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Ricordi Complessi – 8 – Paolo: Io e la Biella

Pubblicato da piehasen il 25 settembre 2010

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*** “Ricordi Complessi” è una raccolta di racconti che un piccolo editore fa scrivere a quattro vecchi amici rintracciati dopo molti anni (siamo nel 1989 – 1990) per comporre un’opera sugli “anni folli” del Sessantotto. Inframmezzati tra i racconti sono riportati anche i verbali delle riunioni di redazione.  ***

IO E LA BIELLA

 

Lo so che avevo promesso di parlare male di Francesco, ma da quello che sento in giro qui si sono messi tutti a raccontare i fatti loro, e per una volta non ho voglia di fare il bastian contrario: allora racconto anch’io qualcosa di me stesso e di come ero da ragazzo.

Oddio, non che sia cambiato molto, almeno per quello di cui si tratta nel pre­sente trattare, continuo a correre in macchina non appena mi é possibile, e un buon motore mi dà la stessa gioia che può dare un buon libro ad Andrea o un buon disco (adesso ci sono il CD, vero?) a Franz. Un hobby é un hobby, e se lo é davvero dura tutta la vita.

Sì, ho sempre avuto la passione dei motori, e senza essere impotente o finoc­chio il Rimorchiatoio mi interessava in sé e per sé più che per la sua funzione. E visto che avevo degli amici che condividevano questa passione, la passione stessa per un certo periodo avevamo potuto anche concretizzarla.

Nella primavera del settantatré io, Rudy e un altro amico di nome Cesare fa­cemmo il gran salto e ci comprammo a rate un kart di seconda mano, facendo cambiali e salti mortali per trovare chi ce le avallasse (allora a vent’anni si era an­cora minorenni). La società avrebbe dovuto funzionare al trentatré virgola tre per cento: avremmo guidato il mezzo a turni rigorosi, una volta io, una volta Rudy, una volta Cesare, prima in allenamento, poi in gara quando ci fossimo sentiti pron­ti. 

Per allenarci avevamo scelto la pista rossa di Vimercate, un vecchio impianto ormai abbandonato dove andavano a provare tutti i kartisti della Brianza, e per di più ad un tiro di schioppo dalla mia casa di Usmate, dove avremmo tenuto il kart in garage. Per il trasporto del mezzo avevamo considerato l’idea di farci uno degli ap­positi carrelli, ma ci rinunciammo subito per mancanza di fondi, e stabilimmo che avremmo benissimo potuto caricarlo sul tetto della Fulvia di mio padre o della cen­toventisette di Rudy (Cesare aveva un cinquecentino, truccato finché vuoi, ma il tetto di tolla non l’aveva rinforzato).

C’era poi il lato meccanico, ossia gli attrezzi ed i pezzi di ricambio, nonché l’of­ficina. Riattammo il mio garage di Usmate a locale di manutenzione, i ferri ce li mise Cesare, e i pezzi di ricambio si incaricò Rudy di procurarceli, non appena ci fossero serviti.

Tutto a posto, quindi: il giorno che ci arrivò il kart eravamo emozionati come tre collegiali al ballo delle debuttanti. E quando il tizio – un buzzurro di Lesmo dalla faccia patibolare ed i modi spicci del campagnolo, pochi maledetti e subito – arrivò su ad Usmate non stavamo più nella pelle, e quasi strappammo il nostro te­soro giù dal carrello per rinchiuderlo immediatamente nel Fort Knox del garage.

Certo, la realtà é ben differente dall’aspettativa, perdonatemi la banalità del luogo comune, ma questa volta non trovo proprio le parole per descrivere la nostra delusione. Un ammasso di rottami, più che un kart: non c’era un pezzo che non fosse per lo meno allentato, se non completamente usurato. Restammo per più di mezz’ora a guardarci in faccia senza che nessuno dei tre avesse il coraggio di dire quello che tutti pensavamo: amici miei, ci siamo fatti dare una bella fregatura. Poi fu Rudy a fare la prima mossa: si sedette al posto di guida e cominciò a regolare il sedile per le sue gambe lunghe, senza una parola. Poi si mise a girare il volante a destra e a sinistra, ritmicamente, socchiuse gli occhi, sembrava un matto.

Io invece avevo capito benissimo cosa stava facendo: si stava immaginando il kart in assetto da gara, come sarebbe stato guidarlo sulle tortuosità di una vera pi­sta, in mezzo ad altri concorrenti. Io e Cesare ci guardammo negli occhi, poi co­minciammo pian piano a fare il verso del motore, accompagnando i cigolii dei pneumatici davanti che ruotavano ritmicamente sul pavimento di piastrelle: squish, squash, vroom, vroom, rooaaarrr, roooaaarrrr…

Rudy alzò gli occhi, e fu un momento bellissimo. Il suo sorriso era quello del fanatico, ma con qualcosa di dolce: amici, sarà dura ma ce la faremo se restiamo uniti come adesso. E scoppiammo a ridere tutti e tre insieme, e ci demmo subito da fare.

Non so tuttavia cosa avremmo combinato se non ci fosse stato Cesare. Era uno col pallino dei motori, e con quella rara capacità di intuire la psicologia di una macchina in modo da capire cosa aveva davvero nella pancia prima ancora di svi­tare il primo dado. In più aveva quell’abilità mostruosa dei veri artisti: l’avevo visto più di una volta smontarsi la moto per intero e ricostruirla pezzo per pezzo. Quan­to alla Cinquecento, l’aveva personalizzata abbassando la testata, mettendoci un carburatore in più e non so che altre diavolerie, fatto sta che una volta l’aveva lan­ciata in autostrada con me dietro con la Fulvia, ed aveva sfiorato i centotrenta.  Po­trei fare di più, aveva detto alla fine, a patto di cambiarle il motore, mi basterebbe quello dell’ottocentocinquanta, tanto per restare in FIAT, ma non mi fido con tra­smissione, sospensioni e stabilità. E da questa frase si capisce benissimo come non avrebbe mai potuto pilotare il kart in gara, ma soltanto metterci le mani.

Un tipo del genere vedeva insomma il kart come io potevo vedere il  Rimorchia­toio: in sé e per sé e non per la sua funzione. Vale a dire che lo  vedeva come un motore (che doveva andare ad un certo regime) collegato con  le ruote (che doveva­no avere una certa aderenza) mediante la trasmissione e  le sospensioni (che dove­vano essere regolate in un certo modo per far  restare il mezzo in strada). Che poi ci fossero un sedile, un volante, quattro freni, due pedali, era un fatto del tutto acces­sorio. Gli mancava  lo spirito del pilota, che invece avevamo io e Rudy.

Per noi due infatti il mezzo era vivo, e ci dovevano pensare i dottori come Ce­sare a mantenerlo in buona salute. Certo, anche noi potevamo diagnosticargli un raffreddore e avvertire chi di dovere, ma era un fatto accessorio: il nostro rapporto con il mezzo iniziava dall’accensione del motore. Non vorrei diventare lirico, ma sentirci i cavalli scoppiare sotto  il sedere ci dava un’eccitazione credo paragonabile a quella del cow-boy alle prese con lo stallone selvaggio, controllarlo in una curva difficile era una vittoria, tirarlo al massimo una sfida, uscire di strada una  benevo­la concessione, anche se non é che lo facessimo apposta.

Insomma, era un trio ben assortito il nostro, e le prime uscite alla pista rossa delinearono vieppiù i ruoli: io prima guida, Rudy rincalzo, e Cesare capo officina.

La Biella arrivò in pista la terza volta che ci andammo. Il kart aveva ancora qualche difficoltà di assetto, e Cesare voleva provarlo di persona per poterci mettere le mani con cognizione di causa. Lo facemmo partire e ci stravaccammo a fumare e chiacchierare del più e del meno, tanto il tecnico avrebbe girato a basso regime per una buona mezz’ora prima di aver bisogno d’aiuto. C’erano in pista altri tre kart, gente che stavamo imparando a conoscere, d’altronde ognuno si faceva i fatti suoi. 

Ed ecco arrivare un’ottocentocinquanta (berlina, neanche coupé) con  attaccato dietro un carrello con un kart rosa. Rosa!!?? C’è quanto basta per farci drizzare le antenne. Scende una figura in tuta e casco integrale con vetro affumicato, con tre mosse slega il kart, lo solleva, lo tira giù dal carrello, lo spinge fino alla pista, poi si volta verso di noi e dice con voce femminea: Voi due che non state a fare un cazzo, perché non mi  aiutate a partire?

Siamo troppo sbalorditi per obiettare. Una ragazza kartista non si é  mai veduta, per di più va in giro da sola ed ha bisogno di mendicare una spinta per partire. Ci guardiamo negli occhi, alziamo le spalle e il sedere per aiutarla. 

Per chi non lo sapesse, un kart da corsa é completamente privo di  frizione: ha un rapporto diretto che permette, quando il motore tocca i quattordicimila giri, una velocità di punta di circa centoquaranta all’ora. Naturalmente questo limite può es­sere tenuto per non più di un paio di secondi, pena sbiellare rovinosamente, ma tali sono le possibilità di questi motori. Il difetto é che il mezzo non può partire da fermo: occorre che due persone lo sollevino da dietro, si mettano a correre spin­gendolo come una carriola, tipo partenza del bob, poi ad un tratto mollino tutto, e se si é fortunati il kart si avvia, altrimenti bisogna ricominciare daccapo. Era questo che la fantomatica ragazza ci stava chiedendo.

 Il kart rosa partì come una scheggia al primo colpo: anzi, Rudy non fu lesto a mollare il telaio e finì lungo disteso per terra. E iniziò ad inanellare giri ad una frequenza allucinante: ogni quattro tornate doppiava il povero Cesare, che, tutto assorto dai problemi d’assetto, non si era accorto di niente e andava avanti a sin­ghiozzo, rallentando e accelerando nei posti più impensati. E difatti, all’uscita di una curva tra le più impegnative, la fantomatica ragazza se lo trova davanti come un sasso.

Rivedo ancora la scena al rallentatore: un veloce colpo di freno, ed il  kart rosa slitta verso sinistra con tutte e quattro le ruote bloccate, così da trovarsi fuori traiet­toria; ma proprio in quel momento Cesare decide di provare il sovrasterzo, ed ap­poggia a sinistra per subito dopo sterzare pesantemente a destra. Il rosa, con le ruote bloccate, tenta ancora una disperata manovra a destra, ma si aggancia ruota contro ruota con Cesare: entrambi escono di pista in testa-coda, e si fermano fu­manti sul prato. 

Bravi, ci dice uno dei presenti, vi siete incartati con la Biella,  adesso sono cavo­li vostri.

Essí, sono proprio cavoli nostri: infatti la ragazza esce dal sedile come una fu­ria, in un colpo d’occhio ha già visto la sospensione deformata e la ruota a quaran­tacinque gradi, e si avventa contro il povero Cesare, il quale a sua volta, bontà sua, in fondo é stato investito e trascinato fuori  pista da dietro, e quindi vorrebbe dire il fatto suo a questo pazzo che quasi gli ha portato via una sospensione. Quando arri­viamo sul luogo dell’incidente, senza fiato per la corsa, li troviamo che stanno ve­nendo alle mani. Cesare si é tolto il casco e mostra tutto il suo metro  e settanta di biondino faccia d’angelo, l’altra invece é ancora tutta  mascherata e sta vomitando espressioni da trivio.

Quando ci vede se la prende anche con noi: Ah, siete amici suoi? Me l’aspet­tavo, una bella imbarcata di seghe! Adesso mi fate il piacere di portarmi almeno il kart fino al carrello, che da sola con questa ruota come  me l’avete ridotta, Dio fa’, ci metterei una vita!

Sempre più sbalorditi non abbiamo lo spirito di replicare, ci carichiamo in tre il kart rosa e lo portiamo fin sul carrello. Cesare accenna a prendere le funi per le­garlo, ma lei ci caccia via: adesso so cavarmela da sola, grazie mille. E se ne va borbottando su un’intera notte di lavoro per rimetterlo a posto.

Chi é quella pazza? chiedo a uno degli astanti che ha assistito alla scena sog­ghignando tra sé dietro ad una pipa monumentale. É la Biella, mi risponde, non lo sa nessuno chi sia veramente, anzi, nessuno l’ha mai vista in faccia perché non si leva mai il casco. La chiamiamo così perché pare che venga da Biella, avete notato l’accento piemontese?

Rudy e Cesare se la cavarono con qualche battuta pesante e non pensarono più all’incidente: Andrea, che conosce il tedesco, mi ha detto una volta un proverbio di lassù secondo cui non tutti i matti sono in manicomio. Devo  invece confessare che la storia mi aveva colpito parecchio, e del resto la  situazione si prestava molto bene ad un racconto del mistero. Una ragazza che nessuno aveva mai visto, che veniva da non si sa dove, che doveva avere una certa competenza per curare da sola un mezzo come quello (noi che eravamo in tre ne sapevamo qualcosa: avevamo sospe­so studi, tutto quanto, non riuscivamo a pensare ad altro). E mi ero messo in testa di scoprire il suo segreto, se si fosse ripresentata alla pista rossa.

Difatti, una settimana dopo, eccola di nuovo arrivare con il suo kart  rosa. Stavo facendo qualche prova di velocità quando la vidi, e siccome basta un momento di deconcentrazione per perdere il controllo, finii lungo  alla prima curva e mi maci­nai un bel po’ di prato prima di riuscire a  tornare in pista senza far spegnere il mo­tore. Rallentai leggermente  l’andatura per vedere cosa faceva: come l’altra volta, aveva sequestrato due poveri Cristi qualunque per farsi aiutare a partire, ed eccola sbucare dai box in accelerazione.

A noi due: la lascio passare e mi incollo nella sua scia.

Curve e controcurve, da dove sono posso osservare al meglio il suo stile di guida: forse un po’ a strappi, ma terribilmente efficace, soprattutto sembra non aver paura neanche del diavolo. Mi prende subito un  paio di metri, poi nel rettifilo mi riporto sotto: il bifolco di Lesmo sapeva il fatto suo, e Cesare sta dando il meglio di sé nella messa a punto. 

Un altro paio di metri me li riprende in frenata: io non ci tengo a  pascolare un’altra volta e stacco prima; lei invece tira il mezzo al limite  e pennella la curva come se stesse sui binari, le gomme che fumano e si  torcono in dentro. Altro retti­filo, e di nuovo mi piazzo nella sua scia, ed  ecco che lei allarga e rallenta legger­mente.

Che faccio, passo o non passo? Mentre cerco di decidermi arriva la  curva, e lei é costretta a chiudere proprio nel momento in cui avevo deciso di passare: per for­tuna ho i riflessi a posto, e rimedio con un leggero colpo di freno, mi porto all’esterno in modo da essere all’interno nella controcurva, e difatti arrivo con le ruote anteriori dieci centimetri davanti alle sue, lei é costretta ad allargare e a farmi passare. 

Non ci sono specchietti sui kart: si volta la testa di quel tanto che  basta a vedere con la coda dell’occhio cosa succede dietro. Per due giri la  Biella mi tallona, non riesce a passarmi né in curva, né in rettifilo; poi tenta l’impossibile nella staccata della dirittura dei box, e mi urta, ruota contro ruota, facendomi sbandare, e ci vuole tutta per non finire sul  prato.

Le corse in kart sono fatte così: non sussistendo gran pericolo di capottare o comunque farsi male, i piloti non disdegnano una guida un po’ allegra, e se pos­sono buttare un avversario fuori strada non ci pensano due  volte. Certo, se alla Biella piace il gioco pesante, ha trovato pane per i  suoi dentini. In due giri l’ho ri­presa, anche se ho il vago sospetto che abbia rallentato per aspettarmi e giocare a gatto e topo.

E adesso, a noi due. Conosco anch’io qualche trucchetto, ad esempio in quale punto della curva strisciare il telaio contro il mozzo della ruota esterna (esterna, non interna!) per farle fare un saltino, così perde aderenza e scarroccia via col se­dere. Certo, la manovra é azzardata, perché  se non ti tiri via in tempo resti aggan­ciato e vai fuori anche tu, ma uno  strappo di freno al momento giusto ti fa levare dalla traiettoria impazzita. La Biella fa un paio di testa-coda senza uscire di pista, anzi, quasi senza rallentare, e si rilancia all’inseguimento.

Continuiamo così per un bel pezzo: ad ogni passaggio davanti ai box  intravedo Rudy e Cesare che si sbracciano e agitano i pugni, ma non me ne importa nulla: in quel momento la sfida mi ha preso completamente.

Ed ecco, proprio al momento culminante (no, fu un momento qualsiasi, per ca­rità!), il motore mi si mette a sputacchiare e tossire, perde colpi,  va a singhiozzo facendomi saltare tutto il kart come un canguro, e infine mi pianta ignominiosa­mente. Mi fermo a lato della pista, naturalmente sul  lato opposto ai box, e solo al­lora mi viene in mente che con tutto quel po’  po’ di corsa devo aver finito la misce­la. Mi tolgo il casco e lo scaglio a terra con rabbia, proprio nel momento in cui ri­passa il kart rosa, che mi  ha già preso un giro. Mi incammino sdegnosamente verso i box, mando a quel  paese Rudy e Cesare che mi sono corsi incontro e mi stanno facendo una bella ramanzina, e mi chiudo nella macchina.

Non lo sapevo neanch’io perché mi ero tanto incazzato: in fondo era stata una bella lotta, e se avevo ceduto le armi non era per demerito, ma per una banalissima fatalità, e poi avevo raggiunto il mio scopo, cioè di  farmi notare dalla Biella come pilota.

Ma eccola, l’amica Biella, che svolta sulla provinciale facendo saltare il carrello e il kart rosa mentre lascia la terra battuta. Se n’è andata quando mi ha visto a piedi, forse dopo quella bella battaglia  non c’era più sugo; comunque non ci penso su due volte: metto in moto e mi lancio all’inseguimento. 

 Non dovrebbe esserci paragone: io ho una Fulvia, lei un’ottoecinquanta berlina col carrello attaccato; devo tenermi un po’ distante per non farmi vedere, ma posso anche andare tranquillo. La vedo in fondo al rettifilo, sta andando verso Lesmo, ec­co che svolta, ora accelero per riportarmi un po’ più sotto, e difatti eccola là che sta per risvoltare… 

 Accidenti, dov’è andata? Accelero per un paio di chilometri: non si vede più!

Rapida inversione di marcia: che abbia girato in una stradina che non ho visto? Maledizione, in quel tratto non ci sono strade, neanche una carrareccia, che taglino la provinciale.

 Ma allora che fine ha fatto? Torno indietro un’altra volta, faccio cinque chilo­metri a razzo, non posso averla persa così, col carrello é abbastanza visibile, e poi la rallenta…

 Non avevo voglia di fermarmi a chiedere a qualche villico se avesse visto una macchina così e così, e quindi non mi restò che tornare alla pista rossa a raccattare gli altri due. Certo che il mistero della Biella  si infittiva sempre più: oltre a non es­sersi mai fatta vedere in faccia da  nessuno, aveva anche il raro dono di svanire nel nulla con macchina,  carrello, kart rosa e tutto!!

Rudy e Cesare non mi fecero domande né allora né in seguito; soltanto  il capo­officina osservò in modo velato e con mille circonlocuzioni che donne e motori non andavano molto d’accordo, e che era meglio che quando stavo sul kart pensassi a guidare e non a far colpo sulle ragazze. Ero abbastanza  imbarazzato da non pren­dermela, contrariamente al mio carattere noto non certo per la flemma; e poi avrei dovuto dare spiegazioni che neanch’io sapevo darmi. Perché la Biella mi colpiva tanto? Non potevo dire che mi  piacesse, perché non l’avevo mai vista in viso e an­che il corpo non si  poteva distinguere così sempre infagottato nella tuta. Da quel che ne  sapevo poteva anche essere una vecchia di trent’anni! No, quel che mi affa­scinava nella Biella era la sua profondissima dimestichezza con il  mondo dei mo­tori. Presi a fantasticare su cosa sarebbe stato se mi fossi  messo con lei, bella o brutta che fosse: avremmo potuto unire le nostre forze, mettere su una squadra con due kart, lavorare gomito a gomito,  scambiarci impressioni sui mezzi e sul modo di guidarli…

Amici miei, guardiamoci in faccia: a Francesco non sarebbe piaciuto avere una ragazza con cui poter suonare insieme? E quando Andrea conobbe Elide che era una letterata come lui, non ci si trovò bene? Insomma, non é la massima aspira­zione di chiunque trovare l’anima gemella che condivida il  suo maggior interesse?

All’uscita successiva la Biella ricomparve, col casco ma senza il kart. Gironzolò tutto il pomeriggio in pista, visibilmente depressa, senza parlare con nessuno, e nessuno la degnò. Poi d’improvviso balzò sull’ottoecinquanta e si dileguò come l’al­tra volta. 

Ma stavolta ero pronto, anche se mi facevo poche illusioni: se mi aveva semina­to l’altra volta con il carrello, figurarsi cosa avrebbe fatto oggi a  mani libere; ma balzai lo stesso nella Fulvia e partii a razzo. Avevo deciso di non tentare più di na­scondermi, e allentai le briglie a tutti i miei cavalli per riagguantarla prima che sparisse un’altra volta. 

E infatti eccola in fondo al rettifilo, che svolta a destra verso Lesmo. Dopo que­sta curva ce ne sono altre due o tre, poi la strada si rifà dritta, devo portarmi a ri­dosso, poi, dovunque svolti, non la perdo più.

Entro nella “chicane” con un gran fischiar di gomme, pennello al meglio la controcurva, poi sbuco sul rettifilo, e… la Biella non c’è più!

Sono talmente scioccato che rallento: non é possibile! Praticamente non  l’ho persa di vista, appena un attimo, e mi ha già seminato! Guato a  destra, a sinistra, ci sono solo campi, neanche una casa per nascondercisi  dietro…

L’ululato di un clacson da Porsche Targa mi fa sussultare, e  l’ottocentocin­quanta mi supera in tromba e mi stringe a lato come la  Polizia. Ci fermiamo in una nuvola di polvere sul bordo della strada.

Mi aspetto che scenda, mi dica qualcosa, magari si mostri offesa perché sto ten­tando di seguirla, insomma, che agisca, visto che mi ha bloccato in quel modo. In­vece niente: immobile al posto di guida, mi guarda attraverso il vetro affumicato del casco, ogni poco tamburella sul volante. Direi che sta  godendosela un mondo.

Mi lascia l’iniziativa? Tanto di guadagnato: scendo e mi accosto al suo finestri­no. Serve qualcosa? domando fingendo indifferenza. Lei scuote il capo lentamente, poi con un gesto delicatissimo mi accarezza la mano che ho poggiato sul suo fine­strino; infine mi manda a quel paese, ingrana la  retromarcia e schizza via come una furia.

Ho sempre sognato di correre a Le Mans, dove i piloti dovevano traversare la pista di corsa per salire in auto: credo che li avrei battuti tutti in quei pochi metri fino all’abitacolo della Fulvia. E poiché in  ripresa non c’è paragone tra le due auto, mi incollo immediatamente dietro all’ottoecinquanta in un turbine di clacson e ab­baglianti.

Di colpo la Biella svolta in una carrareccia: deve aver rinforzato le sospensioni, visto come va sullo sterrato; ma anche la Lancia le macchine le fa robuste, e pur mangiando un sacco di polvere non la mollo.

Alla fine la Biella inchioda di colpo, e meno male che ho i riflessi buoni altri­menti finirebbe in un bel tamponamento. La ragazza si catapulta fuori e si mette a correre per i campi, e io dietro. Aspetta, fermati, parliamo, le grido appresso, ma é fiato sprecato, meglio risparmiarselo per la corsa. Certo che, anche se io non sono un atleta e quindi non sono in grado di far paragoni, la Biella se la cava bene a piedi come al volante.

La raggiungo mentre sta guadando una roggia: la afferro per la tuta,  lei si di­vincola, e finiamo in acqua tutti e due. Se non fosse per il casco sembrerebbe un film western. Cerca di rimettersi in piedi, ma scivola e ricasca giù; ci riprova, ma le faccio un mezzo sgambetto; alla fine la blocco schiena a terra, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua.

Che cazzo vuoi da me? ansima e sputacchia da dietro la visiera.

No, cosa vuoi tu! bofonchio a mia volta, intenzionato a sfruttare il vantaggio che mi ha offerto. Sei tu che mi hai bloccato, prima, sulla  strada.

Lei lancia un ringhio e tenta di divincolarsi: io la tengo ferma, e in quel mo­mento mi accorgo che sotto la tuta bagnata non porta nulla, almeno di sopra. Senza volerlo sento arrivare un’erezione. Lei continua a lottare, e a poco a poco la cosa assume altri connotati; i ringhi diventano gemiti, i graffi abbracci, gli ansiti sospiri.

Aspettaspetta, sussurra, raggiunge una lampo della tuta, e di colpo se la apre in diagonale dal collo alla coscia, prende le mie mani e se le mette sul seno, che effet­tivamente é nudo sotto la tenuta sportiva. Poi armeggia con i miei jeans.

Levati quest’affare, dico toccandole il casco. No, no, non voglio, prendimi così!; ed é lei a fare tutto, avvinghiandosi con le gambe al mio bacino, guidandomi il sesso nel suo, e poi spingendo e tirando  selvaggiamente finché non veniamo all’unisono con un urlo disumano.

Rotolo di fianco, il terreno in pendio mi fa fare un giro di troppo e ripiombo in acqua sino al collo: mi assicuro comunque che non scompaia un’altra volta affer­randole la coscia – quella nuda – e riportandomi  sotto. Lei non dice niente, sembra esausta, però é rilassata, sembra fin soddisfatta, si stiracchia voluttuosamente. Rin­francato, punto i piedi e  scivolo di fianco a lei.

Adesso te lo vuoi levare il casco? chiedo col tono di voce più pacato e ragione­vole che mi riesce. Lei scuote la testa e sospira che é quasi un  singhiozzo. Ti prego, non rovinare questa cosa bellissima, dice.

Senti Biella, ci siamo appena scopati ma io non so nulla di te, non so come ti chiami veramente, non so come sei in faccia, so soltanto che hai un corpo bellis­simo e un carattere di merda, e tutte e due le cose mi affascinano, per non parlare di come guidi. Mi sembra di non pretendere tanto se ti chiedo di vedere che faccia hai.

Ti prego, ripete, non insistere, non rovinare tutto.

Mi alzo a sedere: chi la capisce é bravo. Sembri la donna dalla maschera di ferro, commento con un sorriso amaro. Anche se sei deturpata, oppure vecchia co­me il cucco, anche se di corpo sembri una ragazza, non mi  importa. Oppure sei un personaggio famoso che non vuol farsi vedere?

Da dietro alla visiera mi arriva una risatina chioccia. É così  importante? chiede carezzandomi la schiena sotto la camicia fradicia. Prendilo come un gioco: queste cose le facevano nel Settecento. Guarda: ti  faccio vedere tutto di me tranne il viso, contento? E con destrezza si  sfila la tuta, in cui rimangono anche le scarpe da gin­nastica ed il  minuscolo cache-sexe che già aveva tirato da parte.

E se volessi darti un bacio? chiedo in tono provocatorio; ma il gioco mi sta già prendendo: decisamente la Biella ci sa fare in molti sensi.

Hai circa due metri quadri di pelle a tua disposizione, dice rotolando  nell’ac­qua. Pensaci, quante volte ti é capitato che una donna ti desse  tutto di sé tranne una cosa?

E se volessi che tu mi dessi un bacio? ribatto; a questo punto la tenzone é diven­tata retorica, voglio vedere come riuscirà a giustificare fino in fondo questa bizzar­ria, che peraltro sono ormai dispostissimo ad accettare.

Dove? risponde con malizia, rotolandosi nell’acqua bassa e fangosa e  facendo intravedere ogni tanto un seno, una coscia, una natica, se vieni  giù ti bacio dove vuoi.

Nulla da dire: sa proprio il fatto suo; ed il secondo incontro avviene lì nella roggia, tra le canne e le rane, e ancora una volta é lei a  prendermi con consumata malizia, senza fretta, facendomi andare su e giù  più volte sino a farmi impazzire, ed ogni volta cambiando posizione, e raggiungendo ogni volta un paio di begli or­gasmi, finché non esplodo  dentro di lei con un rauco grido.

Ti ho baciato abbastanza? chiede dopo una lunga pausa di fiato. Non é meglio questo di una stupida limonicchiata?

Ormai la cosa ha completamente perso di importanza per me, e credo che pro­prio questo fosse il suo scopo. Glie lo dico in tutta sincerità: ormai  non mi importa più, é quello che volevi, no?

Mica scemo il ragazzo, ridacchia, ti ho scelto bene. Adesso vediamo di uscire da questo pantano, che si chiederanno che fine abbiamo fatto.

Chi? Intravedo una breccia nel suo riserbo, ma lei si riprende subito: i tuoi amici, King Kong e il Cherubino, chi altro?

Non posso fare a meno di ridere a questa così azzeccata descrizione di Rudy e Cesare. E io chi sarei? domando. Da dietro la visiera giunge un’altra risata chioc­cia, gorgogliante: io ti avevo soprannominato Giona: con quel ciuffo nero, i baset­toni neri, gli occhiali neri che porti sempre, sembri proprio uno jettatore.

Invece mi chiamo… tento di chiarire, ma lei mi ferma, mi mette una mano sul braccio: no, non me lo dire, preferisco che siamo alla pari.

Non mi resta che obbedire, mentre lei si reinfila tuta e scarpe con un  unico ge­sto e si incammina verso le macchine. Allora, ti muovi? incita, e nella voce le é tornata l’aggressività di prima, quasi facesse parte dell’abbigliamento. Ci muovia­mo in fila indiana, ad ogni passo la tuta le si incolla addosso a mostrare la forma della coscia e il solco tra le natiche, le scarpe che gracidano allegramente. Anch’io non sono messo molto bene: il bagno di fango ha definitivamente uniformato il mio vestiario in un color kaki (o meglio cacca), perché da bravo furbone ero andato alle prove in jeans e T-shirt invece che in tuta come al solito.

Arriviamo così all’ottoecinquanta, e lei fa per aprire lo sportello senza neanche voltarsi per un ciao: la giro verso di me per una spalla, la  blocco contro l’auto, le stampo un bacio sulla visiera del casco.

La Biella é sconcertata, poi sta al gioco e mi passa le braccia intorno al collo. É un attimo: con un rapido gesto le sollevo la visiera, e vengo respinto da una ginoc­chiata all’inguine che mi manda lungo disteso mentre lei riabbassa il sipario con un gesto secco. Stronzo, sibila, balza al  volante e parte a manetta perdendosi pei campi in una nuvola di polvere.

Quando il dolore si attenuò mi resi conto che era stato tutto per nulla: non avevo fatto in tempo a vederla in faccia, solo un luccichio di occhi che mi erano parsi enormi e nerissimi, come quelli delle arabe. Non mi restò che far asciugare i vestiti sul cofano rovente della Fulvia e tornare mestamente alla pista rossa.

Ci si creda o no, non rividi più la Biella né il suo kart rosa, e sì che restammo nel giro per un anno intero partecipando anche a qualche gara. Chiesi un po’ in gi­ro: quei pochi che la conoscevano mi assicurarono di non averla più né vista né sentita. Non mi restò che immaginare che fine potesse aver fatto, e nei momenti di solitudine mi era di conforto l’illusione di essere stato – nel bene o nel male – tanto importante per quella ragazza da spingerla a cambiare completamente ambiente, se non addirittura a rinunciare a quella che sembrava essere una sua grande passio­ne, unicamente per non correre più il rischio di essere vista in faccia.

Un commento a “Ricordi Complessi – 8 – Paolo: Io e la Biella”

  1. estilo gorra baseball dice:

    Great post.

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