SUL MOLO UNA SERA
S-ciavo
era il termine per definirlo nella città della mitteleuropa, ma nel
paese da cui era fuggito gli aggettivi non erano più teneri e al campo
profughi, come insistevano a chiamare il campo di prigionia, c’era
assai più scelta tra piattole, scarafaggi e zecche che tra il pane
rancido e il pane rancido che, a periodicità irregolare, girava
brevemente per il campo prima di finire nelle latrine, tra uno spasmo
intestinale ed un pezzetto di giornale, ché anche quello era da
economizzare.
Eppure
il molo, con quel suo nome “Audace” che sembrava, più ancora della pur
solida pietra con cui era costruito, volerlo porre a sfida del mare,
ebbene quel molo, in un certo senso lo rincuorava e quelle brevi
scalette incassate sembravano una culla deposta dal molo alla grazia
del mare e lì lui riposava.
Dalma, la sua donna che forse non avrebbe più rivisto, era chissà dove.
Dei
due anni di guerra e di tribolazioni, almeno per quanto riguardava lui
e dei ventidue mesi dall’ultima volta che l’aveva salutata, uscendo per
andare a prendere l’acqua, di tutto il tempo passato nelle innumerevoli
fughe, essendosi trovato tra due degli infiniti fronti di quella guerra
bastarda, di tutto ciò non aveva che un vago ricordo in quel momento.
Dall’acqua scura e torpida del porto, che pareva voler convincere il molo a cedergli, con
le lusinghe di carezze lussuriose e insistite, sembrava emergere la
sagoma piena di Dalma, ecco le pieghe del suo ventre, le sue costole,
il suo seno, ecco i suoi capelli ondeggiare appena sotto il pelo
dell’acqua e certo le gambe saranno intrecciate, come sempre da nuda e
la marea saliva lenta e lei si faceva più vicina e lo struggimento si
faceva impossibile, chissà se lei soffriva, se aveva da mangiare, da
vestire, da scaldarsi, se la disperazione di vedere un mondo senza
speranza negli occhi dei bambini non l’aveva già uccisa dentro prima
che fuori le bombe.
Accidenti!…
bagnate anche le braghe e intanto Dalma raschiava col viso il bordo del
molo, gonfia in un modo osceno e bianca alla luce della luna, lei così
orgogliosa delle sue origini rom. Ma cos’era? un passo uno scalino, un
altro passo, un secondo scalino e l’acqua fredda era alla coscia,
bastava tendere la mano e quel simulacro di Dalma si sarebbe rialzato
dal mare, ma forse tornare non era quel che voleva, forse era venuta a
chiamarlo, beh comunque l’aveva afferrata, doveva fare attenzione,
tutto era così scivoloso!
Risalire
non era facile, il mare d’un tratto sembrava voler trattenere il
cadavere e le dita sfuggivano, la caduta non fu improvvisa ma
preavvertita, anzi vissuta istante per istante, ma su quei viscidi
gradini che fare? Attese l’urto con la pietra cercando di sollevare la
testa e abbassando le mani; batté con il fianco e andò bene.
Risalito
fece per tornare, ma nella mano gli era rimasto il dito medio della
morta che ancora aveva un anello, tremando lo sfilò e se lo mise in
tasca, chissà chi era, in realtà non assomigliava per nulla a Dalma.
Si
tolse i pantaloni, li strizzò e li tese, stirandoli a mano, si pulì le
scarpe e s’incamminò lento verso la stazione; la serata era tiepida e
vento non c’era, chissà se avrebbe trovato una panchina libera, era il
clima ideale per dormire sotto le stelle.
Trieste 1993
Ciao Bernardo,
bello anche questo racconto. Qui la brevita’ non mi pare un difetto, anzi. La figura del dito mozzato e dell’anello messo in tasca e’ molto evocativa, e sei riuscito a renderla in maniera “neutrale”, senza esprimere giudizi, facendocela sembrare come la cosa piu’ naturale del mondo.
Grazie per avercelo fatto leggere
Mi associo ai complimenti. Ben scritto!