Racconti fantastici

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Delirio

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Erano le cinque del pomeriggio. Il cielo era plumbeo. Pioveva a dirotto e l’aria era gelida. Il manifesto funebre annunciava:

Ieri è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari l’amatissima

FEDERICA GIORDANI

I familiari tutti ne danno il triste annuncio.
I funerali si terranno domenica 20 gennaio 2013 alle ore 17,00 nella chiesa del
“Santissimo Cuore”.
NON FIORI MA OPERE DI BENE, IL PRESENTE ANCHE COME

RINGRAZIAMENTO.

Rocca Reale, 19.01.2013

La chiesa del “Santissimo Cuore” era una modesta struttura situata alla periferia del quartiere “San Giovanni”, un luogo ancora sicuro nonostante la presenza di bande criminali che si aggiravano per le strade del quartiere.
La celebrazione della messa era imminente, si attendeva l’arrivo della salma.
Gli amici e i parenti di Federica erano seduti ai loro posti in silenzio.
La salma era custodita nella camera mortuaria dell’ospedale “Federico II” e attendeva l’arrivo del carro funebre. Federica considerava la morte come l’inizio di una nuova avventura. Quando assisteva a un funerale non voleva essere mai triste, voleva che la giornata terminasse con un sorriso. A me, i funerali trasmettevano angoscia, paura e una serie di domande. Vale la pena vivere se poi dobbiamo morire? Esiste una vita dopo la morte? E dove ci ritroviamo, in quale posto?
Federica voleva essere cremata ma i suoi genitori si opposero.

E se fosse possibile tornare indietro nel tempo, prima dell’incidente?
Peccato! Era come arrampicarsi sugli specchi…
Federica mi mancava. Il solo pronunciare il suo nome mi faceva star male.
Mi si contorceva lo stomaco a pensarla chiusa in una bara, sepolta sotto la terra, sotto le intemperie e a contatto con i vermi che lentamente avrebbero divorato la sua carne. Non avrei chiuso occhio quella notte e quelle successive. La mia vita stava prendendo una piega inaspettata.
Amavo Federica e non volevo lasciarla andare. Volevo entrare nella camera mortuaria, chiudermi e gettare via la chiave per poter restare solo con lei, osservarla in silenzio e accarezzarle il viso. Tenerle la mano per l’ultima volta o stringerla forte tra le mie braccia. Come mi mancheranno questi piccoli gesti!
Entrai nella stanza in punta di piedi, e quando la vidi distesa, coperta da un sottile lenzuolo bianco, sperai con tutte le mie forze che dormisse. Pregai, che fosse ancora viva e che fosse solo un incubo. Mi sbagliavo. Federica era morta. Morta per sempre! E io non potevo cambiare le cose. E anche se mi consideravo una persona abbastanza forte, non riuscii a trattenermi e piansi come un bambino. Il rimorso mi lacerava il petto. Nella mia mente erano ancora impressi gli sguardi dei suoi genitori e delle persone che le volevano bene. Non dimenticherò mai le loro voci che risuonavano come sirene nella mia testa e non volevano saperne di smettere. Gridavano così forte: “L’hai uccisa tu, Luca, bastardo! È questo che pensavano. L’hai uccisa tu, bastardo omicida! Marcirai all’inferno, tu e tutta la tua generazione! È quello il tuo posto! L’inferno, brutto bastardo!” E il coro di voci: “Bastardo! Bastardo! Muori! Muori, Luca!”
Il petto mi doleva. Lo stomaco era a pezzi. Incominciai a vomitare.
Federica, aveva lunghi capelli biondi che le scendevano sulle spalle, gli occhi color turchese, la pelle diafana e delicata. I suoi genitori avevano provveduto a truccarla, indossava il suo abito preferito perché voleva essere sempre elegante ovunque andasse.
Era una ragazza seria e intelligente che guardava al domani con gli occhi di una bambina.
Poi, il carro funebre arrivò e portò via il feretro. Le dissi addio, le diedi un bacio e me ne andai in fretta sperando che nessuno mi notasse.

Ero affranto e quella sera era una di quelle serate che preferivo restare solo. A pensarci su. Andai a ubriacarmi da Mario, gestore di un bar piccolo e squallido. La luce dell’insegna al neon andava a intermittenza. Ora era accesa, ora era spenta. Come se volesse dirmi: “Dai sbrigati, Ti stiamo aspettando!”
Il locale era spesso affollato. Una volta dentro, acceleravo il passo per raggiungere la prima sedia disponibile. Lottavi fino all’ultimo, tra spintoni e imprecazioni, per conquistarla: era il mio angolo di paradiso. Dove c’ero solo io e la mia bottiglia, la mia Ester. Bevevo, ubriacandomi, fin quando il mio alito e i miei vestiti non puzzavano di alcol. Con Ester ero un libro aperto, potevo parlare di tutto, sfogarmi. Sapevo che non mi avrebbe mai abbandonato se non lo avessi voluto. E io volevo che restasse con me per l’eternità. Avevo bisogno di qualcuno o qualcosa a cui aggrapparmi.
A notte fonda, quando il bar chiudeva, ci lasciavamo con la promessa di rivederci presto. Ester era diventata la mia seconda pelle. Non ti faceva mai sentire solo.
Nel bar, la gente puzzava. L’aria dava di piscio e vomito. Eppure, lì mi sentivo come se fossi a casa. Mi confondevo con la folla. Ero invisibile agli occhi degli altri ma non a lui, all’uomo in penombra, che sedeva in un angolo vicino al juke-box. Guardava e sghignazzava. Una sfumatura di grigio nell’oscurità. Non reggevo il suo sguardo: “Colpevole!”, sembrava volesse dirmi.
Bevevo per esorcizzarlo.

A Ester raccontavo la mia storia. I miei lunghi monologhi accompagnavano le nostre serate al bar. Una volta, possedevo un negozio di abbigliamento e guadagnavo il giusto per arrivare a fine mese e a volte riuscivo a mettere qualcosa da parte per il futuro. Poi, l’economia cambiò. Il mondo intorno a me cambiò. I centri commerciali e i cinesi (non giudicatemi, non ero razzista!) incominciarono a conquistare il mercato. A moltiplicarsi. La concorrenza era così agguerrita che incominciai ad accumulare debiti su debiti con le banche e iniziarono i primi problemi. Chiusi il negozio. Mio suocero mi offrì un posto come manovale nella sua azienda ma lasciai perdere.
Ero troppo depresso e orgoglioso per accettare.

Forti emicranie martellavano la mia testa. Secondo il medico dovevo conviverci. Troppo facile a parole, quando a scoppiare non era la sua testa!
Ester mi veniva in soccorso curando le mie ferite. Esorcizzava i miei fantasmi.
E gli altri dov’erano? A nessuno interessava che precipitassi nell’oblio.

Non potrò mai dimenticare quel giorno. Come potevo, ero circondato da fantasmi che non facevano altro che ricordarmelo! Uccisi mia moglie. Si, ragazzi la uccisi io perché bevevo come una spugna! C’ero io al volante della Ford Fiesta che andò fuori strada quel giorno! Quando ripresi conoscenza, mi resi subito conto che Federica non era accanto a me. Era stata sbalzata fuori dall’abitacolo dell’auto. Il suo corpo, indifeso, con i vestiti strappati, era disteso sull’asfalto bagnato in una pozza di sangue. C’erano brandelli di massa cerebrale ovunque. Il cervello di mia moglie era sparso sull’asfalto della strada come se fosse gelatina e lei era morta. SHOCK! I suoi occhi erano aperti e mi fissavano: “Vigliacco! Mi hai uccisa!” SHOCK! Si l’ho uccisa perché ero un alcolizzato.
I miei suoceri mi maledissero. Maledissero la mia famiglia. E i miei figli se ne avessi avuti.
Provavo dolore e vergogna. L’amore per Ester divenne un fuoco ardente.

Con il tempo mi accorsi che preferivo restare al bar piuttosto che tornare a casa. Volete sapere perché? A casa ero paranoico. I vicini non vedevano l’ora che rientrassi per sparlare di me. Confabulavano contro di me. Come una giuria in un tribunale mi avevano già condannato: “Colpevole! Colpevole! Colpevole!”. E poi, al calar del sole, sentivo rumori di passi e di catene. Porte che sbattevano. I suoni notturni assomigliavano a voci. Mi terrorizzavano. Come se qualcuno volesse spaventarmi. Avevo paura di impazzire. Forse, ero già pazzo. Mi sentivo mancare il respiro e incominciavo a sudare. Il suono ridondante di queste voci mi faceva ammattire. “Andate via! Lasciatemi stare!” ripetevo. Perdevo la ragione e incominciavo a gridare e a prendere a calci qualunque cosa fosse a tiro. Allora, i vicini, sbattevano contro le pareti e inveivano contro di me. Di corsa, prendevo il cappotto, uscivo di casa per trovare un pò di tranquillità e mi rifugiavo al bar.

Fu una notte, in Piazza della Giustizia, che diedi sfogo a tutta la mia rabbia. Vidi per terra una spranga di ferro arrugginita, l’afferrai con tutta la forza che avevo in corpo in quel momento, e incomincia a fare un gran baccano. Qualcuno ancora sveglio mi intimò di smetterla altrimenti avrebbe chiamato la polizia. In piena crisi psico-fisica, scagliai la spranga di ferro contro la saracinesca della tabaccheria di Antonio e Silvia danneggiandola. “Fottiti! Fottetevi tutti!”, dissi a gran voce. Volevo che mi sentissero. Fu allora, che presi una grossa pietra e la lancia al di là della muraglia che tracciava il perimetro intorno alla parte vecchia del paese. Cosa poteva succedermi ancora? Potevo uccidere qualcuno? Non mi importava più di nulla. Era mezzanotte, c’era la luna piena, una leggera brezza accarezzava il mio viso. Invocai tutti gli spiriti del mondo: “Ridatemi la mia Fede…” Poi, un pugno violentissimo mi colpì al mento. Stordito e dolorante, venni colpito una seconda volta, e ormai a terra volarono calci e sputi, sangue e lacrime. “Così la prossima volta ci penserai due volte prima di rompere il…”, prima che potessi sentire le ultime parole persi conoscenza.
Mi risvegliai nella stessa piazza frastornato e dolorante. Lungo la strada del ritorno incontrai una zingara che cercò di spillarmi qualche spicciolo.
“Vuoi che ti legga le carte, giovanotto? Non vuoi conoscere il tuo futuro…”
La interruppi prima che potesse finire di parlare.
“Vattene via brutta strega! Non ho bisogno della tua magia voodoo.”
“Fottiti!” mi disse la vecchia megera.
“Mi fai schifo. Anzi, mi fate tutti schifo, voi zingari. Venite qui a rubarci i soldi. Bastardi, dovete andarvene via!”
Prima di andarmene le sputai in faccia per schernirla.

Era il 19.02.2013, un mese esatto dalla morte di Federica. Non ero ancora andato al cimitero.
Sapevo che Federica era stata sepolta nella tomba di famiglia insieme a suoi nonni.
La porta d’ingresso del cimitero era rugginosa, sporca e ricoperta di ragnatele. Il guardiano, un uomo di mezz’eta, mi salutò con un cenno della mano e un mezzo sorriso. Per educazione, cottraccambiai. La tomba di Federica si trovava nella parte nuova del cimitero. Davanti all’uscio, ero immobile ed emozionato. Era la prima volta che le facevo visita e le mie gambe erano bloccate come due pali fissati nel terreno. Ero sotto shock, mi mancava il respiro. Poi, un raggio di sole, era da tempo che non ne vedevo uno, mi accecò e mi rilassai. Entrai silenzioso.

C’era un crocifisso affisso alla parete di fronte all’ingresso.
Mi feci il segno della croce come da buon cattolico, e cercai la tomba di Federica.
Due erano sulla sinistra, rispetto all’uscio dell’ingresso. Probabilmente, lì, erano stati sepolti i suoi nonni. Al centro c’era una terza tomba e alla sua destra potevo scorgerne una quarta di cui ne ignoravo l’esistenza.
Avvicinandomi alle lapidi lessi:

FEDERICA GIORDANI
15.03.1977 – 19.01.2013

E sull’altra scorsi il nome di mia suocera:

LUCIA RENZANI
10.02.1943 – 19.01.2013

Rimasi ammutolito. Pensai a uno scherzo anche se non era divertente. Forse stavo sognando? Presi il mio coltello a serramanico dalla tasca del soprabito e praticai un taglio sul polpastrello dell’indice della mano sinistra. Seguì una goccia di sangue e bruciore. Non stavo affatto sognando!
Il panico mi avvolse come un mantello, stringendomi forte, quasi soffocandomi. La vena sulla tempia incominciava a pulsare. La testa mi doleva. Il sangue scorreva come un fiume in piena arrossandomi gli occhi. Il pavimento incominciava a sollevarsi. Il soffitto pareva abbassarsi. Le pareti, come una pressa, sembravano volessero schiacciarmi. Il volto di Federica sul quale scorrevano lacrime di sangue apparve sui muri come a ricordarmi delle mie malefatte. Ne ero sicuro, voleva punirmi… Il sole, improvviso, illuminò la stanza, allontanando per un attimo il grigiore di quella giornata. L’emicrania svanì e un senso di quiete mi avvolse come un abbraccio materno. Di una cosa ero certo, il passato non si poteva dimenticare anzi era, lì, pronto a tornare in qualsiasi momento e a tormentarmi. La vita è come un viaggio su una autostrada. Non sai mai cosa possa succedere. Può portarti lontano o interrompersi all’improvviso.

Il giorno dopo, l’uomo in penombra che era al bar sempre lì nel suo angolo vicino al juke-box, oltre a guardami e sghignazzare, sembrava volesse dirmi: “L’hai uccisa tu, Fede”, e inveiva contro di me: “Bastardo! Bastardo! Bastardo di un cane!”. Davo di matto. La gente si voltava, mi fissava e bofonchiava: “Si, quel tizio ha ragione. L’hai uccisa tu bastardo. Fede è morta per colpa tua. Colpa tua…”
Scappai via come un ladro. Mi parve di sentire il barista biascicare: “Non hai pagato brutto figlio…” ma ero troppo frastornato per starlo a sentire.
Nella fuga, avevo dimenticato il soprabito al bar. Pioveva a dirotto e la notte era fredda e umida. Ero bagnato fradicio. Correvo tra i vicoli senza vedere dove mettevo i piedi. Non ero solo, qualcuno mi stava seguendo. Sentivo il suo fiato sul collo. Mi annusava come se fossi una preda ormai in trappola, pronta a essere azzannata. Come un veggente vedevo la mia carcassa fatta a brandelli e divorata dai cani e dai topi. Inciampai e caddi. Mi voltai terrorizzato. Un enorme leone alato con al collo una catena su cui erano incise le parole CUSTOS LUSTICIAE mi stava dando la caccia. Ruggiva. Aveva due grossi occhi splendenti. La criniera divampava fiamme ovunque. Tutto intorno a me bruciava. La belva si preparava ad affondare i suoi lunghi e possenti artigli affilati nel mio petto.
Mi accorsi ben presto di essere in Piazza della Giustizia insieme a un leone agguerrito e assettato di sangue. Sorrisi ironico e pensai: “Giustizia è fatta.” Poi, a un tratto, sentii dei passi avvicinarsi. Qualcuno, nascosto nell’oscurità, guardava divertito la mia uccisione. “Chi c’è lì?”, gridai impietrito. L’uomo che fino a quel momento aveva vissuto nella mia ombra si fece avanti. Il leone gli si accovacciò ai piedi in attesa di un cenno per saltarmi addosso.
“Tu?” domandai atterrito, “Chi sei?”
“Una volta ero il custode del tempo e paladino della giustizia.”
Le sue parole echeggiarono nell’aria.
“Cosa? Chi?” domandai terrorizzato.
“Ti osservo da molto tempo, ti stai buttando via… Io vivo in Piazza della Giustizia e ho imparato ad ascoltare quello che dice la gente, drizzo le orecchie e ascolto tutto quello che dice. Voi umani sparlate… eccome… non riuscite mai a tenere la bocca chiusa. Così conosco ogni vostro segreto e ho molto imparato da voi.”
“Cosa vuoi da me?”
“Guardati intorno, Luca. L’altare della giustizia è dietro di te.”
Mi voltai. Non mi ero accorto di aver corso così tanto.
“Sai cos’è?”
“No.”
Inspirai, forse l’ultimo respiro prima di morire. L’uomo e la belva mi fissavano. Chi erano e cosa volevano da me? Volevano uccidermi o solo intimorirmi a causa delle mie malefatte? In quest’ultimo caso c’erano riusciti. Avevo paura e il terrore si era impadronito del mio corpo. Ero in trincea sotto il fuoco nemico e ogni parte di me era in stato di allarme.
“Di fronte all’altare venivano giudicati i malfattori.”
Poi, mi fece cenno di seguirlo. L’uomo e la belva si diressero verso il vicolo preceduto da un arco chiamato “Arco della Giustizia” e decorato con raffinate incisioni ottocentesche. Il vicolo era cieco. C’era una porta sulla sinistra. Entrammo. Nella stanza c’era un piccolo altare identico all’originale esposto in Piazza della Giustizia.
“Accomodati.”
Il leone si accovacciò a guardia della porta. Il suo respiro rallentò, sembrava che dormisse. L’uomo e l’animale non mi facevano più paura, anzi, un senso di curiosità si faceva strada nella mia mente. Mi fermai di fronte all’altare. C’era un libro sgualcito. L’uomo lo aprì. Notai delle date e dei nominativi segnati sulle pagine.
“Cosa significa il libro?” domandai.
“Un contratto anche se preferisco chiamarlo patto tra gentiluomini. Prima, in questa piazza sorgeva un piccolo villaggio. C’erano il capo del villaggio, uomo tirannico e superstizioso, i suoi ministri che lo assistevano ma non contavano nulla e lo stregone esperto di magia nera. Durante un processo, a mezzanotte e con la luna piena, di fronte all’altare, venivano invocati gli spiriti del mondo per decidere della sorte del malfattore di turno. Una notte, durante un’invocazione, forse i nostri mondi entrarono in sintonia o forse perché lo stregone non era un ciarlatano, si aprì un portale spazio-temporale nel quale precipitai durante la fuga dai miei aguzzini. Nel mio mondo ero uno schiavo dei Mullan, esseri con tre teste, alati e crudeli che avevano ridotto in schiavitù il mio popolo. Organizzai una rivolta che venne subito repressa. I miei compagni furono uccisi. Io riuscii a mettermi in salvo cadendo per caso nel portale che mi catapultò all’interno villaggio. Il capo del villaggio e i suoi abitanti credettero che fossi uno spirito del loro mondo e mi adorarono. Venivo interpellato ogni volta che un abitante del villaggio commetteva un reato. Il mio giudizio era insindacabile. Era consuetudine decapitare il condannato davanti all’altare e di fronte al popolo. Alla morte del capo del villaggio abolii la pena di morte e da giustiziere divenni consulente cercando di aiutare gli abitanti del villaggio a risolvere i loro problemi quotidiani.”
“Impostore e opportunista!” esclamai.
“Cosa potevo fare…, ero nuovo del vostro mondo e non conoscevo le vostre abitudini…”
Cercò di giustificarsi.
“Gli abitanti del villaggio mi accolsero bene. Si prostavano ai miei piedi e mi adoravano come una divinità. Erano cordiali e disponibili e soddisfavano ogni mio capriccio in cambio del mio giudizio. Recitavo la mia parte con disinvoltura! Sapevo che era sbagliato ma era l’unico modo per sopravvivere in un mondo che non conoscevo. Mi piaceva come vivevate e così pensai che era meglio restare qui piuttosto che cercare di tornare a casa. Il vostro mondo è affascinante. Il cibo è ottimo e l’acqua è una bevanda deliziosa. E poi le donne terrestri non sono niente male! Avevo ciò che mi serviva per vivere. Il mio mondo era stato devastato dalla guerra civile e in ogni caso non avevo alcuna idea di cosa fare per tornare a casa. Quale magia o rituale poteva farmi tornare a casa? Io ero solo un ministro del tempo. Il mio popolo aveva il potere di manipolare il tempo agendo sulla finestra del passato. Potevamo tornare indietro nel tempo cambiandolo se necessario: aprivavamo così un’altra finestra sul futuro. In ogni caso, preferisco essere considerato un impostore e opportunista pittosto che tornare a casa e vivere da schiavo!”
Abbozzò un sorriso compiacente. L’essere che avevo di fronte era affascinante e inquietante allo stesso tempo.
“É passato di tempo d’allora! Il vostro mondo è cambiato e io sono cambiato adeguandomi ai tempi. Non ci sono più villaggi ma vere e proprie metropoli. La popolazione è cresciuta. Le vecchie usanze sono andate perdute. Gli stregoni e i chiromanti sono scomparsi tranne che in qualche villaggio tribale. La tecnologia è la nuova frontiera. Gli uomini hanno smesso di credere nelle divinità. Decisi di ritirarmi e ben presto venni dimenticato. Ho vissuto nell’ombra fino al giorno in cui tu, Luca, mi hai invocato. Ero in mezzo a voi ma nessuno mi vedeva perché mi avevate dimenticato. Non so come ma tu eri in grado di vedermi. Forse eri così disperato… Eri patetico solo a vederti! Un uomo grande e grosso come te che piangeva come una femminuccia!”
Si fermò un attimo. Sorseggiò un bicchiere d’acqua fresca. Riprese la parola.
“Fantastica, non credi?”
“È solo acqua.”
“É squisita. Torniamo a noi, Luca. Vivo in in questo buco di cantina e ho visto quello che hai fatto quella sera… e poi… tu hai invocato gli spiriti del mondo… mi sono sentito di nuovo… come dite voi umani… vivo… sono qui, per te adesso…”
“Rivoglio Federica. Tu puoi ridarmela?” domandai speranzoso.
“Certo… ma…”
“C’è sempre un ma…”
“Cambiando il passato apriresti una nuova finestra sul futuro. Potrebbe non piacerti. Posso farti tornare indietro ma non posso prevederne le conseguenze. Il passato non vuole essere cambiato. E si opporrà con tutte le sue forze come in una guerra. Alla fine, potrebbe vincere e presentarti il conto…”.
Quel giorno avevo compreso che il futuro poteva essere paragonato a un numero infinito di porte. Aperta una ce ne trovavamo altre e così all’infinito. Forse guidati dall’istinto, o forse per egoismo, sceglievamo, senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni. Egoista per natura, feci la mia scelta: a mezzanotte, il mio nome comparve sulle pagine di quel libro.

La mattina dopo mi risvegliai solo nel mio letto. Avevo sognato? Forse.
Però, il braccio mi doleva e c’erano dei morsi…
Poi, il telefono squillò.
“Ciao, tesoro”. Mi disse la voce dall’altro lato del capo.
“Ciao”, risposi, “Che giorno è oggi?”, le domandai.
“Il 19 Gennaio, caro. Va tutto bene?”
Mi ricordai del patto. Mi si gelò il sangue. Per un attimo sembrò che il cuore si fermasse.
“Si, va tutto bene, amore.”
Il giorno dopo assistevo in silenzio al funerale di mia suocera.

Autore: jolly76

Sono nato a Bari. Amo leggere libri di ogni genere. Amo scrivere... Accetto le critiche...

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