Le storie macabre di Silvia

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VILLA EGLE

Pubblicato da silvia il 8 ottobre 2008

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VILLA EGLE

Tutto ciò che accadde in quella villa è qualcosa di simile alla fantasia.
Se non avessi quelle maledette foto potrei tranquillamente affermare di aver solo sognato, perché più ci rifletto, più mi sembra estremamente irreale ciò che ho visto quella notte lì dentro. Ma se così fosse, il mio collega sarebbe ancora con me… invece è scomparso.
Per il nostro lavoro avevamo bisogno di fotografare in modo particolareggiato una villa abbandonata, quindi decidemmo di recarci a Villa Egle. Ignoravamo i nomi dei proprietari, se mai ce ne fossero ancora stati, e non avevamo il tempo di fare ricerche sugli eventuali eredi. Del resto il lavoro che dovevamo svolgere era piuttosto urgente e ci avrebbe impegnati per un breve pomeriggio; quella villa era da anni in un completo stato di abbandono, da tantissimo tempo nessuno penetrava nei suoi antichi recessi, quindi stabilimmo senz’altro di rischiare senza perdere tempo in lunghe ricerche sulla proprietà di Villa Egle, che pareva ormai dimenticata da tutti. Era pur sempre una violazione di domicilio, è vero, ma l’urgenza di avere quelle foto e la sicurezza che nessuno avrebbe protestato spinsero la nostra imprudenza oltre le decrepite mura di cinta di quella vecchia dimora.
I due cancelli della villa erano assicurati da lucchetti arrugginiti, ma non ci parve il caso di forzarli. C’era una porticina più piccola in ferro marcio sul lato ovest, ma anche quella era serrata. Pensammo allora di scavalcare il reticolato messo a protezione di un parziale crollo delle mura di cinta sul retro.
Ricordo che scavalcai prima io, davanti agli occhi esterrefatti di un’anziana mendicante che continuò a spiarci da un angolo finché non fummo all’interno.
Rivedo tutto come in un film, continuo a sperare che sia stato solo un sogno, ma ho le prove che non è così.
Mi vedo saltare sul muretto, oltrepassare il reticolato, raccomandare al mio collega di fare attenzione al ferro arrugginito. Rivedo lui che mi passa la sua sofisticata macchina fotografica, il suo zaino, poi lo vedo scavalcare e
scendere nel giardino accanto a me.
Iniziammo a studiare la villa; doveva essere stata magnifica, alta ed elegante, con le mura di pietra e i balconcini marmorei. L’ingresso sul retro era coperto da un antico pergolato di glicine che cresceva indisturbata sulla tettoia semidistrutta. La porta che dava su quella che presumibilmente doveva essere stata la cucina era serrata, e così anche quella dell’ingresso principale.
Notammo una finestra rotta al pianterreno attraverso la quale avremmo potuto introdurci, ma la mendicante era ancora all’angolo della via ad osservare, quindi ritenemmo opportuno attendere che se ne fosse andata.
Oltre al pianterreno la casa si ergeva per altri due piani, e culminava con una mansarda di forma pentagonale. Osservavamo quasi morbosamente quel locale in alto, incuriositi soprattutto quello che pareva un sacchetto appeso alla maniglia della finestra all’interno, ma per il momento era sconsigliabile entrare.
Mi guardai intorno e notai dietro di noi un cancelletto bianco aperto che immetteva in un sentierino, il quale conduceva ad un piccolo parco. Le piante tutt’attorno erano cresciute folte e disordinate a causa di anni di noncuranza.
Seguendo il sentiero giungemmo ad una fontanella, chiusa, naturalmente; da lì partivano varie diramazioni, di cui una che portava ad un’incolta radura che aveva conosciuto tempi migliori. Vi erano tre sedie da giardino coperte di ruggine, che un tempo dovevano essere state molto eleganti, e un tavolino di pietra di foggia antica fissato a terra. Il tutto era coperto da un altro pergolato dal quale pendevano dei grappoli d’uva fra i più tenaci e selvatici. Il giardino era sinistro per via dell’incuria, ma splendido. Quasi non si riuscivano a seguire i piccoli sentieri a causa della vegetazione incolta, composta da alberi bassi, arbusti senza fiori, piante da fiume, fichi, pitosfori e oleandri. Scattammo delle foto stupende. Ricordo di aver detto al mio collega che gli antichi abitanti di quel luogo dovevano aver trascorso ore liete sotto quel pergolato; lui però guardandomi in modo strano mi aveva fatto osservare che non basta vivere in una villa con un bel giardino per essere felici. Chissà, forse quella era stata la dimora di qualche insano di mente guardato a vista da parenti aguzzini.
Celata dalle piante, il mio collega trovò una vecchissima autovettura priva di targa, ma ci astenemmo dall’aprirla perché nell’oscurità del suo interno ci sembrò di scorgere un biancheggiare di ossa.
Era ormai il tardo pomeriggio, il sole stava per tramontare e il luogo andava assumendo un aspetto lugubre. Tuttavia non osavamo ammettere di avere paura di una vecchia casa, quindi tornammo verso la finestra infranta attraverso la quale avevamo pensato di entrare nell’edificio.
Notammo in quel momento un’altra finestra dalle imposte divelte nascosta da alberi bassi, e decidemmo di passare di lì. Il mio collega guardò attraverso le imposte, ma ridiscese subito e con un’espressione spaventata mi disse: “c’è una luce accesa lì dentro, e un odore di chiesa, di ceri.” Mi confidò di essere davvero molto spaventato, e mi chiese di andar via.
“Cos’altro hai visto?” gli domandai non appena fummo fuori “un’ombra, un volto?”
“Niente. Era tutto buio. C’era solo… quella piccola luce… e quell’odore…”
“Di cera?”
“Sì, proprio di quella cera che si usa in chiesa”
“Di incenso?”
“No, no. Solo di cera”
“Probabilmente è solo un senzatetto che si è stabilito lì dentro. Avrà acceso una candela per farsi luce. Gli offriamo qualche soldo e ci lascerà visitare la casa”
“Non so… non ho visto nessuno. Preferisco andare via, oltretutto l’interno è ormai troppo buio per fare foto accettabili.”
Lo assecondai, ma non gli proposi di tornare il giorno dopo con il sole per visitare l’interno: mi era parso quanto mai inquietante il silenzio che vi regnava; se davvero vi fosse stato qualcuno avremmo dovuto sentire qualche rumore… magari si era solo acquattato spaventato dalla nostra intrusione nel giardino… ma allora perché avrebbe acceso una candela?
Conclusi che le numerose foto scattate all’esterno fossero sufficienti, e ce ne tornammo alle nostre case.

Quella notte fuggii. Villa Egle mi chiamava, mi aspettava. Ricordavo quel misterioso sacchetto appeso alla finestra della mansarda, dovevo scoprire di cosa si trattasse.
Come in un sogno, mi ritrovai davanti al cancello principale. La pesante catena giaceva a terra, sembrava lo scheletro di un serpente. Il lucchetto era aperto, agganciato alle sbarre del cancello socchiuso.
Il mio collega era già davanti al portone della casa; la sua presenza non mi stupì.
Insieme raggiungemmo la porta sul retro, e diedi un’occhiata al giardino: ombre scure si muovevano nella vegetazione selvaggia, e udii un rumore di metallo spezzato. Pensai che avesse ceduto una di quelle belle sedie sotto il pergolato che avevo ammirato quel pomeriggio ormai lontano di secoli.
Ebbi paura del giardino, e mi avvicinai alla porta, lasciandomi alle spalle le creature notturne, i fantasmi di chi non era riuscito ad essere felice in quel luogo quando era un paradiso.
L’uscio era semiaperto; il mio collega lo spalancò ed entrambi ci avventurammo all’interno. Dentro splendeva quella strana luce, ma non riuscivo a capire da dove provenisse: pareva come soffusa dalle stesse pareti. Nella casa vagava un uomo dall’aspetto anzianissimo, morto da molto. Indossava un pigiama a righe di fattura antica, e spesso andava a sedersi su un misero letto in ferro su cui era stesa una grezza coperta militare.
L’uomo non disse mai una parola, si limitò a guardarci con scarso interesse e non fece nulla per ostacolarci. Il suo sguardo sembrava rassegnato. A poco a poco ci abituammo alla sua presenza silenziosa, e continuammo ad esplorare il pianterreno.
Lì l’odore di cera era molto intenso, ma non mi ricordava affatto una chiesa. Le chiese sono luoghi di pace e di preghiera, mentre non c’era nulla di dolcemente mistico in quell’antro. Mi ritrovai nell’oscurità completa, e camminai a tentoni. Giunsi in una piccola stanza vuota, proprio la stanza dalla quale il mio collega aveva sbirciato, e lì vidi ciò che non avrei mai immaginato di vedere: tante, tantissime statue di cera sulle cui teste ardevano
fiamme rossastre che mi venivano incontro ghignando. Molti dei loro volti assomigliavano in modo impressionante a persone che avevo conosciuto, ma i loro lineamenti erano completamente deformati dalla cera che colava sui loro occhi.
Tutte le statue scoppiarono in una risata folle, e notai con orrore che tra loro c’era anche il mio collega. Tutti sembravano deridermi, disprezzarmi, odiarmi, e continuavano ad avanzare verso di me.
Mi scossi dallo stato di immobilità causato dal terrore e fuggii ai piani superiori senza fermarmi, fino a raggiungere la mansarda.
Chiusi la porta dietro di me e mi avvicinai alla finestra. Quello che dal basso avevo preso per un sacchetto era in realtà una maschera demoniaca. La tenni tra le mani per un bel pezzo, la osservai intensamente, poi notai ai piedi della finestra un enorme baule nero.
Lo aprii e ne trassi il macabro contenuto: decine e decine di maschere deformi e spaventose che al tatto sembravano fabbricate con pelle umana mi fissavano ghignando. Sollevai quella che avevo trovato per prima per indossarla quando nella stanza entrò urlando un uomo con un’altra di quelle maschere sul suo volto. Le sue grida erano tremende, come se ne possono udire solo dalla gola di un dannato. Si contorceva tentando di sfilarsi la maschera infernale, ma dopo una lunga e vana lotta cadde sul pavimento in un lago di sangue e continuò a dimenarsi senza più aver la forza di urlare.
Sentii passi per le scale, dietro la porta chiusa qualcuno rideva, e capii che per me era ormai la fine.
Ma improvvisamente vidi una luce bianca sopra di me, e notai delle scalette in legno che salivano verso una piccola soffitta. Corsi in quella direzione e a metà delle scale incontrai un bambino bianchissimo adagiato in una culla splendente. Il bambino mi parlò con una voce da uomo e mi disse: “Qui non potranno prenderti. Rimani dove sono io, ma non andare oltre”.
Non so cosa accadde poi. Le urla sottostanti si mescolavano a sadiche risate.
Sentii un tremendo fragore, mi parve che la casa vibrasse come per un violento terremoto, poi fu come se fosse scoppiato un incendio perché scorgevo lingue di fuoco e provavo un caldo infernale, ma non vidi più nulla.

All’alba del giorno dopo vagavo come in trance per le vie, e a stento riuscii a rincasare. Pensai di aver sognato, ma la macchina fotografica con le foto scattate a Villa Egle mi confermano che ci siamo stati in un lontano e sciagurato pomeriggio. La villa è sempre lì, uguale a prima, immobile e maestosa come una vecchia strega. Non so a chi appartenga né ho svolto ricerche per saperlo.
Non ho più visto il mio collega.

Silvia Salvador

3 Commenti a “VILLA EGLE”

  1. bernardodaleppo dice:

    Ciao Silvia e benvenuta,
    questo tuo racconto mi ha bene impressionato riguardo alla forma e mi ha condotto a terminare la lettura, ma le belle idee che introduci mi sembra avrebbero meritato ben maggiore approfondimento piuttosto che una fine un poco frettolosa.

  2. lindas dice:

    Ciao Silvia, bel racconto con un’aggettivazione ricca ed efficace. Se posso permettermi, forse avresti potuto creare più “climax”, rendendo più intensa e graduale kl’atmosfera angosciata ed angosciante.
    Alla prossima!
    :o)

  3. Federico dice:

    Molto bello. Lo stile è asciutto, ma non per questo povero. Tutti i misteri restano irrisolti e alla fine della lettura rimane un alone di inquietudine…

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