Le storie macabre di Silvia

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LE ALI DEL MALE

Pubblicato da silvia il 8 ottobre 2008

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LE ALI DEL MALE

Eravamo molto amici una volta, ma crescendo decidemmo di seguire strade diverse. La vita ci separò, e col passare degli anni nessuno di noi due pensava più all’altro se non raramente.
Fu quindi con estremo stupore che quel freddo mattino ricevetti una sua lettera, datata più di un mese addietro.
Diverso tempo fa, tramite un amico comune ci eravamo scambiati i nostri ultimi recapiti, senza peraltro mai utilizzarli; la sua lettera però proveniva da tutt’altro luogo, da un paese di cui addirittura ignoravo l’esistenza.
Il contenuto della missiva era delirante, la scrittura era deforme, quasi illeggibile. Si scusava per non essersi fatto vivo da così tanto tempo, supplicandomi di raggiungerlo subito lì, nello strano paese in cui si era rifugiato a causa di “terribili avvenimenti riguardanti la sua famiglia” e dove aveva invece trovato l’anticamera dell’inferno.
Riferiva confusamente di essere stato colpito da una devastante malattia mentale che rallentava quasi perennemente tutti i suoi movimenti fino a ridurlo all’immobilità anche per diverse ore.
“Mi aspetta l’orrore supremo se rimango qui” scriveva; “ti spiegherò tutto. Sono solo ormai. Senza un aiuto non potrò fuggire. Non riesco a scrivere altro, la mia mano si sta bloccando”.

Non fu facile scoprire l’ubicazione di quel villaggio, ma finalmente la sera del giorno seguente tutto era pronto per la mia partenza.
Viaggiai durante la notte e lasciai l’autostrada nel tardo pomeriggio del giorno dopo, inoltrandomi in una stradina di campagna.
Chiesi indicazioni presso il bar di un piccolo borgo che mi trovai ad attraversare; tutti conoscevano il nome di quel villaggio, ma nessuno sapeva dirmi dove esattamente si trovasse.
“Mai stato lì” borbottò un contadino “ogni tanto qualcuno di loro
viene nel nostro borgo, ma è gente strana. Alienata direi”.
Mi parlarono addirittura del loro sospetto che quel paese fosse un manicomio, una specie di lazzaretto in cui erano state confinate generazioni di malati di mente da un tempo immemore.
L’unica persona che conosceva la strada per raggiungere quello sconsigliabile luogo, mi dissero gli affabili frequentatori di quel bar, era il portalettere, il quale si recava lì una volta al mese per la corrispondenza.
Mi misi dunque alla ricerca di quest’uomo provvidenziale, ed ebbi fortuna. Era il solo infatti a conoscere precisamente la lunga e tortuosa strada da percorrere per raggiungere il villaggio, ma purtroppo non aveva alcuna intenzione di indicarmela.
“Non vorrà andare adesso?” esclamò stupito.“Tra meno di due ore sarà notte! Non è un luogo piacevole quello, e la strada è veramente brutta. Ma che diavolo ci va a fare?”
Dovetti spiegargli brevemente che un mio amico semiparalizzato il quale si era stabilito per motivi a me ignoti in quel misterioso villaggio, aveva appunto chiesto il mio aiuto per andarsene.
“Mi dispiace, ma ora la strada non gliela indico” sentenziò il portalettere. “ Non voglio avere nessuno sulla coscienza. Comunque dopodomani mattina presto andrò a portare a quei matti la loro corrispondenza. La deposito ai margini del paese e vedo se hanno lasciato qualcosa da spedire. Può seguirmi se vuole, questo non posso impedirglielo di certo”.
Mi rassegnai a trascorrere due giorni in quel luogo presso una piccola locanda, rileggendo continuamente la preoccupante lettera del mio amico e sperando che non fosse già troppo tardi.
Finalmente giunse la mattina stabilita, e mi recai davanti all’ufficio postale ad attendere il portalettere, il quale comparve dopo pochi minuti, salì su un furgoncino e partì.
Lo seguii lungo un sentiero sconnesso per più di un’ora. Poi attraversammo un bosco dall’aspetto lugubre, dopodiché la strada si inerpicò su una ripida collina. L’ascesa fu vertiginosa: alla mia sinistra s’inabissava una valle profondissima, e la mulattiera era talmente stretta che era senz’altro impensabile tornare indietro.
La discesa del versante opposto fu quasi peggiore, e dopo un’altra ora di viaggio raggiungemmo finalmente la pianura sottostante. Mi accorsi di avere le mani quasi incollate al volante e completamente bianche.
Il portalettere arrestò il suo veicolo davanti ad una decrepita cassetta postale, all’interno della quale depositò le poche buste che aveva portato, dopo averne ritirato lo scarso contenuto.
Io mi guardai attorno: la cassetta era situata al margine di un’ampia e desolante distesa di fango secco, spaccata da lunghe fenditure che solcavano il terreno e si diramavano per tutta la sua vastità, costellata ovunque da pozze di acqua livida contaminata da qualcosa che NON ERA fango. Ciuffi d’erba viscida simili a serpentelli eretti e immobili in quell’aria opprimente crescevano attorno alle pozze malsane.
“Credo che dovrà lasciare qui la sua auto”. La voce del portalettere mi fece sobbalzare. “Vede bene che non è il caso di avventurarsi in questo pantano se non a piedi. Lì non le servirebbe comunque, non ci sono strade asfaltate e chissà quei matti come la ridurrebbero. Ecco, quel mucchio di case laggiù è il villaggio che sta cercando, sono circa due chilometri da qui. Prenda il suo amico e se ne vada il prima possibile”.
Il mio accompagnatore si allontanò in fretta col suo furgone, ed io rimasi a fissare quella sinistra distesa di fango ed il villaggio che si stagliava all’orizzonte contro un sole malato, mentre una strana inquietudine iniziava ad impadronirsi di me.
Ormai non avevo scelta: mi feci coraggio e attraversai il più velocemente possibile quel campo agghiacciante fino alle prime case decrepite.
Il piccolo villaggio era ormai da tanto tempo vittima di una paurosa decadenza. Lungo le stradicciole sterrate fiancheggiate da edifici in rovina incontrai alcuni abitanti dall’aspetto ripugnante che mi fissavano senza proferire verbo.
Mi rivolsi a due bambini che sguazzavano nella strada fangosa; erano grassi, seminudi, la pelle era nera di sudiciume e giocando nella melma emettevano cachinni impressionanti.
Chiesi loro se sapessero indicarmi l’abitazione del mio amico, ma i due per tutta risposta ammutolirono, mi guardarono con stupore e scoppiarono a ridere in modo così folle che all’udirli rimasi come di pietra. Dalle finestre infrante degli edifici circostanti si sporsero decine di musi gonfi e sporchi che centuplicarono con le loro voci assordanti la demoniaca risata.
Fuggii da quei terribili lazzi e mi nascosi in un vicolo buio. Mentre riprendevo fiato, vidi avanzare verso di me un uomo alto e magro, di età indefinibile. I suoi capelli ricciuti erano di un colore mai visto, tra il grigio e il nero focato, mentre i suoi occhi erano glaciali, dall’iride quasi completamente bianca. Nonostante la freddezza del suo sguardo, l’uomo mi parve estremamente stanco, curvo sotto il peso di tristezze infinite.
Non riuscivo a parlare, né a muovermi, ma l’uomo non sembrava avere intenzioni ostili. Mi osservò lungamente e mi disse: “cosa fai qui? Non è un luogo per esseri umani questo. Vai via subito, prima che lui si accorga della tua presenza!”.
La sua voce era malinconica, ma imperiosa, e piuttosto giovane malgrado il
suo aspetto. L’uomo di ghiaccio sparì lentamente nelle tenebre del vicolo lasciandomi senza parole, in preda a spiacevolissime sensazioni.
Era più che mai urgente trovare il mio amico e andare subito via di lì. Come trovarlo però in quel luogo inaudito? A chi chiedere indicazioni? Era già pomeriggio inoltrato, non era davvero possibile attardarsi oltre. Vagai nei vicoli apparentemente deserti per un’altra ora alla disperata ricerca di una qualsiasi traccia che rivelasse la presenza del mio amico, ma non avevo la minima idea di cosa fare.
Nei pressi di una porta di legno fradicio che chiudeva a mala pena l’ingresso ad una casa diroccata mi imbattei in una donna sulla quarantina dall’aspetto disgustoso: di media statura, aveva il torace magrissimo, quasi ossuto, ma il ventre era gonfio e sproporzionato. I suoi capelli incolti e stoppacciosi erano di un color grigio sporco, ed erano raccolti per mezzo di uno straccio che una volta doveva esser stato bianco. Il suo viso era brunastro a causa della sporcizia e i suoi occhi marroni erano spenti e inebetiti, mentre dalla bocca quasi priva di denti colava un rivolo di saliva. Dovevo però trovare il mio amico, quindi mi decisi a chiederle se lo conoscesse. La donna rispose emettendo prima degli strani versi, poi dei gorgoglii, ed infine qualche suono articolato:“chi? Quello di fuori? Ah no, io non lo so. Chi cerca lei? No, no, non so di chi stia parlando.” Si allontanò veloce e furtiva continuando a biascicare: “no, no, non so niente io” e venne inghiottita dall’oscurità di un tugurio.
La situazione era ormai gravissima: il sole stava per tramontare, e del mio amico, ancora nessuna traccia.
L’unica cosa da fare era andare via prima che calasse la notte e tornare un altro giorno, se possibile con la polizia, ma constatai che avevo smarrito la strada.
Stavo quasi per farmi prendere dal panico, quando all’improvviso qualcuno toccò lievemente il mio braccio. Mi voltai con uno scatto, e con grande sollievo finalmente rividi dopo tanto tempo il volto del mio povero vecchio amico.
Avrei voluto esprimere tutta la mia gioia salutandolo calorosamente, ma
lui con fare preoccupato mi impose il silenzio e con un cenno mi invitò a seguirlo. Ci trovavamo in una piazza non molto vasta battuta dal vento, dalla pavimentazione scura e deformata, completamente vuota, circondata da raccapriccianti palazzi grigi con i vetri delle finestre in frantumi. Non brillava alcuna luce al loro interno, ma mi accorsi che nel buio c’era del movimento.
Raggiungemmo una viuzza angusta e nera, fiancheggiata da altri orribili edifici in vari stadi di degrado, simili a quelli prospicienti la piazza.
Alcuni erano semidistrutti e senza il tetto, quindi presumibilmente disabitati. Lungo il viottolo si mescolavano vari fetori: il miasma dei corpi in decomposizione, molto intenso in prossimità dei palazzi abbandonati che fungevano ormai da tombe per i loro abitatori, comunque non sovrastava il lezzo degli escrementi e dell’umanità non lavata. Ma il peggiore, il più opprimente in assoluto era il terribile odore di malattia proveniente dagli edifici abitati. Più di una volta scorsi qualcuno rotolarsi nel fondo fangoso emettendo strani gorgoglii.
Dopo aver percorso lo spaventoso vicolo ci trovammo di fronte ad una piccola altura sulla quale sorgeva una villetta lattiginosa in discrete condizioni: era la dimora del mio amico.

Non appena entrati, egli sprangò la porta e dicendomi che lì eravamo relativamente al sicuro mi abbracciò ringraziandomi per aver risposto alla sua richiesta di aiuto.
Mi raccontò dei fatti assai tristi accaduti alla sua famiglia, che fu spazzata via da una catastrofe naturale lasciandolo completamente solo. Poi a causa di investimenti sbagliati si era coperto di debiti ed era finito nelle mani di spietati usurai.
“Non mi era rimasta che la fuga…” mi confidò “ Ma dove? Quelli mi avrebbero trovato ovunque. Mentre riflettevo sulla mia drammatica situazione e mi arrovellavo alla ricerca disperata di una qualsiasi possibilità di salvezza, mi tornò alla memoria un anziano e simpatico paziente conosciuto in una lussuosa clinica per malattie mentali dove collaborai per un breve periodo dopo aver conseguito la laurea in psichiatria. Il signore in questione farfugliava spesso circa l’esistenza di un villaggio sperduto popolato da derelitti e ignoto anche al diavolo in cui egli stesso prima del suo internamento aveva fatto costruire una casetta dove rifugiarsi per non essere disturbato dai parenti noiosi.
Intravvedendo una fugace speranza mi recai subito alla clinica e con immensa gioia ritrovai il mio caro paziente. Ma in che misura gli potevo prestar fede? Quell’uomo era in clinica da tanti anni per un grave disturbo della personalità. La sua famiglia lo manteneva lì con tutti gli agi possibili, povero vecchio, ma non aveva ormai più alcuna prospettiva di guarigione.
Tuttavia l’arzillo nonnetto fu veramente lieto di poter chiacchierare con qualcuno che si mostrasse interessato ai suoi racconti: parlò per un intero pomeriggio, e finalmente all’ora di cena avevo tutte le indicazioni necessarie per raggiungere questo villaggio, l’agognato asilo che purtroppo ben presto si è rivelato essere un girone infernale.
La villetta in cui ci troviamo è appunto la sua: egli stesso, saputo che intendevo visitare il paese per motivi di studio, mi ha pregato di alloggiare qui per controllarne lo stato di conservazione.
Da allora sono passati cinque mesi. Ho quasi terminato le mie provviste di acqua e di cibo in scatola che avevo portato con me e non posso andare a procurarmene altre perché la mia automobile, che avevo erroneamente parcheggiato davanti alla casa, è sparita la notte del mio arrivo. L’ho ritrovata diversi giorni dopo: era stata rubata e smontata per gioco da un gruppo di bambini. E’ ormai assolutamente inservibile.
Dio solo sa cosa mangino gli abitatori di questo villaggio e dove se lo procurino!
Ma non è questo il problema più grande… io da solo non posso andarmene perché lui non me lo consente: devi sapere che dopo neanche un mese di permanenza sono iniziati gli incubi. Non ricordavo nulla al risveglio, ma per tutto il giorno ero tormentato da un’angoscia senza pari. E sentivo un richiamo.
Nella mente c’era un suono, niente più che un’idea, che echeggiava continuamente, fino a divenire una vera e propria voce rauca e distorta che mi chiamava per nome.
Due settimane dopo cominciò a ripetersi ossessivamente sempre lo stesso
incubo: vedevo la collina spoglia e desolata che sorge all’estremità est del paese, sulla quale è stato costruito, non oso pensare da chi, una specie di tempio formato da tre colonnati esagonali concentrici. Al centro scorgevo una misteriosa figura marmorea che mi attirava come un potente magnete. Non potevo più resistere: decisi di recarmi alla sinistra collina che ormai ogni notte mi inviava questo estenuante richiamo; avevo paura, ma non desideravo altro che quel tormento cessasse.
Raggiunsi la terribile altura come in trance, ipnotizzato dal richiamo che si faceva sempre più intenso, ed iniziai a salire percorrendo un piccolo sentiero coperto di erbacce.
Una strana e lunga serpe attraversò il mio cammino, ma non aveva l’aspetto dei comuni rettili terrestri: il suo corpo iridescente, gonfio e livido in modo innaturale, rendeva quasi goffi i suoi movimenti. Il serpente si arrestò al centro del sentiero, mi guardò come incuriosito e iniziò a strisciare verso di me fissandomi con i suoi terribili occhi a mandorla che mandavano bagliori demoniaci. Dalla bocca sporse una lingua triforcuta, e notai sotto la testa un rigonfiamento simile a quello
dei cobra. Ero paralizzato dal terrore. Improvvisamente, come ubbidendo ad un ordine, l’essere si fermò, cambiò direzione e scomparve tra gli
sterpi, lasciando lungo tutto il suo cammino un disgustoso umore verdastro.
Ripresomi dallo spavento, continuai a salire. Mi imbattei in altre viscide tracce di attraversamenti, ma grazie al Cielo non incontrai più nessun rettile.
Mentre mi avvicinavo al colonnato, udii una voce femminile che singhiozzava e si lamentava per qualche intollerabile patimento. Ai piedi del tempio giaceva infatti una donna riversa a terra in un lago di sangue, orrendamente mutilata. Non chiedermi particolari sulle sue terrificanti condizioni, miracolosamente lo shock le ha cancellate dalla mia memoria. Ricordo solo che mi fissava con un unico occhio perché l’altro pendeva lungo la tempia, ed era ancora viva. Non aveva più un solo dente in bocca, ma ugualmente riuscì a parlarmi.
“Aiutami” disse.
“Chi sei?” riuscii a domandarle io.
“Mi chiamo Sehipi Racy, sono una prostituta, capitai qui un anno fa…uccidimi…e vai via di qui…”
Sotto l’effetto di indefinibili sensazioni la strangolai per porre fine alla sua spaventosa agonia, ma non ubbidii all’ultimo ordine che mi aveva impartito: invece di fuggire rimasi in piedi accanto al suo corpo straziato osservando attentamente il tempio, mentre due venti contrari si scontravano sulla mia figura immobile.
In quel mentre il richiamo si fece sentire con tutta la sua potenza, come mai era accaduto prima, e quella voce distorta ormai familiare iniziò a cantilenare il mio nome”.
A questo punto il mio amico tacque. Una simile inaspettata pausa dopo un racconto così lungo e serrato mi stupì, e lo esortai a continuare. Mi rispose che da allora in poi i suoi ricordi si facevano via via sempre più confusi. Vidi che le sue labbra si stavano muovendo lentamente, in modo quasi grottesco. “E’ la paralisi” riuscì a biascicare, “la malattia di cui ti parlavo”.
Non ritenni opportuno insistere oltre, lo lasciai tranquillo e tentai di riposare un po’, ma era ovviamente impossibile con il mio amico immobile nella stanza e soprattutto dopo le terribili rivelazioni che mi aveva fatto.
Caddi in un fastidioso stordimento popolato da visioni e frasi incomprensibili, da cui mi trasse dopo qualche ora la voce stanca del mio amico: “è durata tanto anche stavolta…dura sempre di più. Comunque credo che per un paio di giorni non si ripeterà”.
“Perché non provi a dormire?” gli proposi, “non appena ti sentirai un po’ più in forze ce ne andremo. La mia auto è fuori del paese, oltre la distesa di fango.”
“Non chiedermi di dormire” rispose “non ne ho il coraggio. Non ho la forza di affrontare un altro incubo. Vorrei andare via ora, ma non ce la faccio: la paralisi mi lascia spossato per diverse ore.
Prima della crisi ti stavo raccontando cosa avvenne davanti al tempio.
Quello che accadde dentro invece è poco chiaro, perché la mia mente era quasi del tutto oscurata dall’imperioso richiamo.
Entrai dunque nel tempio e mi fermai nel corridoio tra il primo e il secondo colonnato.
Faceva molto freddo e aleggiava un vago odore di incenso.
Attraversai il secondo colonnato… secondo corridoio…odore di polvere.
Il gelo finì. Non sentivo più niente.
Inaspettatamente si levò un’agghiacciante cacofonia. Udii suoni
inconcepibili, orribili note lamentose provenienti da gole inumane, note inesistenti nel nostro mondo… perché non ero più su questo pianeta.
Attraversai il terzo colonnato, e mi trovai di fronte…l’orrore.
La statua… il suo odio… il mostro deforme che rappresentava…
IL CRUDELE DEMONE CHE IMPRIGIONAVA!
Lui non può più uscire di lì, qualcuno tanto tempo fa riuscì a rinchiuderlo in una statua che mostra tutto il suo orrore.
A lungo ha cercato un modo per vendicarsi, e da pochi decenni lo ha trovato! Lo so perché me lo ha rivelato lui.
Sentii uno sbattere d’ali dall’interno della statua… l’angelo caduto… Mi avvicinai, guardai il suo volto, e attraverso i suoi occhi… vidi tutto… Le tenebre agitate dall’odio… mostruosità… forme di vita assurde… mondi in collisione… e il vortice che conduce verso l’abisso… le spire di enormi serpenti nel vuoto… il caos.
Ho disturbi alla memoria, ma devo continuare. Pianeti demoniaci e i loro empi saturnali; infinite torri di pietra, cieli minacciosi, crepuscoli irreali. La dimensione del male. Ora so che l’inferno è un universo parallelo al nostro. Io l’ho visto.
Quelle orge nauseanti… fiumi neri, laghi in fiamme, mare, onde di sangue… e l’eterno oceano di fuoco.
Non sono in grado di descrivere altro, ricordo però che all’improvviso nella mia mente ottenebrata brillò per un secondo il pensiero luminoso di Dio; mi risvegliai dall’ipnosi, e il demone urlò come solo un demone può urlare.
Fuggii dal colonnato, ma non appena raggiunsi il corpo mutilato della donna, udii dietro di me un violento sbattere d’ali, che in un attimo mi raggiunse e mi sovrastò.
Avvertii un miasma orribile di decomposizione, guardai in alto e vidi le enormi ali nere che si abbassavano sopra di me. Era l’anima del demone, che aveva imparato ad allontanarsi per brevi tratti dalla sua eterna prigione.
Continuai a fuggire in preda al più devastante terrore, ma la sua essenza mi era ormai addosso, e mi sfiorò con le sue ali.
Fu allora che contrassi la malattia.
Non ti dirò mai cosa accadde in quel terribile momento al mio corpo e alla mia anima. Puoi intuirlo ricordando il rivoltante odore esalante dagli esseri che hai visto rotolarsi nel fango. I loro corpi sono in continua mutazione e decomposizione. I pochi che sono guariti, sono quasi tutti usciti di senno.
Io sono riuscito ad oppormi mentalmente alla malattia, ma continuo a soffrire di crisi paralizzanti come quella che hai visto.
Per questo ho invocato il tuo aiuto: quella donna, Sehipi-Racy, fu sacrificata al demone in seguito ad uno dei suoi più potenti richiami, quando riuscì ad ipnotizzare esseri non umani, provenienti da chissà dove.
Il modo in cui hanno compiuto quelle orrende mutilazioni può essere solo immaginato. Ora questi esseri vivono qui, ed anche loro sono malati. Lui non vuole che se ne vada nessuno, la sua vendetta consiste nell’attirare qui le vittime, umane o no, e trattenerle per sempre.
Sono malato anche io, e se non me ne andrò mi attende l’orrore supremo.
Gli abitanti di questo villaggio sono ormai suoi adoratori, e il demone ora vuole un altro sacrificio; presto verranno a prendermi per condurmi da lui, lo so. Potrebbero venire anche ora. So di essere costantemente in pericolo.”
Era ormai quasi l’alba.
Trascorremmo tutta la giornata seguente in un pesante dormiveglia nel vano tentativo di riprendere le forze, e partimmo non appena calarono di nuovo le tenebre.
Le strade erano quasi deserte, incontrammo solo qualche innocuo demente che si aggirava senza meta fra gli squallidi palazzi in rovina.
Le urla del demone squarciavano la notte, e lo sentivamo sbattere con estrema violenza le ali contro la sua prigione di pietra.
“Non preoccuparti” intervenne il mio amico, “tutte le notti vomita il suo odio
contro il creato e contro il Creatore. Ma è talmente concentrato sulle sue bestemmie che non si accorgerà della nostra fuga”.
Raggiungemmo correndo i confini del paese. Nel desolato campo circostante strisciavano sotto i raggi di una luna spettrale i corpi di quegli orrendi rettili che il mio amico mi aveva descritto.
La loro vista mi immobilizzava, tuttavia dovevamo passare: non c’era alcun altra strada. Tutto il paese era circondato dalla distesa di fango. Attraversando di corsa il campo maledetto, inavvertitamente calpestai la coda di uno di quegli orribili rettili alieni; l’essere si girò, spalancò la sua bocca terrificante, e un millesimo di secondo prima che si avventasse sulla mia gamba con la sua lingua triforcuta, io guardai i suoi occhi, e capii cosa significa provare l’orrore supremo.
Mai avevo visto una simile crudeltà scintillare nello sguardo di un altro essere vivente. Quell’abominio mi morse la gamba, e conobbi un dolore mai provato prima mentre mi iniettava il suo veleno.
Gridai al mio amico di fuggire, poi gridai per il dolore sempre più intenso, mentre il serpente si andava trasformando in quel che somigliava ad un bambino ghignante.
Vidi il mio amico cadere a terra, e scorsi in lontananza l’uomo dagli occhi di ghiaccio correre verso di noi, ma non ebbi il tempo di accertarmene perché subitaneamente il mio corpo venne proiettato nel posto più oscuro del mondo più scuro del più oscuro universo di tutto l’infinito.
Faceva immensamente freddo; qualche essere di tenebra nelle mie vicinanze gemeva piano. Poi, mentre vagavo in quella luce nera mi sentii risucchiare dall’esterno. Attraversai infiniti universi, vidi intorno a me
assurdità sghignazzanti, c’erano grida e orribili risate; vedevo mondi in collisione, chiudevo gli occhi e udivo lo schianto.
Sorvolai un pianeta eternamente coperto da una fitta nebbia grigia, sul cui suolo cresceva una strana vegetazione dello stesso tristissimo colore, poi volai sopra Plutone, e mi sentii gelare alla vista di quei ghiacci composti da ammoniaca e dei quei mari spenti in eterno.
Doppiai il crudele Saturno e l’enorme Giove. Infine raggiunsi la Terra, dalla quale il mio corpo venne magneticamente attirato. Precipitai verso il mio pianeta da un’altezza vertiginosa, e chiusi gli occhi in attesa della fine.
Nel buio qualcuno mi scuoteva e mi chiamava. Tornai in me, e mi risvegliai accanto alla mia auto. Il mio amico aveva trovato le chiavi e stava faticosamente tentando di sollevarmi da terra per adagiarmi sul sedile.
“Ma che è successo?” balbettai al colmo dello stupore mentre lui accendeva freneticamente il motore e si allontanava a gran velocità dal campo maledetto.
“Ce l’abbiamo fatta” mi rispose. “ti vidi sparire, mentre il bambino alieno riprendeva il suo aspetto da rettile. Un uomo che avevo già intravisto nel villaggio stava correndo verso di me. Temevo che volesse catturarmi, e senza ormai più scampo decisi di arrendermi. Invece l’uomo stava inseguendo il serpente, e non appena lo raggiunse schiacciò la sua testa con una violenza incredibile.
Le urla che seguirono non possono essere descritte, contemporaneamente il demone emise un sinistro ululato dalla sua prigione di pietra.
Dopo pochi minuti ti vidi riapparire, ma eri senza sensi.
Quell’uomo mi fissò con due occhi quasi bianchi che parevano fatti di ghiaccio, ma non proferì verbo e ti sollevò di peso. Lo aiutai a trasportarti fino all’auto, e durante il tragitto mi spiegò che egli era un discendente di coloro che avevano imprigionato il demone, e che quei serpenti altri non erano che i terribili alieni giunti da chissà quale dimensione, e che erano diventati i fedeli servitori del prigioniero. Stavano imparando anche ad assumere una certa forma umana, ma era ancora piuttosto imperfetta e instabile.
Proposi all’uomo di venire via con noi, ma egli rifiutò; doveva rimanere lì per combattere il demone e sconfiggerlo una volta per tutte. Se avesse abbandonato il paese, chi avrebbe più potuto contrastarlo? I suoi alieni avrebbero invaso la Terra e lui l’avrebbe dominata.
L’uomo di ghiaccio spera di riuscire ad annientarlo prima o poi, ed è quello che spero anche io. Altrimenti il nostro povero mondo soccomberà”.

Non so se il mio amico sopravvivrà a tanto orrore.
Ha quasi perso il senno, non può rimanere solo un solo istante.
Quando sente lo sbattere d’ali cade in un indicibile terrore, non riesce più a dormire, è spaventosamente debole.
E soffre ancora sporadicamente di attacchi di paralisi. Non posso fare molto per lui, perché sto male anche io.
Penso spesso all’uomo di ghiaccio…riuscirà a sconfiggere il demone, a salvare l’umanità?
L’unica speranza di sopravvivenza per noi è ricoverarci nella clinica dov’è il suo anziano paziente proprietario della villetta nel terribile villaggio. Ho diverso denaro da parte, dovrebbe essere sufficiente per entrambi. Devo assolutamente decidermi, davvero non so quanto riusciremo a resistere.
Sappiamo solo di soffrire lo stesso male.
Forse io resisterò fino alla fine.
Lui no, lui si lascia morire.

Silvia Salvador

2 Commenti a “LE ALI DEL MALE”

  1. andrea dice:

    Ciao Silvia. Una bella storia alla maniera di Lovecraft :)
    Mozzafiato la corsa fuori dal paese. Forse un po’ frettoloso il tutto: a volte liquidi con poche parole degli spunti che avrebbero meritato qualche riga in piu’.
    Grazie per avercelo fatto leggere!

  2. Nene dice:

    Agghiacciante e stupendo! E’ pieno d’azione!
    Sei bravissima, Silvia, continua a scrivere così, complimenti!

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