Paralipomenos
“L’universo non conosce la sofferenza. Invece per noi che abitiamo nel suo ventre, ogni frangia di costa che giace sul mare è una lacrima della terra mai asciugata dal sole.”
Jonas dopo la sua morte.
Nonostante il suo sguardo fosse attratto da quell’assoluta armonia, non riusciva a distoglierlo del tutto dalle pieghe del mondo che aveva lasciato sotto di sé; e poco più in rilievo, tra quello sfacelo e il relitto dei suoi sensi, vide emergere il suo corpo come una spuma dall’oceano. Non provò alcuna compassione, alcuna nostalgia per esso.
Fuggiva dal disordine disgregante della sua antica dimora, per aderire all’altro ordine nascente che aveva davanti a sé. Fuggiva ma non provava angoscia. Era felice. Intuiva che un nuovo universo stava preparandosi, e non voleva perdere l’occasione di assistere a quel parto.
Accanto a sé esistenze puntiformi piroettavano euforiche; il loro viaggio preso singolarmente era confuso e criptico, ma se Jonas le raggruppava con lo sguardo, emergeva uno stormo coerente alla forma del vuoto. Si formò così una stella marina, evanescente e luminosa, ma ineffabile. Jonas non fece in tempo a soffermarsi su di essa che presto la inghiottì un ennesimo collasso.
E allora, dissipata dal cielo che aveva stirato i suoi lembi, si scompose in altre forme figlie, più piccole, più luminose, più sapienti.
Non c’era tempo per nessun individuo. Ogni cosa viveva fragilmente nella totalità dell’istante. Stava imparando, Jonas, a non soffrire.
All’infuori di quella felicità che era divenuta la sua nuova fonte di vita, ogni emozione ogni dolore che credeva di provare quando quelle forme gli passavano accanto, era un residuo del corpo di cui si era liberato. Doveva frammentare il suo Io, dissociare la sua memoria. Stava imparando a non appropriarsi di quell’amore, ma a desiderarlo nell’istante. E comprese d’essere solo forma e non più anche materia, d’essere un aggregato intelligente al di là dell’acqua e del carbonio.
Quel nuovo universo di cui ormai faceva parte non era disordine. Gli elementi che lo costituivano transitavano fra stati accessibili al sistema secondo regole precise ed eleganti.
Ogni stato dipendeva dagli stati vicini, perciò quel caos doveva essere deterministico. Ciascun elemento aveva una propria storia, era un detrito di un mondo estinto.
Sicché Jonas, l’incorporeo pellegrino del caos, provò ad oscillare e ciò determinò una serie di eventi: riuscì a rompere la simmetria di un grumo di elementi che diedero vita ad altri agglomerati. Si rese conto, dunque, che poteva influire non poco sulla costituzione di quel mondo, che un po’ gli apparteneva, che il suo alito da solo poteva essere la vita e la morte insieme.
Era nato Jonas, in quell’istante limite tendente a zero.
Copyright ©2008 Luca Zammataro
Ciao Luca,
suggestivo il tuo raccontarci questo risveglio. L’allusione ad un mondo diverso, con regole diverse, ma pur sempre regole, sembra proiettare il protagonista verso un futuro nuovo, luminoso, separato dal suo passato ma nel quale comunque potra’ “tenersi occupato”.
Ciao Andrea, grazie per il commento. Ho scritto il racconto diversi anni fa, nel ’94. C’è un riferimento al famoso “Bambino dello Spazio” che appare nella scena finale del film “2001 Odissea nello Spazio” di Kubrick, in cui l’astronauta David Bowman si evolve fino a tornare bambino, e là, oltre Giove, esattamente come Arthur C. Clarke riporta nell’omonimo romanzo, il Bowman-bambino diventa una specie di neo-divinità, intenta alla realizzazione di un nuovo mondo.
Il secondo riferimento è il filosofo Hans Jonas, a cui ho dedicato il racconto. Di lui avevo letto “Dio è un matematico? Sul senso del metabolismo”. La scomparsa di Jonas, nel 1993 mi turbò parecchio, e per un momento, nella mia mente di miscredente ho immaginato la sua incorporea evoluzione, raggiungendo un livello di accessibilità tale da assumere la capacità di mutare “l’immutabile”, attraverso nuove regole dell’Universo..
é bello questo racconto, finora il mio preferito.
Bella l’immagine di una dimensione morbida, in cui fluttare con i sensi con dei tempi tutti nuovi da quelli della vita terrena, con un attaccamento emotivo diverso all’esistenza, morbido anch’esso.