Il
mezzo pomeriggio era segnalato, come spesso in quelle valli appenniniche, da
momenti di vento non forte, ma balzano; giocava, come un cucciolo di alano,
lungo le pendici boscose, cercandosi la coda o rincorrendo l’ombra di una
nuvola leggera.
Da
tre giorni giravo a piedi, senza far molto altro che guardare e ascoltare.
L’indomani sarei andato in paese a fare spesa, non era un trekking-avventura il
mio, ma una vacanza-ricompensa dopo un altro anno all’ufficio titoli esteri e
derivati della Colonel Insurance.
La
sorgente di acqua solfurea, di cui mi avevano detto due anni prima, mi
sfuggiva, ma non era un gran male, semmai un’ottima scusa per tornare l’anno
prossimo, o l’altro ancora.
Stavo
con le spalle appoggiate ad un tronco e, attraverso un’apertura del fogliame,
guardavo l’altro versante della valle boscosa e la cascata del ruscello che, da
una convalle, si precipitava leggera, perdendosi nel fitto della forra
sottostante.
Un
rumore alle mie spalle mi fece voltare e così scorsi cadere qualcosa di un
color verdastro e piuttosto grande, a forse dieci metri da me, qualcosa che
subito sparì tra le felci, quasi senza disturbarle.
Sarei
subito andato a vedere di cosa si trattasse se in quel momento non avessi colto
due occhi, perle d’ambra, che mi guardavano e mi sfuggivano.
Mentre
io, immobile per lo stupore, mi forzavo a distogliere lo sguardo, sentii con un
brivido che mi si rizzavano i peli. In un istante decisi che avrei dovuto
allontanarmi fingendo di non averla vista, chissà forse era una pantera, forse
un puma sfuggito a qualche zoo privato o forse chissà cosa.
Mi
allontanai emozionato, curioso, spaventato; con mille ipotesi che mi ballavano
in mente e così pochi elementi per decidere a quale sensazione dare ascolto, a
quale ipotesi dare credito.
Percorrevo
ora un ampio, antico sentiero, tra castagni centenari, la strada che, secondo
la leggenda locale, aveva percorso Annibale per attraversare gli Appennini.
(Prima o dopo la battaglia sul Trebbia contro i Romani?) Ecco questa
doveva essere la famosa curva del cammello morto… continuavo a divagare,
cercavo di non pensare a cosa avevo visto cadere (cadere? cade un gatto?)
dall’albero poco prima.
Un
paio d’ore dopo il buio incombeva, perciò decisi di fermarmi, cominciavo ad
avere fame ed era necessario pensare alla notte: dovevo avere tutto a portata
di mano ed ordinato, altrimenti trovare ciò che mi serviva sarebbe stato
difficile.
Feci
cena con un tè, un salamino ed un paio di gallette, non potevo fare un fuoco
dato che era estate ed ero nel pieno del bosco, perciò mi stesi nel sacco, che
già era imperlato di umidità e mi misi a ripassare gli avvenimenti della
giornata, rassegnandomi ad una lunga attesa del sonno, senza neppure la
distrazione del fuoco, né delle stelle e invece crollai come un budino.
Il
mattino mi svegliò dopo avere svegliato qualche cornacchia ed un cuculo. Mentre
aspettavo si scaldasse il tè mi ricordai del primo gatto della mia vita, un
gatto nero di una mia cugina piccolo e graffioso e poi della mia Sofia, bianca
e grigia, gran cacciatrice, quando andavo a letto lei, dalla poltrona a due
metri da me, se le parlavo faceva delle fusa da sembrare un motorino; il
borbottio del pentolino del tè sul fornello mi riportò all’attualità.
Fu
solo facendo il sacco che percepii coscientemente un odore di gatto e mi
guardai in giro, ricordando d’un tratto l’episodio del giorno prima, cui,
chissà come, quel mattino non avevo ancora pensato. Perlustrai i dintorni a
lungo, meticolosamente credo, ma senza trovare né un’impronta né una traccia
sul terreno o tra i cespugli; eppure più d’una volta, muovendomi nell’aria
immobile del bosco, avevo percepito quell’odore, ma così leggero da credere
quasi mi fosse rimasto impigliato nel cervello durante un sogno. Infine su una
grossa robinia, che con i suoi rami formava una specie di ponte naturale tra
due maestosi castagni, vidi un ciuffetto verde che non sembrava muschio.
Cercando di individuare percorsi arborei praticabili da un essere di quella
taglia, arrivai nella zona dove, poco prima, avevo percepito il ricordo di
quell’odore felino e vidi un incrocio di rami forti, appiattito, su cui, dopo
qualche acrobazia, trovai numerosi di quei peli verdi, impigliati nella
corteccia scabra.
Quell’odore
mi solleticava il cervello, cominciai a perlustrare quell’intrico di rami, il
naso sulla corteccia e nel farlo cercavo la posizione più comoda.
Mi
ritrovai così con le gambe a cavalcioni di un grande ramo che si triforcava
all’altezza del mio bacino, le due branche ascendenti me lo fasciavano quasi,
le gambe pendenti si appoggiavano sui rami trasversali di una quercia, e le
spalle trovavano un appoggio simile al bacino; allora, mentre perlustravo con
l’olfatto la corteccia, traendone brividi inquietanti, vidi i segni, decisi, di
artigli, un braccio avanti al naso e mi accorsi di avere un’erezione.
A
questo punto la situazione era scomoda, provai a voltarmi pancia all’aria,
pensando di rimanere a fantasticare lì, dove lei, a questo punto non avevo
dubbi che fosse una lei, doveva essere rimasta durante la notte, e fu così che
la vidi sopra di me, incontrai il suo sguardo e mi scomposi perdendo l’appoggio
con le spalle, un istante di contorcimenti spasmodici e mi ritrovai abbracciato
al ramo. Lei sbadigliò, io distolsi lo sguardo dal suo viso e fu allora che
vidi la sua coda, oscillava pigramente dalla metà in poi, incurvandosi
leggermente alla estremità.
Abbandonato
l’appoggio con le gambe mi lasciai cadere a terra, ma rialzato lo sguardo non
la vidi più, solo un movimento delle fronde alla mia destra denunciava, forse,
la direzione della sua scomparsa.
La
sua bocca, in quello sbadiglio, mi era parsa così vezzosa… e pure gli
incisivi, forti ed i canini, appuntiti, potevano essere temibili mi dissi, ma
quella lingua lilla, dolcemente incurvata verso l’alto, faceva così audace
contrasto con le labbra brune… sarebbe stata ruvida e rasposa o liscia e
morbida al tatto? Ma mi accorsi che non pensavo per confronto alla lingua di un
cane o di un gatto sulla mano, pensavo a dei baci, lunghi baci insistiti,
elettrici, rischiosi… Era il caso di aprire una delle due mignon di
liquore che portavo per i casi di emergenza.
Dovevo
decidere tra la fuga e la caccia: l’acquavite mi fece decidere per la caccia,
per cui mi dedicai alla pesca per avere del cibo con cui attirarla; non avevo
attrezzi con me, per cui feci uno sbarramento di sassi lungo il vicino
torrente, quel tanto da impedire ai pesci di infilarcisi in mezzo e a monte
coprii l’acqua con rami e larghe foglie, più tardi dal basso, risalii il
torrente smuovendo le pietre e facendo confusione: il risultato furono quattro
trotelle che, saltate fuori dall’acqua per superare l’ostacolo, finirono sui
rami predisposti ad accoglierle.
Pulii
le trote, ma poco dopo cominciarono ad arrivare vespe e mosche e quant’altro;
pensando poi che difficilmente la “pantera” si sarebbe avvicinata di
giorno, le appesi allora, per salvarle dagli insetti, su un fuoco leggero e
fumoso, prudentemente acceso tra i sassi del greto, in quel punto largo e
spoglio, mentre io consumavo un pasto liofilizzato sciolto in acqua.
Dormivo
in mutande su una roccia, al sole, da un po’, quando mi svegliò una sorta di
motore elettrico che mi fece, nel dormiveglia, pensare all’India e ai suoi
ventilatori a reazione; restai un attimo a crogiolarmi nella mezza coscienza
del risveglio senza rendermi conto di dove fossi.
Prima
di averci potuto pensare mi stavo stirando e con la mano destra incontrai del
morbido, il motorino si fece più vicino e, con la coda dell’occhio, vidi
l’estremità della sua coda sollevarsi e abbassarsi ritmicamente. Il cuore mi
scese nella pancia e ci rimase un momento; ero immobile e dietro le palpebre
socchiuse mi danzavano i segni, profondi, degli artigli sui rami.
Il
rumore si stava spegnendo e mi venne di carezzare quel pelo sottile ed il
motore riprese potenza, mi voltai dunque, lentamente, dovevano essere fusa! E
la vidi: i suoi occhi dorati, socchiusi, mi guardavano con curiosità e
sufficienza; la sensazione di un saluto prese forma nella mia mente. Ritirai,
imbarazzato, la mano con cui le stavo carezzando la pancia, piuttosto in basso.
Lei
era sdraiata su un fianco, poggiata ad un gomito e su una delle scodelle nere,
che aveva davanti, stavano le mie trotelle ancora legate tra loro, nelle altre
dei pesci piccini in una salsa bianca, dei granchi grigi immersi in un liquido
trasparente e celeste, e poi delle palline come uva nera, su un letto di alghe
verdi e salsa rossa; un invito a pranzo?
Un
senso di lontananza mi invase la mente un momento e scomparve.
Lei
piegò lentamente la gamba destra, alzandola, mentre la coda le si insinuò tra
le gambe e poi si stirò. I suoi seni dai capezzoli bruni puntarono dritto verso
il cielo e mi venne un gran desiderio di me che mi confuse, e voglia di
mordermi il collo e di piantarmi le unghie nelle spalle. Ed un senso di vuoto
mi si irradiò dalla base del cazzo, mentre un piacere come pregustato, come un
affamato in una gastronomia, mi percorreva la schiena fino alla nuca.
I
miei pensieri non erano miei. Le sue sensazioni partivano dalle mie cellule
nervose, e le sue fantasie vi arrivavano. Non era così che avevo pensato la
telepatia. Attraverso la paura fisica, la curiosità ed il suo senso di
abbandono, tornai un poco me stesso e stesi una mano ad accarezzarla e di nuovo
le sue fusa riempirono l’aria ed ella si abbandonò chiudendo gli occhi. Mi feci
più da presso ed ella socchiuse le gambe, mentre con la coda solleticava il mio
pene confuso e vestito. Immerso in un profumo di bucato e di erba tagliata che
sembrava sprigionare dal suo corpo, avvicinai il mio viso al suo ed ella
socchiuse le labbra e il suo alito muschioso mi sfiorò prima che cominciasse a
leccarmi le orecchie, cosa che fece a lungo e con impegno e intanto la paura,
che mi aveva irrigidito, scivolava dalle spalle. Cominciai allora a grattarle
dolcemente dietro le orecchie, appena appuntite, e una grande dolcezza mi fluì
in ogni parte del corpo, conosciuta e sconosciuta. I nostri corpi aderivano ora
e i suoi capezzoli sporgevano tesi verso i miei ed ogni respiro si faceva più
corto del precedente, un odore nuovo e fresco saliva dal suo pube, la sua coda
oscillava lenta sulle mie natiche e i suoi denti scorrevano dal mio collo alle
mie spalle come elettrodi. Cercai di sfilarmi le mutande ma lei me lo impedì e
le lacerò ai lati con le unghie, gli elastici si tesero e mi batterono i
fianchi con forza e in un momento l’erezione mi passò, per un istante il cielo
mi sembrò scuro e una sensazione di insoddisfazione, come di fame, mi
farfalleggiò nella mente.
Per
me era troppo, tutto insieme, e intanto avevo voglia di parlarle, come ad un
amico che da tanto non si vede e di mangiare e di dormire..
Lei
mi carezzò un poco tutto il corpo, sembrava mi conoscesse così bene! Poi mi
invitò a mangiare: il suo pesce era crudo e senza sale, semmai un po’
dolciastro, io feci gran sorrisi e trangugiai senz’altro gusto che la
curiosità, d’altronde anche le mie trote erano semicrude e, pur con il sale,
non particolarmente appetitose.
Si
faceva sera, cominciò a scendere il fresco ed io mi accinsi a fare un fuoco ma,
appena in me prese forma quest’idea, ella mi attirò vicino: mentre una notte
scura e stellatissima mi riempiva la mente, sotto di noi comparve una specie di
grande e folta pelliccia nera, tonda e tiepida ed ella si sdraiò con il capo
sul mio petto, al mio fianco ed io vidi il cielo che lei ricordava popolarsi di
stelle, lentamente, ed imparavo ad accettare o a respingere le immagini che lei
mi trasmetteva e potevo vedere il suo viso al di là delle stelle e mi sembrava
bellissimo e dolce, era come lei si vedeva; allora lei volse il suo sguardo a
me e cominciò, senza muoversi, a piangere e tutte le stelle si fusero in una
delle sue lacrime ed io cercavo di aprirmi, di sentire ciò che lei sentiva, ma
un grigio informe, vorticoso e brulicante mi respinse. Mi chinai su di lei e la
abbracciai; lei, come una cucciola, si rincantucciò contro di me, mentre
singhiozzi acuti come guaiti la scuotevano tutta.
Piano,
piano, s’acquetò contro il mio petto e il suo soffio, regolare, me la fece pensare
addormentata, così con lei tra le braccia mi feci una sigaretta. Ma appena
l’ebbi accesa non seppi che fare: dove scrollare la cenere? Non certo sulla
stupenda pelliccia che ci faceva da giaciglio; la lanciai allora lontano,
sentendomi eroico, con più voglia di fumare di prima, già prima di averla
lanciata, ma la sigaretta interruppe la sua traiettoria e cadde tra i peli del
nostro folto tappeto. Mi svincolai in fretta dalla mia amica e la raccolsi,
continuava incurante a bruciare, feci un altro tiro e sporsi il braccio per
spegnerla tra l’erba, ma mi spensi la sigaretta sulle dita. Una barriera
invisibile impediva di varcare il perimetro della nostra pelliccia.
Protetto e prigioniero a un tempo.
Mi
sedetti accanto a lei guardandola e cercando di immaginare cosa potesse
averla tanto turbata e chiedendomi se fossi nelle sue mani e: chi era? da dove
veniva? cosa l’aveva gettata nella mia vita? Non feci in tempo a
formulare quest’ultima domanda nella mia mente che lei, alzandosi a sedere, mi
tirò a sé; mentre immagini di me nudo, in tutte le posizioni, possibili e
non, puntualmente eccitato, mi si proiettavano intorno.
A
quel punto io feci altrettanto e pensai a lei in tutte le posizioni del
Kamasutra che ricordavo; le sfuggì un respiro rauco che era quasi un ruggito,
vidi i suoi artigli e l’immagine dei miei vestiti a brandelli….le mie
fantasie erotiche tremolarono e stavano per scomparire, quando lei se ne
accorse e con un sorriso cominciò delicata a slacciarmi la camicia, standomi in
ginocchio davanti; la sua coda passava tra le sue gambe e formava una esse sul
pube, che piano piano si srotolava e alla fine passandomi sotto e tra le
natiche si affacciò al mio fianco destro e intanto, mi solleticava dolcemente
le palle, che tra l’altro nella sua immagine di me erano enormi: come limoni.
Ma
erano i suoi baci, la sua lingua assurda, le sue labbra sode, dal margine
rilevato, i suoi denti che mi scivolavano lungo i nervi, che mi eccitavano di
più; alla luce della luna a momenti mi sembrava un’adolescente somala, a
momenti una divinità egizia, così lentamente ci trovammo in piedi senza
accorgercene e così, dolcemente facemmo l’amore senza spostarci e di nuovo quel
fresco odore salì dal suo sesso mescolandosi al profumo di muschio del suo
alito e fu più dolce di quanto sappia dire…
Il
mattino che mi svegliò non era il giovane mattino cantato dagli uccelli, ma
quello maturo nel quale ronzano le api ed ero solo, seppure coperto da infiniti
tenuissimi graffi.
fine
complimenti.
mi sembra ben scritto, originale nella sua location familiare eppure evocativa di chissà quali misteri, inoltre la avventura erotica è spiazzante.
potrebbe andare nel bestiario…..
Mi accorgo oggi del tuo commento Mostarda e mi sovvien che feci or non è molto proprio un “mosto ardente” che pare sia antesignano filologico della mostarda.
Ma insomma ikl racconto vorrebbe essere erotico lo è o no?
Non so cosa sia successo con gli a capo, appena pubblicato non era così, mi dispiace.
Questo racconto ha avuto una gestazione lunga, ne scrissi l’idea, dell’incontro con la donna gatto, durante un inverno trascorso sulle montagne del Kurdistan turco nel 1979-1980 e lo dimenticai in un cassetto per anni, poi, qualche tempo dopo un avvistamento di un oggetto volante e luminoso nei boschi dell’alta Val Trebbia, ebbi l’idea della sintesi, erano passati 13 anni, ma i ricordi erano così vivi e ben fermentati in me che qualche volta ho quasi la sensazione di avere vissuto quell’esperienza veramente.