È una giornata grigia e fredda, piove da alcuni giorni, la pioggia tamburalla sui tetti delle case, senza fermarsi un attimo, mentre fisso la parete, seduto sul letto di mia figlia, tra i suoi pelushe colorati, respiro ancora il suo profumo, mi accorgo di un buco nel muro. Né piccolo né grande, ma pur sempre di un buco nel muro si tratta, che mi angoscia. Sul comodino c’è ancora il libro, che le ho regalato il giorno del suo compleanno, mentre i suoi ricordi sono ovunque: sulle pareti, nei cassetti della scrivania, nell’armadio. Ogni cosa è rimasta al suo posto, è tutto così in ordine, come se il tempo si fosse fermato nella sua stanza. Ma la tempesta imperversa, sembra che voglia entrare e mettere a soqquadro la sua camera, nonostante siano passate solo due ore dall’incidente.
Chiuso tra quattro mura, rifletto. Sbuffo. Ma un botto improvviso mi turba: sobbalzo dal letto ancora frastornato. Mi guardo intorno inebetito in cerca di una risposta.
È un attimo, la porta si apre spinta dal vento e urta contro lo stipite facendo crollare un pezzo di intonaco dalla parete. Scrollo le spalle, ancora disorientato. Il gran fracasso mi percuote dal torpore in cui sono precipitato mentre la mia anima è in collera con Dio.
Fuori, il suono gracchiante di un corvo risuona nella stanza di Sofia mentre le lacrime mi rigano il volto. Ecco, smetto di pensare e interrogarmi sul destino e mi avvicino al muro, lì dove c’è quel maledetto buco. Accosto l’orecchio proprio in quel punto e ascolto in silenzio: percepisco solo il mio respiro affannoso ma… all’improvviso avverto, sbigottito, una voce provenire da dietro la parete che mi chiama per nome e piange: “Primo”. È un suono familiare, ma non è possibile, mi sembra di impazzire! Poi infilo, d’istinto, la mano nel buco e qualcosa afferra, con forza, il mio braccio: urlo a squarciagola per il dolore e sobbalzo all’indietro lontano da quella maledetta parete. Mi tocco il braccio, sospiro, per un attimo ho creduto di perderlo, anche se qualcosa di appuntito e tagliente mi ha lacerato la carne.
Sgrano gli occhi, spaventato: qualcosa si nasconde lì dietro e mi ha ferito. Del sangue esce da due solchi profondi scavati nella mia pelle e… cade sul pavimento.
La stanza oscilla, barcollo, avverto un senso di nausea. Qualcosa di marcio pulsa nelle mie vene, lo sento, mentre una fitta al petto mi toglie il respiro.
Quando riapro gli occhi, è ancora buio. Mi alzo e raggiungo la finestra, guardo fuori: ha smesso di piovere. Il vento leggero muove le fronde degli alberi mentre un gatto nero salta sul muretto, ma prima di cadere giù, si volta e incrocia il mio sguardo: arriccia il pelo e mostra le unghie, poi scompare nell’oscurità. Rabbrividisco.
Decido, in quel momento, di aprire quel buco. Per tutta la notte, butto giù pietra dopo pietra, fin quando il buco è così grande da poterci passare.
Una volta al di là della parete, mi ritrovo catapultato in una stanza umida e ammobiliata. Ha finestre murate e il suo odore nauseabondo mette a dura prova il mio stomaco. Mi guardo intorno, scorgo una corda appesa a una trave e resti di ossa per terra. Ossa umane sepolte dietro la stanza di Sofia, mi viene il vomito. Le mie gambe vacillano ma non ho intenzione di fermarmi: quale verità è sepolta qui dentro?
Attendo di svegliarmi, forse è solo un incubo: “Sono qui” urlo a squarciagola contro l’irrazionale ma non succede nulla. “Sono qui” ripeto ancora una volta ma la mia voce si perde nel vuoto. Sto impazzendo.
Faccio un passo indietro, il buco è alle mie spalle, pronto a risucchiarmi dall’altro lato.
Il suolo sotto i miei piedi incomincia a tremare. Rumori di passi sembrano avvicinarsi al mio cospetto mentre qualcuno, forse è suggestione, continua a piangere: “Papà, perché l’hai fatto!”. Il buco dietro le mie spalle crolla: sono sepolto qui.
Disperato, guardo quelle ossa. Prendo coraggio, mi avvicino, quasi strisciando, adesso ricordo: è la mia tomba, sono io che vivo, condannato, dentro questo maledetto buco.