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Trincea

Pubblicato da poetto il 21 febbraio 2009

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Freddo, ancora freddo.
In questo posto non fa altro che freddo.
Sembra ieri, sono passati, invece, sedici mesi, da quando è scoppiata la guerra.
Sembrava che si dovesse risolvere in pochi giorni, chissà quando finirà, chissà se riuscirò a vederne la fine.
Mi chiamo Marco Sanna, sono nato a Cagliari nel 1894, facevo il garzone di bottega, nel negozio di signor Gino, in realtà si chiama Luigi, tutti, però, lo chiamano Gino.
Da quando sono qui, mi sono messo a fumare, non l’avevo mai fatto prima.
Sono stanco di vedere tutta questa sofferenza.
Davanti a noi ci sono gli Austriaci, come al solito la nostra posizione si trova più in basso della loro.
Ogni giorno sento grida, urla, scoppi, spari, sono talmente stanco.
Ieri, uno della mia pattuglia è stato ucciso mentre stava aprendo una lettera.
Un cecchino, un maledettissimo cecchino gli ha sparato in fronte.
Si è alzato d’istinto per togliere del fango che gli è volato sopra la lettera, un gesto innocente, ingenuo, inutile gli è costato tutto.
È stato tutto così veloce, poveraccio! Aveva due anni meno di me.
Mi è caduto davanti, prima di morire ha stretto forte la lettera, non saprà mai cosa c’era scritto.
È tutto così assurdo, sono qui, fuori dalla mia realtà, per difendere qualcosa che per me è astratta, la patria.
Cos’è la patria? Vale la mia salute? Chi ne beneficerà del mio sacrificio?
Presumevo che, i sacrifici, si dovessero fare a proprio favore od a favore dei propri cari, non sospettavo che i sacrifici si dovessero fare anche per gli sconosciuti.
Abbiamo uno specchietto per vedere cosa succede dall’altra parte, il solito cecchino l’ha sparato un’infinità di volte.
Siamo tutti maledettamente sporchi, puzzolenti, stanchi.
Ho visto con lo specchietto un enorme topo aggirarsi nella terra di nessuno, non voglio sapere cosa facesse tra i resti di quei poveri ragazzi.
Il tenente Carta, la settimana scorsa ha fermato un soldato, mi pare fosse Dario, mi pare, gli ha detto che quei ragazzi avrebbero meritato una degna sepoltura.
Il tenete era arrivato da poco, pieno di buoni propositi, la realtà della guerra non permette tanti buonismi.
Anche noi vedevamo i resti di quei poveracci, alcuni sembravano dei sacchi posati davanti alla nostra trincea, andare a prenderli sarebbe stato un suicidio, un atto inutile in questa inutile guerra.
Ogni tanto qualcuno ci prova, dopo qualche minuto riceve l’immancabile pallottola, il più delle volte il tiratore cerca di ferire il malcapitato.
Mario mi ha spiegato che lo fanno per colpire anche quelli che vengono a soccorrerlo.
La richiesta del tenente è rimasta inascoltata.
Qualcuno ha fatto pervenire all’orecchio del maggiore Parisi l’idea del tenente, questi è stato convocato…quei resti sono rimasti lì.
Qualche giorno fa un tipo, un austriaco, si è avvicinato alle nostre linee, gridava, correva, attraverso la terra di nessuno, verso le nostre posizioni.
Ho preso lo specchietto e l’ho visto, era una figurina magra, tutta avvolta nella divisa,
correva tra i crateri delle bombe, urlava chissà cosa.
Inizialmente nessuno ha fatto nulla, molti seguivano le gesta di questo sconosciuto.
Tutti con lo specchietto appiccicato alla baionetta, inutile dire che pensavamo ad un trucco degli austriaci per farci mettere la testa fuori.
Lo guardavo mentre tagliava il filo spinato, la sua corsa s’era fermata.
Chi non aveva lo specchietto chiedeva: che combina il matto?
Sono rimasto, non so quanto tempo, a fissarlo, improvvisamente, un colpo, lo sconosciuto si è accasciato tra il filo spinato, l’ho visto muovere una mano, un altro colpo l’ha fermato per sempre, è rimasto lì.
Sicuramente era stufo di tutta questa brutta storia, ha trovato un modo per dire basta, non so se un modo onorevole, comunque sia ha smesso di vedere tutta questa sofferenza.
Il paese più vicino è diventato un mucchio di rovine, sembra incredibile ma, fino due anni fa, ci abitavano delle persone che conducevano una tranquilla esistenza, ora non c’è più nessuno, ogni tanto qualche colpo di artiglieria fa sollevare polvere e macerie.
Vorrei andarmene.
Il mio amico Paolo Chessa, mi ha detto di aver trovato un modo sicuro per lasciare questo posto e tornare a casa.
Ha visto che i feriti vengono mandati all’ospedale militare…in pratica un paio di baracche riadattate, danno un cartellino in base alla gravità della ferita, se hai poca speranza ti lasciano morire lì.
La sua idea è quella di procurarsi una ferita lieve.
S’è confidato solo con me.
Ci conosciamo da prima della guerra, era un amico di Tore, mio cugino, un giorno era venuto a casa assieme a lui.
E’ riuscito a farsi assegnare al trasporto del rancio, i cecchini austriaci vanno matti per chi trasporta il rancio, aveva organizzato un ferimento programmato, così l’aveva chiamato, aveva notato che i cecchini che ci prendevano di mira era diversi, uno in particolare, non era un talento, anzi era una vera sagoma.
Aveva fatto tutta una serie di conti, era convinto che quel giorno ci fosse la schiappa, così l’aveva definito, in turno; visti i precedenti era convinto che la schiappa l’avrebbe ferito in modo non grave, così come era capitato ai diversi commilitoni colpiti dallo sconosciuto avversario.
Purtroppo per lui, però, il piano è fallito, i suoi conti si sono rilevati errati, non era la “schiappa” ma un altro anonimo cecchino, preciso, senza cuore.
L’ho visto cadere.
Come si può rimanere indifferenti davanti ad una tragedia del genere?
Ho pianto.
Ha finito di combattere, non era così che si immaginava il suo futuro.
Lo guardo, mi viene in mente il giorno che era venuto a casa, un ragazzo timido, mingherlino.
Ricordo che il padre lavorava in ferrovia, non so cosa facesse.
Mi parlava sempre di casa, le sue conversazioni rendevano ancora più odiosa questa odiosa guerra.
Ogni volta che parlava del nuovo comune, dello zio che aveva fatto non so cosa per la nostra città, cercavo di cambiare argomento.
Paolo abitava a Cagliari, come tanti qui, era solo un ragazzo, aveva tanto tempo davanti a se, chissà cosa sarebbe potuto diventare.
Ho preso la sua roba, aveva appena finito di scrivere una lettera, aveva una scrittura da bambino, lettere grandi, povero ragazzo!
Nella lettera diceva di non preoccuparsi per lui, chiedeva, curiosamente, notizie delle mucche dello zio, il fratello della madre.
La prossima settimana dobbiamo andare nelle retrovie, altri poveri disgraziati prenderanno il nostro posto.
Fa freddo, siamo in montagna, a mille o forse più metri a livello del mare, per fortuna oggi non piove.
Un colpo d’artiglieria, fa volare i resti di qualcuno sepolto a pochi metri dalla mia postazione.
Mi ritrovo in viso un brandello di divisa, sono ricoperto di terra da testa a piedi, il mio amico Carlo è meno fortunato, una scheggia lo ferisce alla spalla destra, mi avvicino a carponi, lo sento gridare, per fortuna la ferita non è grave, penso a Paolo, chissà cosa avrebbe dato per quella ferita?!
Ho chiesto di poter andare in licenza, penso che mi spetti, anzi ne sono certo, “stiamo esaminando la situazione”, mi è stato risposto.
Mi chiedo come stiano i miei, dalle lettere sembra che tutto vada a gonfie vele, spero sia vero.
Da quando sono qui, ho spedito non ricordo quante lettere, confesso che inizialmente ero restio a scrivere, mi sono reso conto, però, che è importante avere una comunicazione con i propri cari.
Sentire o meglio leggere lo scorrere quotidiano della loro vita, per me è stato molto importante.
Un mio amico mi ha detto che tutte le lettere vengono lette e nel caso censurate, mi pare una esagerazione, chissà quanti scrivono ai propri cari.
Dopodomani dobbiamo andare nelle retrovie, era ora.
Ecco il postino, mi avvicino, sento pronunciare il mio nome, è una lettera da casa.
Il signor Gino è morto, improvvisamente, è stato trovato in negozio a terra privo di vita.
Mia sorella scrive che, molto probabilmente, è stato un infarto a portarselo via.
Resto fermo con la lettera in mano.
Conoscevo, il signor Gino, da …sempre.
Mi pare incredibile che non ci sia più.
Quando tornerò a casa, lui non sarà tra quelli che verranno a salutarmi.
Oggi c’è uno strano silenzio, la cosa non mi piace.
Improvvisamente un chiasso infernale si diffonde, cento o forse più cannoni, ci vomitano addosso tutto il loro contenuto.
Si scatena l’inferno, tutto vola per aria, riesco a prendere le mie cose e raggiungere il rifugio.
Dopo ore di fracassante rumore, il silenzio.
Qualcuno entra nel rifugio, gli austriaci si sono mossi.
Usciamo di corsa piuttosto rintronati dal chiasso, dalla paura.
Dall’altra parte si sentono urla, si mischiano alle grida dei feriti.
Ci mettiamo negli spalti della trincea, per lo meno di quelle parti di trincea ancora in piedi, spariamo ai fagotti che ci vengono avanti gridando come ossessi.
Gli austriaci sono usciti dalle loro trincee e si dirigono verso di noi.
Camminano, ne vedo uno indaffarato con il filo spinato, gli sparo, lo vedo cadere a terra, non ho neanche il tempo di rifletterci, un commilitone al mio fianco mi indica un gruppo di soldati, faccio fuoco, un altro cade a terra.
Una mitragliatrice viene piazzata a due passi dalla mia posizione.
Il gruppetto viene spazzato via dalle raffiche.
Gli austriaci continuano ad avanzare, sono tanti.
Continuo a sparare.
I nostri cannoni si mettono in moto, sparano, però, pericolosamente vicino alle nostre linee.
C’è un chiasso infernale, tutto sembra volare per aria.
Un colpo dei nostri centra una porzione di trincea, vengo colpito al fianco dal resto di un fucile, fortunatamente il colpo non è forte, ormai quell’oggetto aveva perso tutta la sua energia.
Distratto dal colpo non mi rendo conto che un soldato austriaco sta per avvicinarsi alla mia posizione.
È un tipo con una faccia rossissima, i baffi castani e gli occhi azzurri.
Mi giro, lo vedo mentre, con il fucile in mano, prende la mira, sono io il suo bersaglio.
È questione di attimi, un secondo dopo, l’austriaco giace a terra ai miei piedi.
Altri tre austriaci buttano il fucile davanti a me ed alzano le mani, gridano: No guerra!!
sembrano ubriachi fradici, uno di loro ride.
Il tipo a terra è ferito, mi guarda, ansima, cerca di prendere qualcosa, temo che voglia prendere una pistola o chissà cosa, gli do due, tre colpi con il calcio del fucile.
Voleva prendere una foto.
Quel tipo voleva mostrami la foto della sua famiglia…avesse trovato un altro sarebbe già davanti al creatore.
L’attacco austriaco viene fermato.
Il soldato austriaco non è morto, è solo ferito, gli porto via ogni arma.
Porto via le armi agli altri tre.
Una piccola folla sia avvicina, tra loro il tenente Carta.
È ferito ad un braccio, si complimenta con me per aver catturato quattro nemici, tutto da solo, è talmente sorridente che sembra che li abbia catturati lui.
Confesso che sono contento che l’austriaco abbia una ferita non grave.
Ha rischiato di morire per farmi vedere una foto, forse voleva dirmi che la sua ragione di vita erano le persone della foto.
Gli altri tre austriaci non hanno neanche un graffio, sembra incredibile, con tutti quegli scoppi.
Il nostro ufficiale ha detto che sono Sloveni.
Gli chiedo la differenza e lui inizia un discorso noiosissimo sulle nazionalità dell’impero austro-ungarico, perché faccio certe domande?!
Dopo l’eroica cattura di ben quattro prigionieri, mi hanno concesso la licenza, poco tempo per prendere una boccata d’aria.
Torno a casa.
Passo con il treno diverse stazioni.
Un lungo viaggio prima di arrivare alla nave che m’imbarcherà.
La guerra sembra non toccare le città che attraverso, sembra un evento lontano.
La gente mi guarda, o meglio ci guarda, visto che nel treno non sono solo, con curiosità, qualcuno chiede come va.
I soliti imboscati figli di papà, eccoli con il loro capellino bianco a fare le pause al caffè.
A causa di un guasto siamo rimasti fermi in una città per una sera intera, ho approfittato per andare in giro, quanta calma in questo posto, il silenzio, il verde, cammino in questa via sconosciuta davanti alla stazione con un commilitone campano, non ci diciamo nulla, camminiamo assaporando la tranquillità del posto.
Il treno riparte a tarda sera, mangiamo qualcosa di realmente frugale e via.
Arrivo a Cagliari, non mi sembra vero!
Tutta la famiglia mi aspetta davanti al porto.
Scendo dalla nave, eccoli lì, sventolano fazzoletti, gridano, agitano le mani.
Pianti, abbracci.
A casa mi aspetta la tavola imbandita d’ogni ben di dio.
Tutti a chiedere, a guardarmi come se fossi un santo uscito da un quadro.
Zia Piera mi chiede del figlio, mio cugino Nicola, le dico che non so come stia, mi guarda, non sembra convinta della mia risposta, forse pensa che noi combattiamo fianco a fianco, in trincea siamo tanti.
A metà pranzo entra la signora Gentile, la nostra vicina.
Mario Gentile, un ragazzo di vent’anni, figlio della signora, è stato centrato in pieno da un cecchino, stava parlando con me quando è successo, aveva in mano una cartolina di Cagliari, si vedeva il porto, gli alberi delle navi, mi stava indicando la sua casa, come se non sapessi dove abitava, quando un colpo l’ha centrato, gesticolando e muovendosi continuamente aveva attirato l’attenzione di quel maledetto cecchino, è stato un attimo.
Era un bravo ragazzo, non aveva mai visto la neve, quando aveva fatto la prima nevicata era rimasto a guardarla come un bambino.
Povero Mario aveva solo vent’anni, chissà cosa avrebbe potuto fare da grande, purtroppo non lo saprò mai.
La signora si avvicina, come mi vede inizia a piangere, la cosa mi mette a disagio, soprattutto tenendo conto che io ero lì, ho visto tutto.
Cosa le dico?
- Marco, come stai?
- Bene signora! E lei?!
- Come vuoi che stia?! Il mio Mario…aveva solo vent’anni – riprende a piangere. Mia madre la prende da parte, le dice qualcosa all’orecchio, lei si calma, si riavvicina.
- In una lettera Mario mi ha detto di averti incontrato – fa lei guardandomi quasi assente.
- Stava guardando una foto…mi stava facendo vedere dove abitava…è stato un attimo – mi sono sentito in dovere dirle come era successo, io c’ero non posso far finta di nulla, è giusto che i suoi sappiano.
- Com’è successo?! Una bomba?
- Un cecchino! Me lo sono trovato tra le braccia. L’ultima cosa che ha visto era la sua casa…povero ragazzo!

Sono ritornato.
Mi sembra così assurdo dover ritornare qui, rischiare la mia vita, se non lo faccio …inutile dirlo, potrei trovarmi davanti ad un plotone d’esecuzione.
La mia unità non esiste più, siamo rimasti in pochi, roba da non crederci.
Rifletto sul fatto che non rivedrò mai più tanti ragazzi, amici con cui avevo condiviso questa tragedia, assurdo!
Sono stato assegnato ad un’altra unità, domani mi devo presentare alla sede di … vorrei che tutto questo finisse.
Altre facce, altra gente, altra sofferenza.
Dopodomani saremo di rinforzo per l’attacco alle trincee del mio nuovo settore.
Per ora restiamo nella retroguardia per non far capire al nemico il punto dove verrà svolto l’attacco.
Sembra una barzelletta!
Un nuovo camerata mi ha raccontato che, l’altro giorno, in un raid per fare prigionieri e raccogliere informazioni, hanno preso un ufficiale nemico, aveva una carta con informazioni sul nostro futuro attacco.
Gli alti comandi hanno pensato che ormai fosse troppo tardi per cambiare i piani, roba da non crederci!
Ore 6 e 50, dopo una preparazione, non molto nutrita, della nostra artiglieria, i nostri comandanti, fischietto in mano, danno il via all’attacco.
Le prime linee sono falciate dalle mitragliatrici, sono tra gli ultimi ad uscire dalla trincea.
Cammino su uno strato di persone, i lamenti sono coperti dal rumore dei cannoni avversari che, intanto, si sono messi in moto.
Cado sopra un tipo, mi rialzo, continuo a camminare, sento fischiare le pallottole, per fortuna non mi hanno preso.
Non avevo notato, nell’agitazione dell’attacco, che il filo spinato non aveva rallentato la corsa, i nostri cannoni erano riusciti ad eliminarne una buona parte, i genieri, poi, hanno fatto il resto.
Cammino in questa specie di corridoio, non è facile, tutto si svolge in salita.
Sento urla in tedesco, un ragazzo al mio fianco lancia una granata in direzione delle urla.
Siamo arrivati, davanti a noi la trincea austriaca.
Gli austriaci ripiegano, non tutti però.
Ne vedo uno che, nonostante sia ormai evidente che la posizione sia perduta, spara con la mitragliatrice contro i nostri ragazzi.
Mi fermo prendo la mira, gli sparo, lo colpisco al fianco.
Mi avvicino di corsa con un altro ragazzo.
Il nemico tira fuori una pistola, il ragazzo affianco a me solleva il fucile, gli spara a sangue freddo.
Questo tipo ha un libricino con la copertina nera, lo apro, è scritto in tedesco, lo prendo come ricordo.
Ha anche delle foto, in una c’è una bambina, forse sua figlia.
Mi chiedo cosa facesse nel suo paese.
Se non ci fosse stata la guerra quasi sicuramente non avrei mai saputo della sua esistenza.
Ci hanno detto che dovremmo attenderci, da un momento all’altro un contrattacco.
Guardo il cadavere di quest’austriaco.
Mi viene in mente che, qualche anno fa, davanti a casa, era successo un incidente, un cavallo imbizzarrito aveva ucciso un uomo.
Un caos, tanta gente a vedere cosa era accaduto, dopo erano arrivati anche i parenti, tutti a piangere.
Ora nessuno piange questi giovani, neanche io sento rimorso per quello che ho fatto, come se fosse parte di un lavoro, come se fossi un dipendente di un cimitero.
Il giovane che ho colpito poteva avere trent’anni, se si fosse arreso non gli avrei sparato invece continuava a colpire tanti giovani, inutilmente, barbaramente, non provo rimorso ma solo disgusto per questa guerra.
Non mi sembra neanche vero che l’attacco sia riuscito, mi chiedo cosa ci aspetta dopo.

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