UOVA PAZZE E STRAPAZZATE

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DIETRO LE TENDE

Pubblicato da suddenhush il 28 gennaio 2008

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DIETRO LE TENDE                                   


 


                                          


Erano sedici anni che Lorenzo mancava dalla sua città natale. Se non fosse stato per il funerale di suo zio, non ci sarebbe mai tornato. Un senso d’inquietudine s’era impossessato di lui da quando la voce registrata di una donna aveva annunciato che l’intercity per Bari Centrale era in arrivo sul secondo binario. S’era quasi dimenticato il trolley, tanto l’ansia l’aveva stordito. Raggiunse correndo la carrozza numero nove.


Aveva scelto il posto accanto ad una signora anziana perché sperava che fosse troppo stanca per intavolare una discussione e si sfilò gli occhiali da vista per nettarli col lembo della camicia. Si immerse nella lettura di un saggio ma dopo qualche minuto accostò le tendine gialle e chiuse gli occhi, cercando di addormentarsi: il viaggio da Roma era piuttosto lungo; ma i pensieri che si accavallavano nella sua mente lo sbattevano sulle coste della realtà, senza permettergli il lusso di navigare nella dimensione onirica.


Man mano che il finestrino gli restituiva i contorni di ora in ora più piatti del paesaggio, Lorenzo aveva più nitida l’immagine del ragazzino che era stato.


 


Il centro storico di Bitonto.


Ti accorgevi di esserci entrato quando i supermercati diventavano botteghe coi nomi del macellaio o del pescivendolo sull’insegna; la colata d’asfalto si arrestava ai piedi delle larghe mattonelle di pietra, lucide come cera e irregolari come la dentatura di un vecchio. Luce incolore di giorno e arancione di sera, quando i lampioni tondi come lune piene manifestavano la propria presenza, ritti come soldati di piombo. L’odore persistente di frittura e di peperoni faceva allargare le narici ai bambini e disgustava le signore del centro con le borse firmate e lo yogurt magro nella busta di plastica. Tovaglie a quadretti bianchi e rossi o con fiori di colori innaturali stese una volta al mese. Signore che scrollavano le scope sulle ringhiere scrostate, facendo nevicare fiocchi di polvere sulla testa di qualcuno che poi urlava qualcosa in dialetto.


Anziane sole, che sistemavano lentamente davanti alla propria abitazione la sedia tarlata col cuscino piatto e stendevano le gambe gonfie, in attesa di un alito di vento o di una chiacchierata.


Case tutte uguali, spesso al limite della fatiscenza; lo stesso colore anonimo ad amalgamarle tutte. I gerani spelacchiati ad adornare i balconi sacrificati. Gli stessi panni bianchi e blu sciorinati su vecchi fili di metallo storti dalle intemperie. Le tende bucherellate orlate di trine a dare un po’ di privacy all’ingresso, aperto sulla strada: bastava infilare lo sguardo attraverso gli strappi per immergerti, per pochi secondi, nella misera esistenza dei vicini, fatta di quadretti con le cornici di bronzo, minestre di lenticchie, tavoli sgangherati vestiti di tovaglie barocche, ridicoli come matrone a teatro, tulipani finti e televisori scassati.


Anche il televisore di Lorenzo quindicenne era scassato. Scassato e occupato. Occupato tutte le sere da suo padre Nicola. Nicola arrivava dalla bancarella ortofrutticola con i reni a pezzi, a furia di stare in piedi dalle sei della mattina. Salutava suo figlio e si piazzava sul divanetto polveroso dopo aver premuto con energia l’interruttore. A volte, per accenderlo, bisognava incoraggiarlo con delle pacche.


Quando pensava alla televisione nel 1988, Lorenzo pensava a Massimo Ranieri; la sua “perdere l’amore” aveva trionfato quell’anno a Sanremo e suo padre la fischiettava di continuo, specialmente quando era preso da qualche pensiero. La presenza femminile, in quella casa, era rappresentata unicamente dalla fotografia di una signora dai lineamenti un po’ duri e dai pochi indumenti che Nicola, il padre di Lorenzo, non si decideva a dar via. Le faccende di casa le sbrigava il ragazzino al termine della giornata scolastica, svogliatamente. Spazzava il pavimento senza neppure spostare le sedie, rifaceva i letti di malavoglia. L’unica cosa che gli piaceva fare era apparecchiare la tavola per la cena, nella speranza che suo padre avesse riposto nella madia qualche pezzo di focaccia di Nino, cosa che lo metteva sempre di buon umore.


- Bel bel, ca t’annquesh[1]! – gli diceva sempre suo padre, ridendo. Era difficile che Nicola parlasse in italiano.


A Lorenzo piaceva studiare, ma un paio di volte al mese era costretto dai suoi compagni a marinare la scuola, per dimostrare loro di avere abbastanza fegato. Ma serviva a poco: lo prendevano in giro, continuando a chiamarlo “Isabella”. Ed erano così abituati a rivolgersi a lui con quel nome che quando gli insegnanti lo chiamavano Lorenzo, per un attimo qualcuno rimaneva spiazzato.


Non era solo per via di certi suoi movimenti femminei (di cui lui non si rendeva conto, nonostante lo imitassero) che gli era stato appioppato quel nome; era la sua fisicità che non tornava: all’ombra delle sue ciglia esageratamente lunghe erano piantati due occhi turchesi un po’ timorosi; a dividerli, un naso piccolo, quasi piatto. Una spruzzata di efelidi dello stesso colore dei capelli, liscissimi; e un corpo gracile e aggraziato che solo l’abbigliamento distingueva da quello che ha una ragazzina prima del menarca.


Alessandro Bonetti era il loro leader. Era nella loro stessa classe ma aveva diciassette anni perché era stato bocciato per due volte consecutive. Si presentava a scuola quando gli pareva e gli pareva molto poco, cosa che faceva tirare un sospiro di sollievo ai professori. Si rivolgeva a chiunque come se fosse un suo inferiore e girava con un coltello a serramanico addosso.


I compagni lo rispettavano perché lo temevano. Nessuno osava contraddirlo perché bastava un nonnulla per accenderlo e fargli usare le maniere forti. Alessandro non forniva mai spiegazioni riguardo ai suoi comportamenti, neanche a quelli più lesivi della fisicità e della psiche altrui. Arrivava a scuola senza salutare nessuno, la sigaretta accesa tra le labbra e l’espressione di chi aspetta da un momento all’altro di dover rispondere coi pugni ad un tentativo di accusa.


La sua preda preferita era Lorenzo. Lo strattonava di continuo, come per svegliarlo, gli scrollava la cenere della Marlboro sul panino, gli ordinava di alzarsi nel pieno della lezione e dichiarare alla sgraziata insegnante che oggi la trovava deliziosa, col risultato che quella s’innervosiva e gli altri si sganasciavano dalle risate.


Suo zio, con la cui famiglia abitava, gestiva commerci illegali e anche lui si dava da fare, rubando autoradio e motorini. Sui Bonetti si sapeva tutto e niente, a seconda di chi lo chiedesse.


 


 


Lorenzo si arrese ai propri pensieri. Aprì gli occhi e fermò la tendina dietro un gancio di plastica. Poggiò la testa sul finestrino. Il vetro vibrava per la velocità della corsa, ma non gli dava fastidio, gli sembrava piuttosto una coccola. Il vetro era caldo sotto i suoi capelli. Desiderò che piovesse; la pioggia era il suo sole. Quando il cielo era coperto gli sembrava di poter raccogliere e controllare i suoi pensieri, come se le nuvole potessero rimpicciolire il mondo e semplificarlo. Amava meditare assistendo alla corsa delle gocce sui vetri della sua modesta casa fuori Roma, le piccole a seguire la grande che era passata prima e gli aveva già preparato il percorso, come Cristo con gli uomini. C’erano sempre quelle che sceglievano altri percorsi, con l’entusiasmo che accompagna le iniziative diverse: ma la loro strada non tracciata era più difficoltosa e la morte negli infissi più lenta.


Non era più solo con l’anziana signora, ora tutta presa dalla compilazione di un cruciverba; era salita una strana coppia, composta da un ragazzo smilzo sui ventidue – ventitré anni, in jeans e felpa bianca e un giovanotto grasso, con gli occhi azzurri e un berretto rosso ben calcato in testa.


Hai capito quello che ti ho detto, Angù? Non te lo voglio ripetere un’altra volta. – continuava a dire lo smilzo, con marcato accento siciliano.


Madò, non mi scocciare… Ho capito! – rispose l’altro pacatamente, guardando Lorenzo in cerca di comprensione. L’uomo sorrise. Notando lo sguardo d’intesa tra l’amico e il passeggero, lo smilzo stette un po’ ad osservare Lorenzo, poi gli sorrise.


Non sembra un’anguria, con questo faccione? – disse, prendendo tra le mani il viso del corpulento giovanotto, che si dimenava simpaticamente. – Anguria! Ti sei messo pure il cappellino rosso! Gli piacciono assai le ragazze, ad Anguria. Ha un sacco di numeri di ragazze, pure belle! Gli è morto il padre, l’anno scorso.


Lorenzo si domandò il nesso tra le ragazze e la morte del padre, ma espresse il suo dispiacere al giovanotto.


- Come te lo sei preso il tramezzino, Angù?


- Tonno e carciofini. Comunque ne ho presi tre. Per sicurezza.


- Sicurezza! – rise quello, contagiando l’anziana, che era s’era troppo incuriosita per continuare il suo cruciverba.


  


A Lorenzo invece i carciofini fecero pensare. Gli venne in mente un grosso carciofo dalle punte violacee quasi iridescenti. Suo padre glielo aveva tirato addosso una mattina che Alessandro l’aveva costretto a marinare la scuola e a passare davanti alla bancarella di suo padre con uno scialle in testa e il rossetto rosso.


- Vediamo se ti riconosce. Sai che risate?


Suo padre stava riempiendo una busta di carciofi per una signora, quando l’adocchiò: gli aveva scagliato contro un carciofo, prima di gettarsi al suo inseguimento. La faccenda era diventata una barzelletta in tutta Bitonto vecchia.


- Brava, Isabella. Non ti facevo così coraggiosa! – gli disse Alessandro, prendendogli il mento tra pollice e indice e scuotendolo un po’.


Lorenzo s’era sentito inorgoglito da quell’apprezzamento, ma poco dopo si era fatto prendere dal senso di colpa e aveva pianto. Ci mancò poco che Alessandro non lo picchiasse; aveva già sollevato le mani su di lui, con i denti digrignati dallo sprezzo, quando lo sguardo supplichevole di Lorenzo gli abbassò il braccio. Finse magnanimità solo perché l’aveva fatto divertire, ma da quel giorno non pretese più che il ragazzo marinasse la scuola.


Nicola teneva all’istruzione di suo figlio. L’episodio lo aveva rattristato molto e ci vollero due settimane e mille preghiere prima che riprendesse a parlargli.


 


Il buio di una galleria inghiottì le facce dei passeggeri dell’intercity.


- Angù, non ne approfittare per toccare la signora! – fece lo smilzo, facendo ridere sguaiatamente l’anziana.


Lorenzo invece non si distrasse dai suoi pensieri. Tenere gli occhi spalancati e non vedere nulla gli ricordò la paralisi emozionale provata durante il primo contatto col suo compagno di classe.


 


Accadde un sabato sera.


Lorenzo aveva indossato una camicia pulita, infilato il pigiama e lo spazzolino nello zaino, lo stesso che usava per la scuola. Due giorni a settimana toccava a lui dormire a casa di sua nonna. Era ancora arzilla, ma la notte aveva paura che le venisse un attacco e così i nipoti facevano a turno nel tenerle compagnia. La casa di sua nonna era piuttosto grande. Non aveva il soggiorno direttamente sulla strada come la maggior parte delle abitazioni di quella zona. C’era un portone di legno verde scuro con un batacchio color bronzo, dopodiché si salivano un paio di rampe prima di entrare in casa.


A Lorenzo toccavano il martedì e il sabato.


La nonna non era mai inattiva. D’estate passava il suo tempo a cucire sul balcone, oppure ad essiccare i pomodori per metterli sott’olio e regalarne barattoli interi a figli e vicini. D’inverno faceva il pane, le marmellate di arance e i biscotti al burro.


Lorenzo camminava a passo svelto per le strade strette e polverose, dove non era così raro intravedere la coda sottile di qualche topo. Erano le ventidue e poteva udire chiaramente, dal vicino piazzale della cattedrale, gli schiamazzi dei suoi coetanei, richiamati a gran voce dalle madri. La luce arancione di un lampione si stiracchiava lungo un tratto di pochi metri, affievolendosi in prossimità di un vicolo cieco. Da quella penombra, Lorenzo si sentì chiamare da una voce rude.


- Isabella! Dove stai andando?


- Ciao… Mia nonna… vuole che le tenga compagnia.


Lorenzo distingueva appena la figura di Alessandro. Quello lo attirò a sé con forza, prendendolo per un braccio. Ci mancò poco che non glielo slogasse.


- Che ho fatto? – chiese Lorenzo, credendo che il compagno volesse punirlo per chissà quale colpa. Sotto la camicia immacolata il suo torace si scuoteva ad intermittenza, in sincrono col battito cardiaco.


Alessandro strinse le spalle ossute del quindicenne tra le sue mani e lo costrinse contro il muro di pietra. Lorenzo non poteva più vedere, gli pareva di avere le pupille offuscate da un alone grigio, attraverso cui vedeva sbucare solo due occhi di carbone. Alessandro si avventò sulla sua bocca con la rabbia appassionata di chi cede ad un desiderio irresistibile ma vergognoso, che durante la notte negherà anche a se stesso. Quel viso così vicino al suo, quel contatto non previsto, ebbero un effetto paralizzante sul ragazzo. Non mosse un muscolo, tenne gli occhi spalancati, immobili come vedette; cessò persino di respirare.


- Se lo dici a qualcuno passi i guai. E tu lo sai che non scherzo.


Alessandro uscì dall’ombra, si voltò a destra e a sinistra per assicurarsi che niente fosse stato visto e si perse tra i vicoletti, in mezzo alle tende di trine e alle fontanelle lacrimanti.


 


Quella notte Lorenzo non dormì. Una strana gioia, mischiata ad un ombra di piacevole timore, gli fece sembrare tutto ciò che lo circondava di secondaria importanza: la carezza ghiacciata delle lenzuola sdrucite di cotone; il russare regolare di sua nonna; il pensiero di come avrebbe potuto reagire suo padre se l’avesse saputo. A quindici anni Lorenzo non aveva mai toccato una ragazza, né desiderato farlo. La cosa non gli era mai sembrata anormale. Più che altro non si era mai interrogato, a riguardo. I suoi amici parlavano di sesso ma a quelle discussioni lui non aveva mai partecipato. Diverse volte li aveva sentiti sghignazzare additando i “ricchioni”, come li chiamavano loro, Alessandro per primo. Ma lui non pregiudicava, né tantomeno giudicava; semplicemente non gli importava.


Probabilmente, il fatto che gli altri si rivolgessero a lui con un nome femminile l’aveva in un certo senso schermato, reso già avvezzo a sentirsi distinto dagli altri. Ma a lui importava solo capire il perché dello strano comportamento di Alessandro; da parte sua, quel gesto aveva rappresentato un autentico scossone: si era convinto, nel giro di pochi minuti, di essere seriamente innamorato di Alessandro Bonetti.


 


- Vuole favorire? – chiese Anguria a Lorenzo, porgendogli una scatola di biscotti assortiti.


- No, grazie.


Anguria si offende se non ne prendete almeno uno.


Gli toccò ingollare una specie di bacio di dama farcito di una marmellata stucchevole.


 


 


La domenica successiva, sua nonna l’aveva trovato addormentato ai bordi del letto, rannicchiato come se avesse sofferto l’intera notte di crampi allo stomaco.


Di solito Lorenzo era già in piedi alle sette di mattina perché mal sopportava il dover stare supino per lungo tempo. Ma quella mattina sua nonna gli aveva dovuto promettere la cioccolata calda per farlo mettere in piedi.


Verso le undici, ricevette l’incarico di portare un vassoio di pasta fresca alla signora Annina, una vecchia un po’ fuori di testa che abitava accanto ai Bonetti. Sperava di incontrare Alessandro, durante il tragitto, ma al contempo lo temeva.


Raccolse la busta bianca dalle mani tremolanti dell’anziana, poi si sporse in avanti, baciandole frettolosamente le guance.


- Nan zi prden timb, dà nnànz, la nonn. Fa’ d furih[2].


S’era guardato intorno durante tutto il percorso. Passando davanti al vicolo cieco della sera prima, aveva rallentato un po’ il passo. Era così diverso, ora. La luce grigiastra del mattino illuminava anche quell’angolo. La luna fittizia del lampione era una presenza inutile, fortunatamente anche di sera.


Suonò il campanello della signora Annina, gettandosi la busta dietro la schiena. Una, due, tre volte. Non rispondeva nessuno. Nell’attesa silenziosa di una risposta, le orecchie di Lorenzo captarono dei tonfi provenienti dal palazzo accanto. Sollevò lo sguardo, aspettandosi di vedere Alessandro aprire le persiane. Invece lo vide sgusciare dal portone con fare circospetto e un’agitazione che affiorava sul viso con un rossore violento che ben poco si addiceva alla sua figura massiccia e strafottente.


- Che guardi? Che cazzo guardi? – inveì sul ragazzino.


Lorenzo si fece piccolo piccolo e non rispose. Schiacciò per l’ennesima volta il campanello ingiallito di Annina. Di sottecchi continuava a guardarlo.


 


 


- Ma voi quanta memoria c’avete sul computer? – chiese Anguria a Lorenzo.


- Non ce l’ho, il computer.


- Ah…No, perché io c’ho una scheda che non mi funziona sul computer. Cioè, gliela potevo regalare.


- Angù, ma che minchia dici? Lui a casa c’ha il computer perché si scarica i CD. – spiegò lo smilzo.


- A me se mi arriva la finanza a casa, mi danno tre ergastoli. Ho la casa piena di CD taroccati. Dieci CD, sette euro. C’ho un amico mio che li fa. Io perché sono imbianchino. Sennò originali me li compravo.


- Io pure, lavoro con lui. Ma voi che lavoro fate?


- Sono un prete.


Rimasero spaesati a causa dell’abbigliamento normalissimo di Lorenzo.


- Santità, scusate per le parolacce. – fece Anguria, premendosi le mani giunte sulle labbra. – Ma i CD taroccati… è peccato, padre?


Lorenzo rise. La vecchia gli toccò il braccio, preoccupata per la sorte di Anguria.


- Non è peccato, vero?


 


Quel bacio maldestro non fu l’unico tra di loro. Alessandro si mostrava sempre molto scostante con Lorenzo e chiunque altro, ma c’erano momenti in cui sembrava assalito da una preoccupazione che lo portava a torturarsi le unghie, e cominciava un discorso stranissimo con Lorenzo. Il ragazzo si sforzava di capire ma Alessandro stesso si rendeva conto che sarebbe stato impossibile se avesse continuato a dire e non dire; allora, si attaccava a lui, come cercando altre strade per il proprio sfogo psicologico.


Qualcuno, chissà quando, doveva aver assistito ad una di quelle effusioni impacciate sotto gli archi anneriti dal buio o dietro il muretto di un chiostro abbandonato, perché da un giorno all’altro Alessandro lesse una beffardaggine velata negli occhi di chi prima lo temeva. Non chiese mai loro i motivi di tale atteggiamento perché presentiva le risposte e voleva almeno risparmiarsi il ludibrio a facce scoperte.


Una mattina di ottobre Alessandro non si presentò a scuola. Alle undici, durante l’ora di matematica, il professore venne chiamato fuori e rientrò un quarto d’ora dopo annunciando che il loro compagno era morto in un incidente col motorino. Nello sgomento generale, si sentì l’urlo di Lorenzo. Si era accasciato sul pavimento, battendo la testa contro lo spigolo del banco.


Nessuno si era mosso per aiutarlo; erano tutti così scioccati da non percepire più la realtà.


 


Pochi anni dopo Lorenzo sarebbe entrato in seminario. Fu ordinato sacerdote all’età di ventiquattro anni. Si era trasferito a Roma già alcuni anni prima, dopo la scomparsa improvvisa di suo padre.


 


Verso le quattordici e trenta, Lorenzo si rese conto di essere ormai quasi arrivato. Recuperò il suo trolley e si voltò sorridendo verso la strana coppia che discuteva sulle stranezze della vita.


- Io ci credo a queste cose. Mi mettono paura. – diceva il giovanotto.


- Si, era un segnale!


- Siamo andati al cimitero di notte… ci siete mai stati? Faceva un’impressione vedere le lucine rosse… brrr… Però volevo andare a trovare mio padre.


- Suo padre è morto l’anno scorso…


- Si, l’hai già detto prima, Giuà! Oh, ci credete che appena siamo usciti dal cimitero… appena proprio… ha cominciato a nevicare?


- Ma forte!


- Quello era un segnale…


- Il segnale di suo padre!


- Io scendo qui. Buon proseguimento, ragazzi. Signora… arrivederci.


- Padre, una benedizione non ce la dà? – disse Anguria.


 


Al funerale di suo zio, persona molto conosciuta in città, Lorenzo incontrò Piero, il cugino di Alessandro. Avevano giocato spesso a calcio insieme ed era uno di quelli che si era divertito a prendersi gioco di lui, perciò rimase molto impressionato quando seppe che era diventato un servo di Dio. Aveva subito cambiato atteggiamento e da compagnone era diventato una specie di timorato. Non gli si staccò di dosso per tutto il tempo e pretese che cenassero insieme in un’osteria.


Piero insisteva nell’offrirgli del vino rosso ottimo (a suo dire), ma senza risultato.


Scelse il suo menù consultando il sacerdote diverse volte, come se cercasse un’approvazione palliativa per qualcos’altro. O, almeno, questa era l’impressione di Lorenzo, che l’osservava grattarsi spesso la nuca o la porzione di pelle tra le sopracciglia scure.


Per voi preti il tempo non passa mai. Trentaquattro anni e ne dimostri venticinque. – disse Piero, alzando gli occhi sul suo viso e poi abbassandoli subito sugli antipasti.


- Che esagerazione. – rispose l’interessato, guardando oltre i vetri un cane che cercava cibo vicino ad un cassonetto.


- Si vede che meditare fa bene. Non trovi?


Piero tentò diverse volte di infilzare con uno stecchino la stessa oliva, ma senza riuscirci. Ridacchiò nervosamente, passandosi la mano dietro la nuca.


Mangiarono i tagliolini e la frittura quasi bruciata senza proferire parola. Il pasto sembrò interminabile, nonostante la velocità del servizio.


Ad un cenno del prete, una cameriera piuttosto sciatta portò il conto su un piattino da dolce. Lorenzo fece per pagare, ma l’altro lo trattenne con la mano. Uscirono dalla trattoria. Piovigginava.


- Vado in albergo.


- Padre, ho una confessione da farvi.


Era tutta la sera che Lorenzo se l’aspettava. Fu il cambio di persona ad inquietarlo. Come se il “tu” non bastasse a sopportare il carico di quella rivelazione. Lo guardò bene in viso, cercando di indovinare dai suoi occhi ciò che la bocca esitava a dire. Piero era rosso in viso. Le sclere dei suoi occhi sferici e glauchi sembravano più bianche in contrasto col colore della sua pelle. Si grattava le mani, l’una con l’altra, cercando di non darlo a vedere. Quando si decise a parlare, erano passati diversi minuti. La pioggia ascoltava il suo respiro irregolare. Lorenzo fremeva.


Alessandro non morì in un incidente. Alessandro si uccise perché mio padre lo violentava. Lo violentava da anni. E io lo sapevo. Lo sapevo benissimo ma non ho mai detto niente per non rovinarlo. Ho peccato, padre?


Lorenzo impallidì; avvertì distintamente i suoi colori piombare nel fondo dello stomaco, annidandosi in un groviglio. Annaspò nella pioggia traditrice. Pensò al peccato di Anguria. Tremando, si allontanò per i vicoli bitontini, in mezzo alle tende di trine e alle fontanelle lacrimanti.


 


 


 


 






[1] “Piano, altrimenti soffochi!”



[2] “Non perdere tempò lì davanti, bello di nonna!”

4 Commenti a “DIETRO LE TENDE”

  1. Bernardo d'Aleppo dice:

    Buon soggetto, trattato con mano felice.
    Carattere del personaggio principale ben delineato.
    Complimenti Suddenhush.
    BdA

  2. wildant. dice:

    sono senza parole.
    passi da un racconto spassosissimo come quello sui personaggi televisivi ad uno da brivido come questo con mano sicura e efficacia rara…ma sei sicura di essere una dilettante? complimenti.
    aspetto di leggerti ancora presto ne vale davvero la pena

  3. meled dice:

    molto bello.

  4. lindas dice:

    Scritto proprio bene! Riesci a mantenere l’attenzione viva fino alla fine, complimenti!

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