Le storie macabre di Silvia

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PURGATORIO E PARADISO

Pubblicato da silvia il 8 ottobre 2008

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PURGATORIO E PARADISO

Non sapeva perché si trovasse lì, in quella strana strada. Da un lato un elegante istituto religioso fatto di marmo; dall’altro, case distrutte e abbandonate. Era ormai notte fonda, il luogo era deserto e oscuro, l’unico rumore era il sibilare del vento tra i rami dei secolari alberi fiancheggianti la via, ma lui continuava a temere che i suoi inseguitori lo avrebbero raggiunto prima o poi, e sapeva che non sarebbe più riuscito a fuggire perché ormai era allo stremo delle forze.
Si avvicinò tremando per la paura e la stanchezza all’istituto, cercò il campanello, lo trovò e lo spinse timidamente, ma nessuno gli rispose. Suonò una seconda volta, poi una terza, infine tenne premuto il pulsante per più di un minuto, ed ancora dall’istituto nessun cenno di vita.
Improvvisamente udì un lontano rumore alle sue spalle, come uno scalpiccìo.
Si girò con uno scatto e vide con terrore che i suoi inseguitori erano lì, dietro di lui, vicini a catturarlo ed ucciderlo nel peggiore dei modi per punire un delitto efferato che non aveva mai commesso.
Conosceva il nome del colpevole, avrebbe voluto parlare con i suoi inseguitori, ma non poteva spiegare, né dimostrare la sua innocenza, non si può tentare di ragionare con esseri inferociti dall’odio.
Di troppi misfatti si era macchiato durante la sua folle esistenza, nessuno gli avrebbe creduto. L’unica cosa che poteva fare era fuggire.
Perché aveva lasciato il suo luogo di origine, perché aveva seguito quella maledetta gente che lo aveva portato alla rovina, che lo aveva usato per tutto quel tempo, che lo aveva distrutto!
Ma era oramai inutile recriminare, tutto ciò che doveva fare era continuare la sua fuga.
Si allontanò dall’istituto ove aveva inutilmente cercato asilo e raggiunse lungo il ciglio opposto della strada le case abbandonate che si poggiavano l’una sull’altra come se volessero sostenersi per non cedere al degrado incombente.
Con le poche forze che ancora gli rimanevano, si arrampicò faticosamente su
un cancello in rovina, cadde in un desolato cortile dall’antica pavimentazione in pietra, sconnessa e coperta di foglie morte, e non riuscì più a rialzarsi.
Cominciò a tremare violentemente, attendendo la fine, udendo quello voci urlanti sempre più vicine, sempre più vicine… e più lontane, un po’ più lontane, sempre più lontane.
Sollevò la testa, e scorse l’ultimo esaltato del tristo gruppo che si allontanava gridando dietro ai suoi crudeli compagni.
Non riusciva a crederci: veramente non lo avevano visto? Eppure erano proprio dietro di lui! Probabilmente erano talmente accecati dall’ira da non riconoscere in quel relitto umano che pateticamente scavalcava un vecchio cancello arrugginito proprio davanti ai loro occhi l’oggetto del furore che li spingeva al suo inseguimento ormai da due giorni.
La folle risata che venne di conseguenza ebbe il potere di far scemare il terrore, e il suo cuore si riempì di una sensazione di sollievo mai provato prima di allora. Aveva capito quanto valesse la sua vita nonostante tutti i suoi errori, ora sapeva che doveva difenderla ad ogni costo. Non gli era rimasto altro che la vita, forse per pochissimo tempo ancora, perché col passare dei minuti si sentiva sempre più debole.
Quando le risa isteriche ebbero fine, i suoi occhi si riempirono di lacrime, e pianse ricordando il luogo ameno e felice che aveva abbandonato e che non avrebbe mai più rivisto.
Si pentì di tutti i crimini terribili di cui si era macchiato, avrebbe voluto vivere ancora a lungo per porvi rimedio, ma ormai era troppo tardi. Non poteva tornare indietro. Mai più.

Quando si destò, gli parve di aver dormito per un secolo.
Era completamente buio, faceva molto freddo, e lui si sentiva affatto riposato. Non aveva sognato nulla, il sonno era stato nero e pesante, e la testa gli doleva terribilmente. Era come se avesse dormito con una pietra sulla fronte.
Si sollevò lentamente, e le sue ossa scricchiolanti mandarono mille grida, come se atroci lamette stessero fendendole.
Fece qualche passo nel cortile devastato e si avvicinò alla casa che aveva di fronte, scorgendola appena nella profonda oscurità in cui barcollava dolorante. Un violento capogiro iniziò a tormentarlo, ma lui si sforzò di non svenire, perché temeva che se fosse successo non sarebbe più riuscito ad alzarsi.
Posò una mano sul tronco di un vecchio albero per sostenersi, ma la ritrasse subito pieno di orrore quando sentì che il legno era viscido e molliccio come se fosse percorso da serpenti. Guardò la sua mano, e vide che era ricoperta di una melma giallastra. Odorava di malattia.
Gridando, cadde a terra e tentò di nettare la mano sulle foglie marce, mentre sentiva di nuovo che i sensi lo abbandonavano.
Lottò con tenacia, la sua testa sembrava volesse spaccarsi in due per il dolore, ma riuscì in qualche modo a rimanere cosciente.
Non appena fu in grado di raccogliere le esigue forze che gli erano rimaste provò di nuovo a rialzarsi. Avanzò lentamente verso la casa abbandonata, salì due o tre gradini, si avvicinò al vecchio portone e lo spinse.
Non sperava di trovarlo aperto, ma non appena toccò la maniglia, questo docilmente si spalancò.
Entrò in casa, richiuse il portone e azzardò qualche timido passo nell’atrio. Dalle finestre in frantumi entrava lieve la luce della notte, ma non era sufficiente a vedere cosa vi fosse innanzi. Si tastò le tasche, trovò un accendino ancora funzionante e lo azionò.
Davanti a lui apparve nella debole luce della fiammella a gas una stanza distrutta alla cui estremità opposta si scorgevano delle scale pericolanti che salivano ai piani superiori. Si voltò per uscire ma il portone retrostante era scomparso per lasciare il posto ad un’infinita e buia desolazione. Guardò di nuovo la stanza in rovina, ma questa si era trasformata in un’enorme caverna melmosa e soffocante. Un misterioso lucore baluginava oltre scale che ora conducevano verso un foro nella roccia.
Le rocce erano bagnate per l’elevata concentrazione di umidità, e dalla volta della terribile grotta colava un sinistro umore verde che liquefaceva tutto ciò con cui veniva a contatto.
Una goccia cadde sulla sua testa, lui sentì i capelli sfrigolare, poi gli sembrò come se una trivellatrice gli stesse perforando il cervello.
Gridò come un’anima dannata mentre la trivellatrice scendeva in linea retta come a formare un lungo tubo nel suo corpo.
Quando arrivò all’inguine il dolore raggiunse ogni limite di sopportazione, ma subito si divise e bucò le due gambe fino a raggiungere i piedi e fluire nel terreno.
Il terrore, superando il dolore, gli diede la forza necessaria per correre verso le fatiscenti scale augurandosi di trovare scampo in quel foro leggermente illuminato.
Questa sua speranza fu purtroppo completamente vana, perché oltre il foro lo attendeva qualcosa di peggio.
Si trovò a vagare in un lungo budello nero in cui la tenue luce intravista andava via via smorzando e dopo un cammino piuttosto lungo si trovò davanti ad una piccola porta chiusa.
Avrebbe preferito non scoprire cosa celasse, ma non aveva scelta. Aprì l’uscio ed entrò in una seconda grotta, vastissima e silenziosa.
Pareva non esservi la tremenda melma corrosiva che aveva sperimentato sulla sua pelle nella prima caverna, dunque riprese coraggio e si decise ad esplorarla in cerca di una via d’uscita. Ma inaspettatamente in quel tranquillo silenzio il terreno iniziò a sussultare e a scuoterlo brutalmente, emettendo suoni indicibili.
Si arrestò per il novello terrore e dalla volta dell’immensa grotta piovve un fulmine gigantesco e accecante che si conficcò proprio sul suo volto. Gridò disperatamente quando sentì che la pelle veniva tirata verso l’alto. Si sentì lacerare, distruggere. Il suo viso doveva ormai aver raggiunto la volta della caverna, eppure non cedeva. Dopo pochissimo tempo però il fulmine lasciò la presa e la pelle tornò sul cranio.
Mosse qualche passo, si appoggiò ad una roccia per sorreggersi e senza accorgersene introdusse la sua mano in una fenditura nascosta. Immediatamente la pelle del braccio venne succhiata nella fessura; il sangue schizzò, lui era ormai in balia di un panico assoluto.
Tutto il braccio venne aspirato dal terribile pertugio, ma non appena l’ultimo lembo di pelle venne lacerato, subito ne crebbe un altro, completamente sano.
Toccò il suo viso, e si accorse di non avere neanche un graffio; provava solo una piacevole stanchezza, ma nessun dolore.
Riprese a camminare nella grotta silenziosa, riflettendo sull’accaduto. Che posto era mai quello? E lui era vivo o morto? Perché quegli spaventosi quanto brevi supplizi che comunque non lasciavano la benché minima traccia sul suo corpo? Quali orrori ancora lo attendevano? Pareva che non dovesse accadere più nient’altro, perché la grotta si andava sempre più rischiarando mentre procedeva verso una stretta e luminosa apertura.
Si sentiva diverso, non ricordava più tutto il male che aveva compiuto durante la sua esecrabile vita… probabilmente la trivellatrice che gli aveva perforato la mente quando si trovava nella prima grotta aveva portato via tutti i suoi insopportabili ricordi.
E il suo viso sempre stravolto… era così liscio e disteso… piacevole a vedersi; e quella mano feroce che aveva impugnato armi e coltelli così tante volte in passato finalmente non esisteva più, ormai c’era un braccio innocente al suo posto.
Si avvicinò al lucente e angusto passaggio e senza indugio lo varcò.
Si ritrovò all’esterno della grotta, e si sentì investire dolcemente da una deliziosa aria fresca, mentre godeva degli ultimi splendidi raggi di un sole calante.
Per un attimo quel tramonto celestiale risplendette di una luce sfolgorante, il cielo divenne chiarissimo, poi il sole tramontò del tutto lasciando il posto ad una notte intensa e stellata.
Stava in piedi presso la riva di un enorme lago, sul quale galleggiava una piccola barca legata ad un albero secolare che protendeva i suoi rami verso quelle acque tranquille. L’uomo salì sulla barchetta, la sciolse e si lasciò trasportare.
Navigò piacevolmente per molti giorni, senza mai aver bisogno di mangiare, né di bere.
Un pomeriggio, mentre osservava con immensa serenità la sconfinata distesa azzurra, percepì un profumo familiare e intravide qualcosa. La barca si diresse lentamente verso la costa verdeggiante che si scorgeva in lontananza e come manovrata da una forza invisibile approdò alla riva.
Il passeggero scese e capì di aver raggiunto alla fine la meta del suo lungo viaggio: era tornato nel suo luogo natale.
Il sole non era ancora tramontato che lui si trovò davanti alla sua casa. Aprì esitante la porta, e rimase sbigottito nel rivedere sua madre seduta ad un grande tavolo coperto di fragole e di fiori colorati.
Lei si alzò e gli corse incontro per abbracciarlo, dicendogli che lo stava aspettando da tanto tempo.
La gioia dell’uomo era immensa, indescrivibile. Vide poi che nella stanza c’era un’altra donna, bellissima e sorridente, che a sua volta lo guardava come se aspettasse di essere notata.
Si staccò dall’amorevole abbraccio della madre, le andò incontro e riconobbe nella splendida figura che gli stava davanti la sua più cara amica d’infanzia.
Lei gli andò vicino e come aveva fatto la madre lo strinse in un abbraccio morbido e armonioso.
L’uomo provò un sentimento a lui del tutto sconosciuto, una delizia straordinaria, un amore infinito.
Aveva ritrovato tutto ciò che durante la vita aveva perduto.

Nel cortile di una casa abbandonata in una grande e lugubre città vi era un cadavere che si putrefaceva lentamente.
Quando gli operai incaricati di abbattere quell’edificio lo trovarono sepolto da un cumulo di foglie secche, non erano rimaste che le ossa.
Nessuno seppe mai a chi appartenessero.

Silvia Salvador

Un commento a “PURGATORIO E PARADISO”

  1. andrea dice:

    Ciao Silvia! Interessante l’idea della casa che fa da Purgatorio e da Paradiso per quel poverino.
    Il fatto che tu non ci spieghi come mai gli dessero la caccia aggiunge un po’ di mistero, che non guasta mai.
    Forse ci sei andata giu’ un po’ pesante con gli agettivi (non c’e’ praticamente nessun sostantivo che non ne abbia uno o due), ma nel complesso un lettura piacevole :)

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