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Una vita distrutta

Pubblicato da poetto il 23 dicembre 2009

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Non avrei mai pensato che la mia vita si potesse distruggere in quel modo.
Tutto cominciò tre anni fa quando conobbi Hans, un quarantenne di Berlino Ovest.
Lavoravo come dipendente presso il ministero dell’interno.
La mia vita si svolgeva monotona, giorno dopo giorno la solita routine: lavoro – casa.
Una volta al mese mi recavo dai miei vicino a Monaco.
Un giorno, un’amica, mi racconta di aver conosciuto suo marito in un locale per single, neanche sapevo che esistessero questo tipo di locali, mi invitò ad uscire, a rompere la monotonia della mia vita.
Incominciai a frequentare il “nuovo mondo” un locale molto curioso non distante da casa mia, lì incontrai Hans.
Dopo la terza volta che ci andai, un attraente quarantenne mi si parò davanti, in modo timido mi domandò come mi chiamassi, quanti anni avevo e altre banalità utili per attaccare bottone.
Ero contenta e lusingata di essere oggetto d’attenzione di un uomo come Hans, lui sembrava perfetto per me.
Pian piano la simpatia si tramutò in qualcosa di più profondo.
Fu lui a propormi la nostra prima uscita.
Ero emozionata come una ragazzina, erano forse dieci anni, se non di più, che non uscivo con qualcuno.
Emozionata come un’adolescente uscii, per quel primo appuntamento, convinta che quella fosse una opportunità per cambiare la mia vita, per dare una svolta alla mia esistenza.
Tutto andò bene.
Il tempo passava e il nostro amore cresceva.
Hans si interessava molto a me, mi faceva cento domande sul mio lavoro.
Inizialmente, la cosa, non mi diede nessun particolare pensiero, poi, però, cominciarono i sospetti ma tali rimasero.
Una mattina di marzo scoprii di essere incinta, questo fece accelerare i nostri progetti.
Ci sposammo qualche mese dopo, un giorno felice, unico, irripetibile.
Un giorno mi disse, visto che a volte facevo tardi a lavoro, di portarmi a casa i documenti che non riuscivo a sbrigare.
Ero timorosa, sospettosa davanti a quella richiesta.
Hans lavorava, come impiegato, presso una compagnia aerea; non ero mai andata a trovarlo a lavoro.
Lavorando per il ministero dell’interno, controllai se fosse veramente un dipendente, volevo essere sicura che quella richiesta non nascondesse altro.
Non trovai nulla di misterioso, di sospetto.
Tutto risultava, forse mi stavo facendo delle paranoie, d’altronde non ero un’insegnante e quello che potevo portare a casa erano documenti di importanza nazionale.
Iniziai a portare via documenti, nessuno sembrava fare caso a quello che facevo, anche perché riportavo sempre al loro posto i documenti presi.
Un giorno una collega mi chiamò in disparte, mi guardò per qualche secondo senza dire nulla, poi fece un ampio respiro, la guardai cercando di capire cosa volesse dirmi.
Mi aveva scoperta, aveva visto che portavo fuori dell’ufficio dei documenti.
Lei non avrebbe parlato ma, come se ne era accorta lei, anche altri, meno ben disposti, mi avrebbero potuto vedere.
Smisi di portare via documenti.
Hans prese male la mia decisione di non portare più nulla a casa.
La sua reazione mi fece pensare che lui non fosse chi mi diceva di essere, temevo che fosse una spia della Stasi.
Gli dissi delle mie perplessità, in modo ingenuo, lui negò, anzi rise di questa eventualità, spiegandomi che lui me lo aveva detto, di portare a casa le carte, perché era dispiaciuto nel vedermi tornare, a volte, tardi a casa.
Forse le mie paure erano esagerate.
La vita riprese come sempre.
La collega, la stessa che mi aveva consigliato di frequentare i locali per single, era amante delle feste e dei festeggiamenti in generale.
Ci trovavamo spesso a casa di qualche collega per passare una serata in compagnia, anche se poi si finiva immancabilmente per parlare di lavoro.
Il bambino cresceva.
Hans era un padre premuroso, affettuoso, ero veramente convinta che fosse stato mandato dal signore per me.
Un pomeriggio suona il campanello, vado ad aprire, davanti a me una decina di uomini in divisa, cercano Hans.
Domando ai poliziotti che succede, non mi dicono nulla.
Lo portano via in manette.
Cerco di capire, domando a lui cosa succede, per quale motivo lo stanno portando via, lui nulla, zitto, neanche mi guarda in faccia.
Un momento terribile.
Il tempo passa.
Le accuse che gli vengono mosse sono gravissime: spionaggio, è accusato di essere un agente della Stasi.
Il mondo mi crolla, i miei sospetti erano fondati.
Durante un’intervista, rilasciata ad una televisione, sento quello che mai e poi mai avrei pensato.
Lui, che in realtà si chiamava Albert Voss, mi aveva sposato solamente per avere informazioni, non mi aveva mai amato, anzi, a suo dire, non mi sopportava.
Quelle parole erano come il sale sulle ferite.
Rimasi shockata, incredula a quelle frasi.
Non mi aveva mai amato.
Mi sentivo tradita, usata.
Ero a pezzi.
I miei, che avevano sentito il programma, mi chiamarono.
Vennero a prendermi.
Mio padre, che aveva sempre visto con sospetto quella persona, continuava a dirmi: che ti dicevo?!
Aveva ragione, ora, però, a che serviva l’avere ragione?
La mia vita era distrutta.
Mio padre mi consigliò di andare dalla polizia e raccontare tutto quello che sapevo, tanto, diceva lui, prima o poi sarebbero venuti anche da me.
Segui il suo consiglio.
Il tempo continua a passare.
Peter non sa che il padre è rinchiuso in una cella.
Ho perso il lavoro; sono stata assolta dall’accusa di spionaggio ma, nell’ambito di quella storia, sono stata condannata per altro.
Il ministero mi ha messa alla porta.
Avevo avuto il sospetto che Hans non fosse chi diceva di essere ma ero certa che lui mi amasse, che lui mi avesse sposato perché io ero la donna della sua vita, invece era tutta un’illusione, tutta una bugia.

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