leggende popolari, anche se in cuor mio sapevo che erano solo maldicenze, col tempo quell’etichetta mi rimase attaccata come una seconda pelle.

Sfortuna o no, la mia vita era costellata da avvenimenti tragici.

Nel ’46 rimasi orfano, avevo solo sei anni, quando i miei genitori morirono in un incidente ferroviario mentre erano diretti a Roma. Fu una vera catastrofe. Un incidente che sconvolse l’intero paese. Più di mille furono i morti tra i quali i miei poveri genitori che rimasero intrappolati nel loro vagone e morirono, asfissiati, tra le fiamme. I soccorritori trovarono i loro corpi carbonizzati. La scena fu sconvolgente e romantica allo stesso tempo: mio padre stringeva tra le sue braccia mia madre.
Quando ero piccolo, Suor Giulia, la Madre Badessa del Sacro Cuore di Gesù, per convincerci a pregare, ci raccontava che molti anni prima Dio e Satana sancirono un patto: “Per la salvezza del mondo, Dio accettò il patto con Satana e, ogni anno per cento anni, sacrificava alcune anime rinunciando alla loro salvezza e lasciandole precipitare nel Regno degli Inferi. Allora, Satana smise di corrompere gli uomini e svanì nell’oscurità. Ma un giorno Dio violò il patto perché amava troppo le sue creature da non volerle più offrire in sacrificio. Ogni uomo sulla Terra è figlio di Dio e la preghiera è il modo migliore per aprire il nostro cuore a Lui ed essere salvati. È l’invocazione a Dio per chiedergli perdono dei nostri peccati.
Satana, tradito, giurò vendetta e ogni anno apriva le porte dell’Inferno sulla Terra per prendersi le anime che gli spettavano. Un patto è per sempre”.
A quell’epoca ero così ingenuo da credere a quello che raccontava Suor Giulia e solo molto tempo dopo avrei scoperto che si sbagliava.

Mio padre aveva una sorella maggiore, Zia Anna, sposata con il sindaco del paese, Zio Vito, i quali si rifiutarono di adottarmi (mi raccontarono che erano dispiaciuti di non potermi accogliere nella loro casa): la crisi del ’29 si faceva sentire e i miei zii avevano già cinque figli da crescere. Nonostante il legame di parentela che ci univa, ero di troppo. Così, il giorno dopo la morte dei miei genitori, venni affidato a un istituto religioso, il “Sacro Cuore di Gesù”, dove Suor Giulia, si prese cura di me. Ella si dimostrò subito caritatevole crescendomi come un figlio.
La vigilia di Natale del ’58, scoprii a malincuore, che i miei zii non mi volevano: zia Anna mi riteneva responsabile della morte di mio padre. Giunsi a tale conclusione quando rovistando tra le cianfrusaglie nella cantina di casa, trovai una lettera scritta da mia zia a mio padre prima della partenza per Roma e che si sarebbe conclusa con la sua scomparsa.

Caro Virgilio,

ti scrivo questa breve lettera perché temo per la tua stessa vita.
Sono alcune notti che non dormo più serenamente. Sono colta da attacchi d’ansia e ho paura che ti possa succedere qualcosa. Ieri sera, ti ho sognato. Eri pensieroso. Ti affrettavi a salire sul treno che ti avrebbe portato a Roma allontanandoti per sempre da me. Poi, il treno partiva, lasciando un vuoto dentro di me. Un vuoto incolmabile.
Temo per te, fratello mio, temo per la tua stessa vita. Ti prego, non partire.

La tua amata sorella

Ero rosso di rabbia. Odiavo i miei zii per avermi abbandonato. Perché tanto odio nei miei confronti? Dio perché non rispondi mai alle mie preghiere? Perché devo credere in Te se le mie preghiere sono solo parole al vento? Solo silenzio da parte Tua, Dio! Suor Giulia si sbagliava: pregare è solo una perdita di tempo…

All’età di 18 anni, ereditai l’appartamento dei miei genitori a Rocca Canterano e qualche soldo in banca che mio padre mi aveva lasciato. Me ne andai dall’istituto religioso ringraziando Suor Giulia per avermi accolto come un figlio e cercai un lavoro. Nel tempo libero dipingevo.
Divenni apprendista del fabbro del paese e conobbi sua figlia Chiara, l’unica persona che mi abbia mai amato. Ci sposammo due anni dopo ma la mia amata si ammalò di tifo e morì prematuramente senza lasciarmi un erede nell’estate del ’63, nel letto di casa, circondata dall’affetto dei suoi cari. Mentre le tenevo la mano con forza, non volevo che se ne andasse, e vedevo spegnersi la luce nei suoi occhi, le sussurrai: “Ti amo Chiara… non amerò nessun’altra donna dopo di te… addio amore mio…”. Ogni volta che la felicità mi cullava tra le sue braccia la malasorte si accaniva contro di me e benché cresciuto nel nome di Dio, l’odiavo.
Il giorno del suo funerale, una gran folla accolse il feretro tra gli applausi. A stento trattenni le lacrime.

Una mattina del ’70, un tizio, vegliardo, mi vide dipingere lungo il fiume Tevere e rimase folgorato dalle mie tele.
“Siete molto bravo, figliolo! “ mi disse compiacendosi.
“Voi siete gentile”, arrossii, “ne scelga uno… è suo…”.
“Come ti chiami?”, domandò l’anziano signore.
“Francesco…”.
“Vi ringrazio, figliolo. Chi è la donna che dipingete nelle vostre tele? Posso sapere a chi appartiene il ritratto? È molto bella”.
“Una volta ero sposato…”, rimasi in silenzio, “… è mia moglie…”.
“Dovevate amarla molto, Francesco” disse amareggiato l’uomo.
“Era l’amore della mia vita ma… ormai sono passati tanti anni… il tempo aiuta a lenire le ferite anche se il ricordo di Chiara è ancora vivo nel mio cuore”.
Da quel momento i nostri destini si legarono come un nodo tra due corde e i miei occhi tornarono a brillare come stelle nel firmamento.

Il 20 aprile 1970, il vecchio signore mi invitò a cena e conobbi i membri della sua famiglia e sua figlia Alba che nel suo portamento mi ricordava mia moglie Chiara. Era giovane e attraente con una voce ammaliante. Potevo stare ore e ore ad ascoltarla senza annoiarmi. Fu amore a prima vista e quella sera la trascorsi nel suo letto.
Ormai, le mie visite a casa Bernardini diventavano sempre più frequenti e un pomeriggio mi ritrovai con il vecchio capo di famiglia nella sua cantina.
“È qui che mi piace trascorrere gran parte della mia giornata. Amo collezionare bottiglie di vino pregiato di ogni provenienza e annata”, disse gelosamente.
Nella cantina, le bottiglie erano distribuite in appositi alloggi di legno pregiato intagliato a mano e disposti lungo le pareti. La stanza era intrisa del profumo del mosto.
“Senti che profumo? Non è arte anche questa? Tu ami dipingere, io amo collezionare bottiglie di vino” disse mostrandosi così fiero della sua collezione.
Annuii senza rispondere. Non volevo contraddire l’uomo che avevo di fronte. Era felice in quel momento e deluderlo era l’ultima cosa che desideravo.
“Francesco…”, tossì più volte, “Ormai, sono molto vecchio e pieno di acciacchi. Mia figlia è nell’età giusta per sposarsi e ha bisogno di un uomo che le stia accanto e che si prenda cura di lei in futuro. Io ormai ho adempiuto al mio compito di padre. Devo dirti una cosa che non farà felice la mia famiglia… nessuno ne è a conoscenza… solo mia moglie e io…”, prese fiato, “sono molto stanco e malato… e benché sono ricco, i medici, tra i migliori che potessi scegliere, non mi hanno dato molte speranze… voglio che ti prenda cura della mia famiglia. La Reggia Bernardini è vostra. Ogni cosa che mi appartiene è vostra se sposerete mia figlia. Allora, figliolo… che ne dite di brindare al vostro imminente fidanzamento?”. Tossì ancora e si portò una mano alla bocca: un grumo di sangue gli uscì dalla bocca e capii che era prossimo alla morte.
“Quanto tempo vi resta…”
“Qualche mese ancora… ma prima di chiudere gli occhi voglio accompagnare mia figlia all’altare”.
“Voi non potete saperlo ma io amo Alba. Ci vediamo di nascosto perché avevamo paura che non approvasse. Non so ancora come sia successo ma mi sono innamorato di Alba il giorno stesso che l’ho incontrata. E allora, si, accetto!” risposi entusiasta.
A sera, tornai a casa con la gioia negli occhi e mi addormentai ben sapendo che la mia vita aveva preso la giusta direzione.

Quando le prime luci del mattino illuminarono la mia stanza, qualcuno bussò con insistenza alla porta di casa. Era il maggiordomo della famiglia Bernardini.
“Francesco, vi chiedo scusa per l’ora, è urgente e dovete seguirmi subito!” boccheggiava.
Mi vestii in un lampo. Poi, corsi a casa Bernardini dove giunsi madido di sudore.
Allo stupore iniziale, seguì il terrore quando vidi la tela raffigurante il volto di Chiara. La sua espressione era cambiata. Il suo ritratto piangeva e delle vere lacrime scendevano lungo il suo viso come se disapprovasse quello che avevo fatto: ripensai alle parole dette nel giorno della sua morte: “Ti amo Chiara… non amerò nessun’altra donna dopo di te… addio amore mio…”. “Mio Dio!” furono le mie ultime parole alla vista del quadro prima che intorno a me diventasse buio.

Quando ripresi conoscenza era già sera e mi svegliai in un letto a baldacchino nella Reggia Bernardini, terrorizzato a morte e inconsapevole presi a vagare per le stanze in cerca di Alba. Il cuore mi batteva forte, madido di sudore e ansimante, camminavo e barcollavo, rimanendo a stento in piedi.
L’atmosfera era tetra.
Il pianto di una donna riecheggiava nell’aria accompagnandomi fin al piano di sotto, nella sala dei ricevimenti.
Scesi le scale tenendomi ben saldo ad esse per non cadere giù. Poi, entrai ancora tremante e infreddolito nella grande sala dove mi stavano aspettando: calò il silenzio e gli occhi di tutti i membri della famiglia Bernardini e della servitù erano puntati su di me. La tela di Chiara era appesa alla parete centrale ed era come l’avevo dipinta con il volto sorridente. all’improvviso il ricordo del giorno precedente riaffiorò minaccioso. Le finestre si aprirono spinte dal vento e le candele si spensero all’improvviso: il freddo gelò il mio cuore. Il fuoco nel camino divampò per la sala mentre lo spettro di Chiara si dirigeva verso il sottoscritto, fissandomi con i suoi occhi plumbei. In mano, stringeva un coltello che mi conficcò nel petto. Mentre mi colpiva più volte, mi malediceva. Poi, ormai a terra moribondo, mi sussurrò: “Bugiardo! Avevi promesso che sarei stata l’unica donna della tua vita…”. Piangendo scomparve nel nulla tra l’incredulità dei presenti.
La luce nei miei occhi, già fioca, si spense per sempre.

Autore: jolly76

Sono nato a Bari. Amo leggere libri di ogni genere. Amo scrivere... Accetto le critiche...

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