“Dacci oggi il nostro orrore quotidiano”

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Occhiferoci

Pubblicato da mariacristina il 27 novembre 2007

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OCCHIFEROCI


 


Parte prima


 


 


Essere un gatto non è sempre facile, ma essere un gatto randagio, poi, è un’esperienza decisamente difficile.


Occhiferoci lo sapeva bene.


Lo aveva imparato molto presto, all’età di tre mesi, quando, in una torrida giornata estiva, mamma gatta non era più tornata a casa.


Fu così che Occhiferoci e suo fratello Occhidolci erano rimasti soli. Stretti l’uno contro l’altro, all’interno del vecchio rudere fatiscente all’interno del quale mamma gatta li aveva messi al mondo,  sentirono i vapori della calura estiva condensarsi in nubi dense e scure che iniziarono ad agitarsi  minacciose scontrandosi fra loro con un suono cupo e tenebroso. Il rimbombo del tuono e il saettare del lampo li sorpresero tremanti di paura e di solitudine. Per quanto si avvinghiassero l’uno all’altro, non riuscirono ad infondersi coraggio.


La mamma era così calda e morbida.


La fine del lungo temporale li trovò esausti, impauriti ed affamati. Così, quando fuori dalla tana l’acqua smise di scrosciare ed il rombo del tuono si perse in lontananza, Occhiferoci decise che era giunto il  momento di uscire ad affrontare la vita.


I morsi della fame gli laceravano lo stomaco e gli torcevano le budella e, con ogni probabilità, Occhidolci non stava molto meglio di lui.


Fuori, nelll’oscurità priva di stelle, l’aria della notte era umida e gravida di minacce: ma il ricetto non si lasciò intimidire dal buio. Udì i grilli cantare le lor canzone serotina e un’assiuolo che, dall’alto di un ramo lì vicino, ripeteva aritmicamente il su o verso straziante.


Quando i suoi occhi di gatto, fatti per veder tra le tenebre, si furono abituati all’oscurità, Occhiferoci tentò di afferrare una farfalla testadimorto che svolazzava nell’aria bagnata. Quella, però, si cacciò nella crepa di un vecchio muro, sinistro e fatiscente, e da lì prese ad osservarlo con aria di sfida. Lui, allora, soffiò e miagolò minacciosamente per intimorire la possibile preda che, per tutta risposta, si lisciò le ali e cadde in un sonno profondo.


Occhiferoci, allora, si ricordò che la mamma, alcuni giorni prima di partire, aveva catturato degli strani animali pelosi, dalle scure ali, membranose e squadrate. Ne vide uno volare in alto, sotto un palo della luce, e si lanciò all’attacco. Mal gliene incolse: il pipistrello virò velocemente su se stesso e, squittendo il suo lugubre grido di guerra, lo caricò furioso, sfoderando gli artigli lunghi ed affilati.


Il gattino se la diede a gambe, nascondendosi, appena in tempo, sotto un cumulo di foglie ed rami spezzati ammucchiati là dal temporale.


Il topo volante ritornò all’attacco  un paio di volte. Poi, contento in cuor suo della lezione impartita all’incauto aggressore, riprese il suo quieto veleggiare verso la luce.


Quando trovò il coraggio di allungare il musino nero macchiato di bianco fuori dal suo nascondiglio, la brezza notturna aveva allontanato le nuvole e la luna brillava alta nel cielo con tutto il suo corteo di stelle. Vedendo che, all’intorno, ogni cosa appariva tranquilla e in pace, Occhiferoci uscì dal rifugio di rami e foglie umide e iniziò a strusciarsi con cura il pelo bagnato. Mentre si lisciava le ghettine bianche delle sue piccole zampe, riflettè sul da farsi, ma non riuscì a trovare alcuna idea efficacie e costruttiva sul tema: “come fare a procurarsi del cibo”.


Ad un tratto, udì   uno strano rumore provenire dalla parte delle tane dei duepiedi.  Si volse con circospezione, temendo che il pipistrello fosse tornato, ma la luce della luna gli mostrò la sagoma maestosa e possente di Unocchio uscire da uno di quegli strani cassonetti che i duepidi tenevano ai lati delle loro strade.


Fu allora che pensò che, se un gatto forte e coraggioso come quello si nutriva dei loro avanzi, avrebbe potuto farlo anche lui. L’apertura del cassonetto era in alto: troppo in su per un micetto di soli tre mesi. Ma Occhiferoci non demorse: prese la ricorsa e partì per tentare la scalata.  Uno, due, tre, quattro, cinque volte. Tutto inutile. Ad ogni tentativo di salire i alto ruzzolava giù, trascinando con sé nella caduta alcuni sacchetti di plastica che si trovavano in equilibrio instabile sulla cima del cassonetto. Precipitarono al suolo con un gran fragore di cocci rotti e di lattine schiacciate.


A tanto fracasso, le finestre dei duepiedi che vivevano là intorno si illuminarono come per incanto.


Qualcuno gli gridò:” Pussa via, brutto gattaccio nero!” E gli tirò addosso una vecchia ciabatta logorata dal tempo.


Occhiferoci rimase steso in terra, sconsolato e sempre più affamato. Allora tornò all’umido rudere fatiscente dove Occhidolci era rimasto ad attenderlo, silenzioso e speranzoso.


“Mi dispiace, fratello, “ gli sussurrò mogio mogio, “Ma per stanotte sarà meglio dormire. Può darsi che domani la mamma ritorni.”


L’altro annuì: muto. Sapeva bene, però, che niente avrebbe mai potuto ricondurre la mamma alla tana. Mai più. Era andata verso l’autostrada, e nessun membro della tribù felina era mai tornato vivo da lì. Lo sapevano tutti. I gatti erano morti a migliaia, sull’autostrada. Ogni giorno aveva le sue vittime. Ma l’autostrada era solo uno degli innumerevoli mostri con i quali i due piedi stavano deturpando e distruggendo il pianeta Terra.


Tante volte, nelle notti di luna piena, quando i gatti della tribù della Valle Verde tenevano i loro conciliaboli, i felini più saggi ed anziani miagolavano tutto il loro disappunto al cielo lontano. Da anni, ormai, i duepiedi avevano preso possesso della Terra e, con fredda e studiata metodicità, la stavano distruggendo. Le loro fabbriche ammorbavano l’aria e rendevano scura ed opaca la volta celeste; i loro rifiuti infestavano il mare e le foreste; le scorie delle loro attività produttive intossicavano i laghi ed i fiumi; le loro armi distruggevano e devastavano con crudeltà inaudita anche gli angoli più remoti del pianeta e le loro città si espandevano, di giorno in giorno, come cancri mostruosi e malefici assassinando gli alberi e le foreste; privando tutti gli animali, che di diritto abitavano la Terra, anche dei più piccoli spazi dove vivere.


Ma ciò che il popolo dei gatti temeva di più erano le strade: quei lunghi e crudeli nastri di asfalto che tagliavano in due i loro territori e le loro vite. Tutti i felini odiavano quegli orribili mostri fumanti che, lanciati a velocità supersoniche, impedivano agli animali di spostasi e di viaggiare, seguendo i ritmi naturali che, per millenni, avevano segnato le loro esistenze. Non c’era più spazio per i popoli nomadi, sul pianeta. I duepiedi avevano rinchiuso le tribù feline in degli spazi angusti dai quali era impossibile uscire. Non c’era più modo di andare da una parte all’altra dell’orizzonte ad incontrare i fratelli che vivevano altrove. I mostri di ferro, lanciati a folle velocità sulle strade, lo impedivano.


Eppure, i gatti dovevano andare. La gravità della situazione richiedeva che le tribù si tenessero in contatto fra loro. I felini avevano un’eredità importante da difendere: una volta erano Dei. Divinità venerate ed adorate a cui gli antichi umani tributavano onori e sacrifici. Per secoli i gatti morti avevano avuto diritto a tombe e mausolei principeschi e gli Egizi avevano venerato Bastet, la gatta nera dagli occhi di giada, come la dea apportatrice di benessere e fecondità.


Ma ora quei tempi erano finiti.


In preda ad un orribile istinto di onnipotenza, i duepiedi credevano di essere gli unici padroni del pianeta dimenticando tutte quelle creature alle quali dovevano amore e riconoscenza.


E i gatti erano rimasti soli a lottare per la loro vita e per la sopravvivenza del pianeta.


A lungo avevano cercato alleati nelle altre creature che popolavano la Terra. Ma gli animali selvaggi erano troppo lontani, distanti dal mondo dei duepiedi per conoscerlo e comprendere il pericolo che essi rappresentavano. Per un certo tempo i felini avevano creduto di poter trovare dei fedeli alleati nella tribù dei cani. Ma essi avevano del tutto perso la loro indipendenza. Erano stati completamente asserviti dai duepiedi dai quali avevano ricevuto cibo e riparo in cambio delle loro anime.


I gatti erano rimasti soli.


  Ad uno ad uno, i più coraggiosi erano partiti, in cerca della loro Regina che viveva nelle terre che gli umani avevano reso  desolate e cariche di ombre umide. Terre Desolate delle Ombre Umide. Ora si chiamavano così, ma un tempo erano state feconde e baciate dal sole.


Anche la mamma, un giorno, era partita. Occhidolci sapeva che non sarebbe più tornata. Occhiferoci, però, era un piccolo micio testardo e temerario e a niente sarebbero valse le sue parole. Eppure, da soli, i due gattini non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivere. Non sapevano cacciare né procurarsi il cibo dai cassonetti. Bisognava trovare al più presto qualcuno che provvedesse alle loro necessità. Ci avrebbe pensato lui, che era bianco e morbido come un batuffolo di lana. I duepiedi lo  avrebbero amato.


L’alba che li salutò era limpida e radiosa e il sole del mattino splendeva su di un mondo lavato e terso dalla pioggia recente. I due cuccioli si affacciarono alla soglia del loro rifugio abbagliati d tanto splendore ed indecisi sul da farsi.


Occhidolci ruppe gli indugi:” Andiamo.” Disse, ostentando la sua aria più sicura e coraggiosa e si avviò, dritto ed impettito, verso le case dei duepiedi.


Occhiferoci tentò di trattenerlo ma, vedendo che i suoi sforzi erano vani, gli trotterellò dietro, miagolando tutto il suo disappunto.


Percorse, così, poche centinaia di metri, giunsero in uno spiazzo erboso che si apriva dinanzi ad una casa di mattoncino rosa, con le finestre dalle imposte verdi schermate a vivaci tendine ricamate.


  Il ricetto bianco ingiunse al fratello: “Dammi una mano, adesso! Abbiamo bisogno d mangiare. Altrimenti moriremo. “ Si sedette sulle zampine posteriori, di fronte alla grande porta- finestra che si apriva sul giardino, ed iniziò a miagolare disperatamente, con tutto il fiato che aveva in gola.


Occhiferoci lo osservò sconcertato. Forse avrebbe voluto chiedere soccorso anche lui,impastando l’erba con le zampette magre o ronfando rumorosamente proprio come, in quel momento, stava facendo suo fratello. La cosa, però, gli riuscì impossibile. L’avversione che provava per i duepiedi era troppo profonda. Lui era  solo capace di soffiare. Era decisamente un micetto selvatico.


Improvvisamente, quasi per magia, la porta-finestra che dava sullo spiazzo verde antistante la casa si illuminò. Qualcuno aveva scostato le pesanti tende ricamate  e da essa trapelò il suono di una voce. “Chi è là fuori?”  Chiese.


Un duepiedi era apparso sull’uscio. Si trattava di una giovane femmina, sottile e slanciata. Sembrava priva di intenzioni ostili. Aveva ancora gli occhi e la voce impastati di sonno. Alla vista di Occhidolci non riuscì a trattenere un gridolino di compiaciuta meraviglia.


“Che bel gattino!” Sussurrò rauca, mentre lui le si fece incontro con le orecchie basse e la coda levata in alto in segno di saluto. Poi la   ragazzina si chinò ed iniziò ad accarezzarlo con tenerezza, mentre Occhidolci non la smetteva più di impastare e ronfare a tutto volume.


Aveva fame e quella era la sua grande occasione di procurarsi un pasto.


Quando la piccola bipede rientrò nella casa, la seguì e si accomodò dinanzi ad una bella scodella di latte.


Alle sue spalle, l’uscio si richiuse.


Fu così che Occhiferoci rimase solo.


Quando il duepiedi era apparso sulla soglia,  il micio nero era rimasto immobile: pietrificato dall’orrore. Era riuscito solamente a lanciare un paio di ringhi soffocati dalla paura, prima di correre a nascondersi, rincantucciato nell’erba alta.


Avrebbe voluto urlare al fratello di non andare, di non lasciarlo solo. Alla mamma non sarebbe piaciuto che loro due si separassero. Ma Occhidolci aveva pensato solo a placare i morsi della fame e la repulsione che lui provava nei confronti dei duepiedi era troppo forte per permettergli di seguirlo. Il ribrezzo era persino più tenace del legame di sangue.


 Così restò da solo, acquattato tra l’erba alta, ad aspettare che quella porta si riaprisse ed il piccolo gatto bianco ne uscisse fuori. Attese a lungo, fino allo spuntare delle tenebre, ma non vide più suo fratello. Era rimasto prigioniero nella casa dei duepiedi.


Così, quando il tramonto coprì della sua luce rossastra il cerchio dell’orizzonte per svanire, poi, piano piano, nel buio soffocato della notte, solo e sempre più disperatamente affamato, si trascinò faticosamente al vecchio rudere umido e muschioso dove loro de avevano trascorso i primi mesi di vita.  Mentre percorreva mogio mogio la via del ritorno, passando dinanzi al solito cassonetto della spazzatura, si imbattè in Unocchio che pasteggiava, come sempre, con gli avanzi dei banchetti altrui.


Era un vecchio gatto rosso, ancora forte e muscoloso, che da anni regnava sovrano sui felini che vivevano nella Contea della Valle Verde. Si chiamava così dal giorno in cui, in seguito ad un furioso combattimento con l’antico regnante di quei luoghi, era rimasto orbo. L’altro gatto, però, aveva avuto la peggio e, non riuscendo ad accettare la superiorità del nuovo capo, era fuggito via, lontano, e di lui si era persa ogni traccia. Nel corso degli anni, anche Unocchio aveva avuto il suo bel da fare a rintuzzare gli attacchi dei nuovi pretendenti ma, anche se con il passare del tempo i suoi sfidanti si facevano sempre più numerosi ed agguerriti, il gatto guercio continuava a conservare il suo potere e, a ragione, poteva ritenersi il padre di ogni nuovo nato nella zona.


Occhiferoci ricordava che, una volta, la mamma gli aveva narrato cose strabilianti sul suo conto. Gli aveva persino detto che in giro si mormorava che avesse perso uno dei suoi occhi verdi come giada combattendo al servizio della Regina madre dei gatti nelle Terre desolate delle Ombre Umide. A detta di tutti nessuno, tranne Unocchio, era mai andato tanto lontano.


Ma ciò era accaduto tanto tempo fa.


Tuttavia, era ancora così forte e possente che, quando lo vide, il micino nero si fece minuscolo e si appiattì al suolo, tentando di passare inosservato.


Ma l’altro lo aveva già notato:” Come va, piccolo?” La sua voce La sua voce robusta lo apostrofò amichevolmente. “Ti vedo giù di corda, stasera.”


Occhiferoci  flettè le zampe posteriori e alzò la coda, in segno di sottomissione. “Sono disperato, Unocchio.” Rispose con un miagolio colmo di lacrime.  “Mio fratello, Occhidolci, è sparito nella casa in fondo alla strada. Non so che fare! Non posso lasciarlo solo, ma devo andare a cercare la mamma.”


“La mamma, eh?” Rispose l’altro perplesso, evitando di fissare l’unico occhio rimastogli in quelli ancora azzurri del cucciolo. Poi gli fece cenno di avvicinarsi:”Vieni qua, piccolo. “Ordinò con aria paterna. “Mangia un boccone.  . .  Ti ho notato, l’altra notte, mentre andavi a caccia. Hai della stoffa, sai? “ Così dicendo si allontanò leggermente dagli avanzi che stava mangiando, facendogli posto.


Occhiferoci non si lasciò ripetere due volte l’invito. Si avvicinò famelico e divorò in un lampo ciò che rimaneva del pasto di Unocchio. Quando si fu rifocillato a dovere ed ebbe ripreso coraggio, il ricetto espose brevemente la situazione al gatto vecchio e saggio, chiedendoli consiglio sul da farsi.


Unocchio scosse il capo sconsolato: “Non so che dirti, piccolo.” Rispose cupo. “ Due giorni fa ho visto tua madre, Zampaveloce, dirigersi verso l’autostrada. E’ un brutto posto, quello. Un posto dal quale non si torna mai indietro vivi. Ma era giunto il suo turno. Sai, gattino, quando viene la tua ora e le divinità feline ti chiamano per andare nel regno delle Ombre Umide, non ti puoi rifiutare, anche se hai due mici piccoli con te. Devi partire e basta. Non c’è altra strada. Tua madre lo sapeva. Ne parlammo a lungo la sere prima che lasciasse questa vallata. Era dolente e preoccupata per voi due, anche se sapeva che tu eri forte e ce l’avresti fatta. Le ho promesso che avrei vegliato su di te. Se lei non fosse più tornata, io sarei stato i tuo maestro e la tua guida.” Si fermò un attimo silenzioso a scrutare l’espressione angosciata del gattino, per riprendere subito dopo:” Tuo fratello è diverso. Lui non ha la forza del gatto randagio. Conosco bene la casa in cui si è andato a cacciare. Diventerà gonfio di cibo, ma privo di libertà e di desideri. Tu lascialo perdere. Non uscirà mai più da lì. Credimi. In fin dei conti, ha trovato la sua strada: diventerà un giocattolo dei duepiedi, ma sopravviverà e non morirà di fame.”


Vedendo che il gattino lo fissava con occhi colmi di lacrime, il vecchio gli diede un amichevole buffetto sulla guancia e strofinò la sua fronte ruvida e coperta di croste contro il nasino rosa e umido dell’altro.


“Coraggio, piccolo,” lo rincuorò. “ Rimani con me. Ti insegnerò a cacciare e ti aiuterò a crescere grande e forte. Vedrai che e la farai . . . Io so che hai la stoffa del capo.”


Occhiferoci lo guardò con gratitudine e reclinò capo ed orecchie in segno di sottomissione. Poi si annusarono reciprocamente strofinandosi il naso.


“Andiamo, adesso.” Ordinò il vecchio capo. E Occhiferoci lo seguì verso una nuova vita.


Diventare adulti non fu semplice. La ricerca di cibo costituì sempre l’occupazione principale delle sue giornate. Unocchio gli aveva insegnato a catturare e ad uccidere le prede, ma, nei corti e freddi giorni che il gelo dell’inverno portò con sé, le piccole creature di cui lui si nutriva stavano ben riparate al calduccio. Allora, tutti i gatti della via si affollavano affamati intorno al cassonetto della spazzatura, e la competizione per gli avanzi del pasto dei duepiedi si faceva durissima.


Vide suo fratello solo un paio di volte, quell’inverno. Era diventato così morbido e rotondo da sembrare finto. Spesso attese, sotto i davanzali della casa di mattoni rosa, che Occhidolci gli rivolgesse la parola o almeno il cenno di un saluto.


Invano.


Viveva con altri due gatti, tondi e morbidi come lui, e sembrava si vergognasse di quel randagio nero e famelico nelle cui vene scorreva il suo stesso sangue. I duepiedi dovevano avergli preso l’anima.  Non poteva esistere nessun’altra spiegazione per quel comportamento così strano e crudele.


La padrona della casa dai mattoni rosa, poi, tutte le volte che lo vedeva aggirarsi nei dintorni, gli urlava una marea di incomprensibili improperi e gli gettava addosso secchi d’acqua gelata.


Occhiferoci, però, non si lasciò intimidire.


Ma, quando le giornate iniziarono ad allungarsi e l’aria divenne tiepida, un’altra catastrofe si abbatté su di lui. Unocchio iniziò a tossire, di una tosse secca e stizzosa che non lo abbandonava mai e gli impediva persino di reggersi sulle zampe e di mangiare. Morì nel giro di una settimana, lasciando il suo giovane amico solo e sconsolato.


Prima di andarsene via per sempre, il vecchio guerriero lo chiamò a sé. “Occhiferoci,” sussurrò con l’ultimo soffio di voce, “tu sei un gatto forte e coraggioso. So che te la caverai benissimo anche senza di me . . . ma so anche che soffri per la freddezza di Occhidolci . Non è colpa sua. Sono stati i duepiedi.   Gli hanno rubato l’anima. Non c’è niente che tu possa fare. Solo la Regina Madre dei  Gatti che vive nelle Terre Desolate delle Ombre Umide potrebbe aiutarti. Ma il viaggio è così lungo e pericoloso . . . Ci hanno provato in tanti a raggiungerla . . . Ma nessuno . . . nessuno . . . “


La voce gli morì nella gola ed Unocchio rese l’anima al Dio dei felini con un singhiozzo lungo e doloroso. A Occhiferoci, che avrebbe voluto porgli chissà quante domande, non restò altro da fare che guardarlo spegnersi in silenzio. Poi, dinanzi al corpo magro ed emaciato del vecchio amico, che una volta era stato così forte e possente,  ormai privo di vita, sentì lacrime salate e cocenti corrergli giù dagli occhi color del mare in tempesta. Le sentì scendere fino in gola.


Non fece nulla né per trattenerle né per asciugarle. Era giusto piangere. Non lo aveva fatto né per sua madre né per suo fratello. Ma ora sì. Per la prima volta nella sua vita, comprendeva il significato della morte.


I gatti randagi del quartiere vegliarono con lui, stretti in cerchio intorno alla figura del capo defunto.


Pur se assorto nel suo dolore, Occhiferoci comprese che lo avevano designato quale successore del vecchio re.


Ma non gli sarebbe stato possibile restare.  Sapeva di avere una missione da compiere. Doveva raggiungere la regina madre dei gatti e liberare l’anima di Occhidolci prigioniera dell’incantesimo dei malvagi duepiedi.


Quella notte i gatti tennero conciliabolo. Erano giunti inviati da ogni parte della verde vallata a rendere omaggio alle spoglie del capo.


Il micio nero dalle ghette bianche li osservò con apprensione mentre, riunitisi in circolo, con le zampe dritte e le code levate in alto, alzarono il loro acuto miagolio verso la luna piena che splendeva, serena e solitaria, nella volta celeste.


Occhiferoci comprese che quello era il modo in cui la comunità dei gatti dava l’addio ad Unocchio  e che, con le loro voci, i piccoli felini guidavano l’antico capo lungo i sentieri che portano all’oltretomba.


Poi, cinque mici grandi e robusti, dal corpo e dalla pelliccia segnati dalle innumerevoli battaglie della vita, si staccarono dagli altri e si diressero verso di lui. Erano i capi delle cinque tribù feline che popolavano la vallata verde. Per tutta la vita avevano riconosciuto Unocchio quale loro sovrano.


“Tocca a te, adesso.” Gli disse un grande gatto tigrato, dai muscoli possenti e dalla testa rotonda. “Unocchio ti aveva scelto. Sapeva che noi avremmo obbedito.” Gli prostrò dinanzi, imitato dagli altri capi e da tutti coloro che erano presenti alla cerimonia.


Occhiferoci si schernì. “Non posso fratelli. Ho una missione da compiere. Unocchio mi aveva scelto per questo. Devo andare nella terra delle Ombre Umide e trovare la Regina Madre dei Gatti. Solo così l’incantesimo che ci tiene schiavi dei duepiedi sarà spezzato e noi torneremo ad essere liberi abitanti di questo pianeta.”


“ Dici bene, piccolo.” Un vecchio gatto dalla pelliccia striata di rosso si avvicinò e gli strusciò la fronte contro la sua. “ Ma è un’impresa rischiosa. Troppo rischiosa. E nessuno è mai tornato vivo da quel viaggio. I nostri gatti migliori sono tutti morti sull’autostrada. Anche tua madre. Lo sai. Rimani con noi. Sarai il nostro capo. Abbiamo bisogno di qualcuno giovane e forte che ci guidi. Noi cinque siamo vecchi e stanchi. Carichi di anni, di battaglie e di acciacchi. Abbiamo bisogno di te. Unocchio voleva che fossi tu a prendere il suo posto. Per questo ti aveva allevato.”


Occhi feroci si schernì ancora. Poi, chinandosi sulle zampe anteriori al cospetto di quei cinque gatti così venerabili e potenti promise:” Tornerò. Unocchio mi ha allevato perché potessi compiere la mia missione.  Sapeva che dovevo partire. Ma abbiate fiducia in me. Non morirò nell’attraversare l’autostrada, e nemmeno nell’affrontare le mille prove che l’impresa richiederà. Tornerò. E allora sarò il vostro principe. Non adesso. Per ora, raccogliete voi cinque l’eredità del re e governate insieme, in pace e fratellanza su questa valle in attesa del mio ritorno.”


Nessuno proferì più parola e Occhiferoci rimase accucciato da solo, in silenzio, a vegliare per l’ultima volta colui che era stato la sua unica, vera famiglia.


Così, quando sul fare dell’alba i netturbini portarono via la povera carcassa senza vita, Occhiferoci prese congedo dalla sua tribù.


Lo lasciarono andare senza dire una sola parola, ma lui vide che i più vecchi scuotevano il capo in segno di profondo disappunto. Erano sicuri che non sarebbe più tornato indietro. Per raggiungere la loro sovrana, bisognava attraversare l’autostrada. Nessun gatto, ormai da molti anni, ne era mai uscito vivo. L’ultimo era stato Unocchio.


Si guardò intorno. Non aveva niente da portare con sé. Nessun altro da salutare. Avrebbe voluto rivedere suo fratello, ma ci rinunciò. Sapeva che la sua freddezza lo avrebbe fatto soffrire.


Fine I parte


Maria Cristina

7 Commenti a “Occhiferoci”

  1. Ilaria dice:

    Non vedo l’ora di leggere il seguito!!!Complimenti!!

  2. emmaus 2007 dice:

    Cara Maria Cristina,
    ho letto con piacere il tuo “Occhiferoci” e siccome vuoi una critica attenta, ti segnalerò due o tre cosette. Non te la prendere, non è nulla di grave. Allora, per prima cosa ci sono un po’ di errori di battitura che puoi eliminare facilmente, poi c’è qualche ripetizione di termine e qualche periodo un po’ troppo lungo, soprattutto all’inizio, anche quelli subito risolvibili. Un’altra cosa: dopo un discorso tra virgolette, tipo “Ciao, come va?” disse lui, il disse dev’essere minuscolo. A parte tutti questi dettagli insignificanti, ma che diventano importanti se passati all’esame di una casa editrice, la storia è interessante e articolata, quindi aspetto di leggere il seguito. Ciao! A presto!

  3. Andrea dice:

    Ciao Maria Cristina,
    non trovo molto da aggiungere a quello che ti ha detto Emmaus. Visto che vuoi una critica spietata, mi permetto di essere un po’ piu’ pignolo del solito. Tieni presente comunque che a me il racconto e’ piaciuto :)
    Io rivedrei un po’ i dialoghi. A me a volte sono sembrati un po’ zoppicanti, nel senso che non scorrono fluidamente come farebbe un colloquio vero. Hai provato a leggerli ad alta voce? A volte aiuta a “sentire” gli inceppi.
    La parte del riconoscimento di Occhiferoci come nuovo re a me e’ sembrata un po’ troppo retorica e stereotipata, ma l’importanza di questo dipende da che tipo di pubblico punti a raggiungere. Stessa cosa per la parte moraleggiante/ambientalista su quanto sono cattivi gli esseri umani.

    Per un giudizio piu’ completo devo aspettare la seconda parte :)

  4. maria cristina dice:

    Grazie per i giudizi spassionati. Per quanto mi sforzi, da sola certe cose non le vedo. Ciao, a presto.
    macrina

  5. Chris84 dice:

    Ehm…devo dire che non avevo fatto caso ad eventuali “spigoli” da smussare, forse perchè mi ero totalmente immerso nella storia. Ho supposto che potesse essere una specie di “favola” per bambini (anche se il tema della cattiveria umana non è un argomento per bambini) Secondo me il tuo racconto tutto sommato fila liscio come l’olio!

  6. maria cristina dice:

    In effetti vorrebbe essere una specie di favola per bambini, anche se qualcuno mi ha fatto notare che certi passaggi sono un po’ complicati.
    Ciao, a presto. macrina

  7. Diego dice:

    Molto bello, complimenti. Sottolineo come già altri che se hai intenzione di sottoporlo ad un editore (e credo che ne varrebbe la pena) converrebbe prima correggere qualche errore di battitura. Mi pare di aver letto 3 volte ‘ricetto’ suppongo un refuso per ‘micetto’, e qualcosina d’altro. Ciò che invece mi è sembrato un pò ridondante sono i paragrafi riguardo gli umani e la conquista del mondo, mi sono suonati un pò eccessivi, inutilmente vetero-ambientalisti in una storia che invece ha dei magnifici pregi come fiaba moderna, un tono soffice e da cartone animato spruzzata qua e la da malinconia e tristezza. Se proprio senti la necessità di quei passaggi riducili comunque a non più di un paio di righe, ma molto meglio sarebbe eliminarli del tutto.
    Prendi quello che dico solo come un mio personalissimo punto di vista, naturalmente, non vorrei sembrarti ne saccente ne presuntuoso. Te lo dico perchè quello che hai fatto mi piace, e sono convinto che tu possa migliorarlo. Hai gusto ed equilibrio nella narrazione, e scrivi in un modo molto interessante, che secondo me potrebbe esplodere se trovassi la maniera di ripulirla da alcune sciocchezzuole. Ti saluto e passo alla seconda parte del racconto!

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