La pioggia lo accompagnò per l’intero viaggio fino a Bran.
La carrozza si fermò davanti all’ingresso della locanda “Pelerinul”.
Un uomo con occhiali da sole e il capo coperto da un enorme cappello circolare, in abito nero, scese dalla carrozza visibilmente provato e con un cenno della mano salutò il cocchiere. Poi scomparve dietro la porta che conduceva all’interno della locanda.
Dopo aver percorso un breve corridoio le cui pareti erano tappezzate di quadri antichi si avvicinò al bancone di legno antiquato che si trovava alla sua destra: doveva essere la reception. Seduta, dietro al bancone, una vecchia megera ingannava il tempo sfogliando le pagine sgualcite del Vecchio Testamento. La donna sbadigliava per la noia ma quando vide l’uomo avvicinarsi le sue labbra si contrassero in un sorriso smagliante: “Era ora che qualcuno arrivasse!”.
Rimase con il fiato sospeso e il cuore accelerò quando se lo ritrovò a un tiro di schioppo e pregò che l’uomo cambiasse idea e cercasse un alloggio altrove. Separati da pochi passi, la donna sgranò gli occhi tra lo stupore e il disgusto: “Un abominio” pensò.
Dopo aver sorseggiato un po’ d’acqua, si ricompose cercando di essere cordiale con il forestiero. Pensò di dirgli che non c’erano stanze disponibili al momento nella locanda ma poi cosa avrebbe detto al Direttore per giustificarsi? La presenza di uno straniero non sarebbe passata di certo inosservata soprattutto in un paesino piccolo come Bran. E con la crisi poi… Sospirò. “Devo calmarmi… dove sono le mie pillole…” bisbigliò sperando che il forestiero non l’avesse vista agitarsi. Ma non trovandole estrasse dal cassetto l’unica cosa che riteneva potesse aiutarla in quel momento: la Corona del Rosario. Strinse forte la coroncina tra le dita della mano e invocò la Madonna: “Proteggimi, oh Madre del Cielo”.
“Salve a voi. Mi chiamo Vasile Horia… cerco una stanza per qualche giorno…” domandò lo straniero mostratosi indifferente al comportamento della donna.
“Sono 112 lei a notte, signor Horia” disse la donna cercando di mostrare un sorriso il più accattivante possibile.
Vasile posò le monete sul bancone e la donna picchiettò su un campanellino d’argento che vibrò per qualche istante. Un suono smorto echeggiò nell’aria.
Accanto al registo dei clienti notò dei depliant sui cui lesse: “TRANSILVANIA TOUR”.
Il facchino della locanda, un ragazzo alto e magro, sbucò da una porticina laterale e invitò lo straniero a seguirlo. “Mi segua signore…” disse con voce flebile. Poi prese la valigia e salirono le scale che conducevano al primo piano. Ad ogni passo gli assi di legno del pavimento scricchiolavano tanto che Vasile pensò che la locanda potesse crollare da un momento all’altro. La luce delle candele che illuminava le scale era così fioca che lasciava in penombra il ballatoio e immaginò che in caso di aggressione o furto sarebbe stato difficile identificare il responsabile.
I due uomini attraversarono un lungo corridoio prima di raggiungere la stanza. Il facchino estrasse dalla sua tasca una grossa chiave di metallo e aprì la porta forzando con la mano la serratura. Quindi la consegnò al Signor Horia e andò via borbottando delle parole incomprensibili per non aver ricevuto alcuna mancia. Vasile si guardò intorno perplesso e dopo lo smarrimento iniziale entrò nella stanza.
Dentro, la stanza era al buio. Cercò l’interruttore e lo trovò alla sua destra. Quando lo premette e la luce si accese, di primo istinto, Vasile si guardò intorno per vedere se c’erano specchi o comunque superfici riflettenti: detestava il riflesso della sua immagine perché gli procurava un dolore sia fisico che psichico.
Trovò uno specchietto affisso nel bagno. Lo rimosse e lo nascose nel cassetto dello scrittoio ripromettendosi di rimetterlo al suo posto il giorno della partenza.
La camera era modesta e sporca. Le pareti mostravano sottili crepe trasversali e in una di esse un minuscolo ragno nero aveva tessuto la sua tela. Notò una macchia di umidità nell’angolino, in alto, della parete con l’unica finestra presente nella stanza.
La finestra si affacciava sul corso principale. Le tende di colore bianco facevano filtrare gli ultimi raggi del sole che tramontava.
L’odore ripugnante di muffa pervadeva le sue narici. Ne fu nauseato. Aprì la finestra per respirare della’aria fresca.
Nella stanza c’era un letto, un comodino traballante per via di una gamba più corta delle altre e una scrivania.
Sulla superficie dello scrittoio era incisa una figura che impugnava una spada circondata dal fuoco e da una schiera di creature alate.
A una prima occhiata, il letto gli sembrava di legno scadente e si chiese se avrebbe sorretto il peso del suo corpo.
Nel cassetto del comodino accanto al letto Vasile trovò una Bibbia sgualcita e impolverata. Alla sua vista, l’afferrò e la scagliò con rabbia contro la porta: se era un abominio era solo colpa di quel Dio che lui aveva deciso di rinnegare nonostante il dispiacere dei suoi genitori ferventi cattolici praticanti.
Sbollita la rabbia posò la valigia sul letto e l’aprì. Estrasse uno scrigno di metallo che conteneva alcuni ricordi di gioventù. Le lacrime gli rigarono il viso, quindi spense la luce per restare solo con i suoi ricordi.
L’oscurità della notte lo cullò tra le sua braccia alleviando il suo dolore.
I primi raggi di sole filtrarono nella stanza scacciando l’oscurità ma infastidirono Vasile che si alzò dal letto e serrò le tende. Fin da bambino la luce del giorno lo rendeva irascibile preferendo di gran lunga la notte quando poteva sentirsi una persona come le altre e non doveva nascondersi.
Si vestì e si preparò per la colazione.
Quando raggiunse la cucina al piano terra sentì un brusio che divenne ancor più vigoroso quando Vasile prese posto al tavolo.
Sapendo di non passare inosservato poté percepire gli sguardi e i commenti dei commensali.
“Hai notato i suoi occhi?” tuonò un uomo tarchiato seduto al bancone.
“E la sua pelle?” disse l’altro che gli sedeva accanto mentre tracannava un boccale di birra.
Vasile non si arrabbiava più oramai, era abituato ai pregiudizi della gente.
Dopo aver assaggiato la zuppa, si alzò e andò via mentre gli altri commensali continuavano a mormorare parole indicibili nei suoi confronti. Vasile si voltò di scatto fulminandoli con lo sguardo. Il silenzio calò improvviso nella stanza.
“Che sguardo inquietante! Ho temuto il peggio!” esclamò una vecchia signora.
“Per fortuna è andato via…” sospirò la donna che gli sedeva vicino.
Vasile ritornò nella sua stanza e si distese sul letto per riposare.
A mezzogiorno preferì non scendere e ordinò il pranzo in camera. Poi attese che il sole tramontasse per visitare il paese. Preferiva muoversi di notte al riparo da occhi indiscreti. Era stanco di sentire commenti irriguardosi sul suo aspetto.
Con un cenno della mano chiamò la carrozza ferma in piazza a pochi passi e vi salì.
“Figliolo, portami al cimitero”.
“Cedrin… mi chiamo Cedrin, signore”.
Il cimitero sorgeva alla periferia del paese accanto a una vecchia chiesa sconsacrata e abbandonata.
Per tutto il tragitto, Vasile non proferì parola mentre Cedrin aveva canticchiato tutto il tempo. Vasile pensò che a Bran si continuava a vivere come due secoli prima. Niente automobili, niente tecnologie di ultima generazione. Non era dispiaciuto, anzi gli piaceva l’idea di vivere in un luogo simile. Le sue labbra accennarono un lieve sorriso.
Giunti a destinazione, Vasile porse 50 lei al cocchiere. Cedrin le afferrò e in quel momento notò che la mano dell’uomo era diafana e avvizzita come la pelle di un vecchio nonostante non lo fosse.
Inconsciamente, indietreggiò, poi mise le monete in un sacchetto di lino ricamato a mano insieme alle altre monete guadagnate durante la giornata e si accordò per l’orario in cui doveva passare a prenderlo.
Vasile disse a Cedrin: “Figliolo, puoi passare a prendermi tra due ore”.
“Non mancherò” rispose il ragazzo. Poi la carrozza partì in direzione di Bran.
Vasile attraversò il cancello d’ingresso. Una possente struttura di ferro fiancheggiata da due statue di angeli alte due metri con pietre di zaffiro incastonate negli occhi. Un lungo vialone acciottolato si estendeva per diversi km fiancheggiato da lapidi disposte in file laterali. Vasile si fermarò alla terza fila inginocchiandosi di fronte a una lapide con l’effige di una donna sorridente con lunghi capelli che le cadevano sulle spalle. La lapide presentava piccole incisioni ai bordi e lievi fratture nella roccia. La tomba era ricoperta di erbacce.
Rimase per un tempo che gli sembrò infinito. Immobile e in silenzio ascoltò il sibilo del vento che smuoveva le fronde degli alberi che circondavano il cimitero.
Cedrin decise di prendersi una pausa e si fermò alla locanda per bere qualcosa e fare due chiacchiere. Ordinò un boccale di birra.
“Oggi ho accompagnato quel forestiero al cimitero. È un uomo taciturno e misterioso. Poi quando ho scoperto che ha la pelle diafana e avvizzita, ho provato disgusto e nausea. Non vedevo l’ora di andarmene. Ho ancora i brividi addosso”. Si strinse nelle spalle.
Mentre spettegolava tracannava un boccale di birra dopo l’altro.
Quando la Signora Urecue aprì la porta, la stanza era vuota e illuminata dai raggi del sole. Il letto era in ordine mentre la finestra era aperta e il vento soffiava all’interno scompaginando i fogli sullo scrittoio. Li raccolse da terra: Florian aveva disegnato un essere alato che mostrava i suoi incisivi, sporgenti e aguzzi, mentre beveva il sangue di una giovane vittima distesa a terra.
“Florian…” la madre chiamò il ragazzo a voce alta ma non ottenne alcuna risposta. La paura si annidò nella sua mente giungendo a ipotizzare gli scenari peggiori: la morte del suo bambino. Poi corse a controllare le altre stanze della casa con il cuore che gli scoppiava in gola: “Florian dove sei?”. La voce della donna echeggiò tra le mura della casa senza sortire alcun effetto. Florian era scomparso nel nulla.
Allora, la donna con gli occhi gonfi per le lacrime che le scorrevano a fiume corse per strada gridando a gran voce il nome del figlio: “Florian… Florian…Florian… per l’amor del cielo dove sei?”. Poi si inginocchiò al centro della strada e si sentì mancare il fiato. La gente del posto le corse incontro: “Perché piangi Anita?” domandarono in coro i presenti accorsi lì in quel momento.
Il padre di Florian, il fabbro del villaggio, stava lavorando nella sua bottega, indaffarato come sempre, quando la notizia che suo figlio era scomparso giunse alle sue orecchie accusò un malore improvviso e venne trasportato d’urgenza dal medico del paese per le cure.
La scomparsa di Florian scosse l’intero paese e la paura che altri bambini potessero subire la stessa sorte si diffuse ben presto tra i suoi abitanti.
Allora, fu indetta nel pomeriggio un’assemblea straordinaria.
All’interno di una grande sala, il primo ministro prese la parola: “Signori miei, alla luce di quanto successo dobbiamo essere vigili. Se qualcuno ha visto qualcosa, parli adesso”.
“È colpa di quel forestiero…”, sentenziò la vecchia megera della locanda “Pelerinul”, “Ieri sera, è giunto nel nostro paese un uomo… uno scherzo della natura… un abominio ai miei occhi… trasudava orrore solo a guardarlo in faccia”.
“Si. Lo abbiamo visto anche noi” sentenziarono molti dei partecipanti all’assemblea.
“È lui il rapitore di Florian. Non abbiamo dubbi!” tuonarono i presenti in preda alla collera.
“Avete visto la sua pelle? È bianca come un cadavere. E che dire dei suoi occhi? Rossi… spiritati… gli occhi del demonio che ci osserva…” disse Cedrin il cocchiere.
“Dobbiamo intervenire il prima possibile…” suggerì qualcun’altro.
“Calma, signori miei. Al momento, non ci sono prove contro di lui” concluse il sindaco.
“È un messaggero del demonio… ha rapito mio figlio” disse la Signora Urecue stringendo la corona del Rosario al petto.
Mentre il malumore cresceva all’interno dell’assemblea, il saggio del paese, un uomo centenario con una lunga barba bianca, zoppicante, prese la parola: “Un attimo di silenzio” tossì e sputò a terra un grumo di sangue “dobbiamo capire chi è quell’uomo e perché è qui…”.
Urla di compiacimento echeggiarono all’interno dell’immensa sala.
Al termine del suo discorso, l’assemblea si sciolse e i partecipanti ne uscirono soddisfatti. “Quell’uomo ha le ore contate…” era il pensiero di tutti.
Al crepuscolo, Vasile, seduto al bancone della locanda, tracannava birra quando una giovane donna gli si avvicinò: “Salve a te forestiero” disse ammiccando “Non offri da bere a una graziosa ragazza?”.
Vasile ordinò al ragazzo dietro al bancone di versarle da bere.
I due parlarono e risero per tutta la sera poi la donna si avvicinò a Vasile e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Dopo aver pagato, Vasile abbracciò la donna e salirono nella sua camera.
“Cosa o chi ti porta da queste parti? disse la donna mentre si spogliava.
“I miei erano nativi di Bran e dopo la loro morte ho ereditato il castello sulla collina e presto andrò lì a dimorare” disse Vasile compiaciuto. I suoi occhi rossi brillarono nell’oscurità della stanza.
Mentre Vasile dormiva la donna estrasse un coltello che nascondeva sotto la giarrettiera e lo puntò al cuore dell’uomo. I pensieri si accavallarono nella sua mente e le tremavano le mani. “Non ho mai ucciso nessuno prima d’ora”, sospirò, “Adesso lo faccio”, ma in quel momento Vasile aprì gli occhi e la donna rinunciò al suo proposito.
“Perché mi vuoi uccidere Alisa?” domandò Vasile affranto.
“Vasile sei così… strano… nel villaggio pensano che sei un messaggero del diavolo. La tua pelle… i tuoi occhi… sei un abominio… la gente di qui mi ha assoldato per sedurti e ucciderti. Il nostro è un paesino, dove tutti si conoscono, e che non ha nulla da offrire a un forestiero… molti si chiedono del motivo della tua visita… ho ancora i brividi addosso per quello che avrei potuto farti… io… non sono un’assassina e tu… mio caro Vasile non hai nulla di sbagliato in te… ma il tuo aspetto ci terrorizza… perdonami…” disse piangendo.
Vasile la strinse a sé per rincuorarla e con la mano le accarezzò i capelli. La donna lasciò cadere a terra il coltello. Sospirò. Poi si addormentò tra le sue braccia.
All’alba la donna si svegliò mentre Vasile ancora dormiva. Si rivestì come se fosse in preda a un isterismo e sgattaiolò fuori dalla stanza senza far rumore. Quando giunse nella sua abitazione pensò che doveva escogitare qualcosa se non voleva soccombere all’ira di chi l’aveva assoldata pur sapendo in cuor suo che quell’uomo era innocente e a condannarlo era solo il suo aspetto. Constatò che il forestiero era stato l’unico a trattarla come una persona e non come una donna di poco conto, ma non aveva altra scelta e simulò la sua aggressione. E poi le offrivano molti soldi con cui incominciare una nuova vita altrove.
Andò in bagno e si procurò una ferita al collo e delle escoriazioni sul resto del corpo. Si cosparse il vestito del suo sangue e quando fu giorno corse per strada gridando e piangendo: “Aiutatemi… il forestiero mi ha aggredita… ha cercato di mordermi…” e mostrò i segni sulle spalle.
La gente per strada le si strinse intorno per soccorrerla. Poi la donna fu portata via per essere medicata.
“Dobbiamo ucciderlo” disse minaccioso un uomo alto e grosso mentre stringeva con forza un forcone.
La nebbia calò sul paese di Bran. Il nitrito dei cavalli risuonò nell’aria. Nei pressi del cimitero la carrozza di Cedrin scomparve dietro l’orizzonte mentre Vasile la osservava inginocchiato dietro la lapide di famiglia.
Due file più avanti, notò una pala e la terra smossa. Ne era certo, “Quelle fosse ieri non c’erano. Qualcuno è stato qui!”.
Tombe senza nome, ma di chi?
Al mattino Arian e Ana, i figli del panettiere, erano scomparsi.
La voce si diffuse nel villaggio in poco tempo. Crebbe l’ira degli abitanti che inveivano contro lo straniero.
Quando il sole tramontò, Vasile passeggiava per strada. La Signora Urecue lo vide e gli corse incontro maledicendolo: “Via di qui Satana!”. Raccolse delle pietre da terre e gliele scagliò addosso con disprezzo pur sapendo che non era un comportamento adeguato per chi si considerava da sempre un buon cattolico ma a predicare erano bravi tutti. Saper perdonare poteva essere considerato un dono e come tale non tutti lo possedevano.
Vasile affranto salì sulla carrozza e scappò lontano: “Cedrin portami al cimitero”. L’unico posto dove si sentiva a casa.
Di fronte alla lapide pianse: “Madre, perché tutto questo ostracismo nei miei confronti? Che ho fatto di male per meritarmi il loro odio? Quale colpa ho se sono un abominio?”.
Picchiò i pugni per terra per la rabbia.
Il rintocco delle campane del paese risuonò nell’aria. Quando uscì dal cimitero la carrozza di Cedrin non c’era ancora. Era in anticipo. Vasile decise di far visita alla vecchia chiesa sconsacrata a pochi km dal cimitero. Con grande stupore notò la carrozza di Cedrin ferma davanti al sagrato della chiesa. Si avvicinò in punta di piedi ma di Cedrin non c’era traccia.
Alcune travi di legno bloccavano l’ingresso della chiesa sconsacrata forse per impedire che qualcuno potesse entrarvi.
Non si diede per vinto, cercò un’altra entrata e la trovò alle spalle della chiesa: in fondo un piccolo cortile circondato da una recinzione di filo spinato e interamente ricoperto da erbacce c’era una porta che conduceva in una cappella al cui interno un altare di marmo era l’unica struttura sopravvissuta al trascorrere degli anni. Guardò dentro e si mise in ascolto ma l’unico suono che percepì era il suo flebile respiro. La cappella era vuota e in penombra. I pochi raggi di sole che vi penetravano si fermavano in prossimità dell’arcata centrale. Un lungo sospiro ed entrò. Attraversò l’arcata centrale in punta di piedi cercando di non far rumore e restando in perenne ascolto. L’immagine di Sant’Antonio lo guardava mentre procedeva verso l’altare. Sembrava che volesse avvertirlo dell’imminente pericolo a cui stava andando incontro. Man mano che si avvicinava all’altare il battito cardiaco accelerava, la fronte grondava di sudore: la paura sembrava paralizzargli le gambe. “Calmati Vasile, è solo suggestione!” si disse senza molta convinzione. Ma poi sentì un rumore provenire dal fondo della cappella: un rantolo risuonò nell’aria. Poi ancora silenzio. Quando raggiunse l’altare, salì quattro gradini, guardò dietro la possente struttura in marmo, ma non c’era nessuno. All’improvviso, qualcosa si mosse a pochi passi: un topolino impaurito sbucò da sotto un groviglio di stracci vecchi lasciati lì da qualcuno che probabilmente utilizzava la cappella come rifugio per la notte. Analizzò ogni angolo della cappella e la sua attenzione si posò su una porticina di legno socchiusa accanto a quello che una volta doveva essere un organo utilizzato per la celebrazione eucaristica. “Sarà la sagrestia”, pensò. Scostò lentamente la porta sperando che non cigolasse e sgranò gli occhi: due figure si dibattevano. Una più grande, più forte e più agile sovrastava un’altra che aveva il capo coperto da un cappuccio. La figura più piccola stava soccombendo: si dimenava con braccia e gambe per liberarsi dalla presa dell’altra ma inutilmente.
Senza pensarci due volte, Vasile si lanciò nel buio. Afferrò la figura più grande scaraventandola contro il muro di fronte alla porta e tramortendola. Dopo poco si alzò di scatto e con un balzo felino che lasciò di stucco lo stesso Vasile lo afferrò per la maglia e lo trascinò per terra. Nella colluttazione, gli strinse le mani intorno al collo piegandoglielo lateralmente. La figura più grande vide la carotide di Vasile ed ebbe un sussulto: aprì la bocca e affondò i suoi denti aguzzi nella gola strappandogli la carne, e succhiando il suo sangue. Vasile sentì l’oscurità impossessarsi della sua anima.
Ritornato in sé, riuscì a liberarsi dalla morsa che lo teneva prigioniero e assestò un colpo in faccia alla creatura infernale rompendogli il setto nasale. Qualcosa simile a gelatina sporcò le sue mani disgustandolo: “Credevo di essere io il mostro, invece mi sbagliavo”.
La creatura infernale si risollevò da terra e serrò i denti ma Vasile non si intimorì.
“Che tu sia maledetto, mostro! Rapire e seviziare quei bambini. Brucerai all’Inferno!” disse mentre cercava il suo sguardo con gli occhi.
Un ghigno comparve sul volto della creatura convinto di essere prossima alla vittoria: “Adesso la tua anima mi appartiene”.
Vasile si sentì mancare le forze. Cercò qualcosa di tagliente e affilato per uccidere il mostro. Si guardò intorno e vide un pezzo di legno con l’estremità appuntita per terra vicino all’uscio della porta. Inspirò, con uno scatto rapido raccolse il pezzo di legno e si lanciò contro il nemico che riuscì a schivare il primo colpo ma non il secondo. Lo trafisse al cuore con un colpo secco. La creatura cadde all’indietro urtando la testa contro il pavimento. Vasile si abbassò per accertarsi che l’incubo fosse finito: era morta.
Si toccò il collo: l’emorragia non si era ancora arrestata. Aveva bisogno di cure altrimenti sarebbe morto dissanguato ma prima doveva portare in salvo il bambino che per tutta la durata della colluttazione era rimasto immobile nell’oscurità.
Vasile lo cercò: nel silenzio riusciva a percepire il suo flebile respiro.
“Non ti farò del male, piccolo. Come ti chiami?”.
“Leon, signore” rispose ancora scosso. Ma quando notò gli occhi di Vasile, due macchie rosse che brillavano nell’oscurità, Leon ne rimase raggelato: “Stai lontano da me mostro!” e sgattaiolò fuori dalla sagrestia implorando che qualcuno lo aiutasse.
Vasile preferì non seguirlo.
Cedrin serrò i cavalli davanti all’entrata del cimitero. Attese il forestiero invano. “Aspetterò ancora cinque minuti, poi andrò via. Al diavolo quell’abominio!”.
Passati cinque minuti, si apprestò ad andarsene ma le urla di qualcuno lo fecero desistere.
Si voltò e vide un bambino con il volto sporco di fuliggine e i vestiti strappati: “Leon? Che ci fa qui?” si domandò sorpreso nel vederlo.
Scese dalla carrozza e gli andò incontro.
Leon fu felice di vederlo: “Cedrin, aiutami. Qualcuno mi ha rapito ieri notte mentre dormivo in camera mia. Mi sono svegliato nella sagrestia della vecchia chiesa sconsacrata”.
“Sali sulla carrozza, presto!”. Cedrin cercò di non far trapelare la paura che si stava impossessando del suo corpo.
Vasile vide da lontano la carrozza partire lasciandolo Vasile in compagnia dei suoi demoni.
Giunti in paese Cedrine e Leon si precipitarono al commissariato di polizia.
L’ispettore Blaga li vide arrivare dalla finestra del suo ufficio. Erano sconvolti.
Una volta che se li trovò di fronte cercò di calmare il bambino.
“Che cosa gli è successo?”, disse preoccupato, “Sembra che abbia visto il diavolo…”.
“È così ispettore Blaga. Leon sostiene di essere stato rapito da qualcuno che ha cercato di bere il suo sangue. Florian, Arian e Ana non sono scomparsi ma sono stati rapiti dallo stesso uomo che ha torturato Leon. Dovreste andare a dare un’occhiata alla vecchia chiesa sconsacrata. Lì ho trovato Leon!”.
“Vampiri? Leon si sarà suggestionato! Cedrin tu hai visto qualcosa?” tuonò perplesso.
“Lei non mi crede, vero?”.
“Non voglio dire questo ma… andrò a controllare di persona”.
Leon fu accompagnato all’ospedale più vicino da una volante della polizia mentre Cedrin decise di fermarsi al Pelerinul per bere un boccale di birra per allentare la tensione. Non c’erano indizi a suo carico: anche se era complice di quella creatura come materiale esecutore dei rapimenti dei bambini nessuna prova era riconducibile a lui.
L’ispettore Blaga raggiunse la vecchia chiesa sconsacrata ma fu costretto a parcheggiare l’automobile nello spiazzale antistante la struttura a un paio di km di distanza da essa. Un grosso tronco d’albero ostruiva l’accesso alla stradina che conduceva al sagrato. L’ispettore Blaga pensò di desistere dal suo intento ma era un uomo d’onore e superstizioso: ogni promessa andava mantenuta altrimenti sarebbe andato incontro alla sventura.
Superò l’ostacolo con un po’ di fatica e dopo una breve salita tirò dritto verso la chiesa prima che il sole tramontasse. Voleva evitare incontri spiacevoli con qualche drogato o vagabondo.
Il cimitero e la chiesa sconsacrata erano luoghi adatti per chi voleva nascondersi. Pensò che l’uomo che aveva rapito Leon si nascondesse ancora nei dintorni del cimitero.
Dopo aver raggiunto il sagrato notò che l’ingresso era sbarrato. Per non farsi trovare impreparato di fronte a una eventuale aggressione, estrasse la pistola d’ordinanza dalla fondina, pronto per sparare all’aggressore se ce ne fosse stato bisogno. Passo dopo passo, verificò che il perimetro fosse sgombero.
Vide il cortile alle spalle del sagrato: entrò.
Guardò a terra e notò che l’erba era stata calpestata. Ne dedusse che qualcuno era stato lì di recente. Si avvicinò alla porta che conduceva alla cappella e vi entrò senza far rumore.
La cappella era al buio. Si fece strada con la torcia tascabile che portava con sé. Non trovò nessuno.
Salì i gradini che precedevano l’altare di marmo e aprì la porta che conduceva alla sagrestia.
La porta cigolò e in quell’istante si sentì raggelare il cuore: “Se c’è qualcuno qui, adesso lo scoprirò”. La tensione era alle stelle: era pronto ad aprire il fuoco.
Con la torcia tascabile illuminò l’area ma la sagrestia era solo una stanza vuota e buia.
Poi con la torcia illuminò il pavimento le cui travi di legno scricchiolavano al suo passaggio e notò qualcosa per terra. Cenere, pensò. Confermando che qualcuno era stato lì. Poi notò che accanto alle ceneri c’erano delle goccioline di un liquido che ipotizzò fosse sangue. No, non lo era. Si accorse che le goccioline erano di colore biancastro e gelatinose al tatto. Il suo corpo fu attraversato da una scarica di adrenalina e pensò che non era stato prudente venire da solo.
L’ispettore Blaga decise di tornare all’automobile e contattare con la radio il commissariato di polizia per chiedere i rinforzi.
Si lasciò alle spalle la porta della sagrestia e mentre scendeva i gradini dell’altare si sentì afferrare alle spalle da qualcuno con una forza eccezionale che lo scagliò contro l’organo tramortendolo.
L’ispettore Blaga claudicante e ancora dolorante si alzò da terra e cercò la pistola ma non la trovò.
Una figura enorme lo fissava nell’oscurità: Vasile Horia era davanti a lui. Il suo volto deformato mostrava degli incisivi enormi e aguzzi. Le pupille erano dilatate e prive di umanità. Raggiunse l’ispettore Blaza immobilizzandolo a terra. Poi lo azzannò al collo come una bestia affamata di cibo succhiandogli la linfa vitale e dopo averlo ucciso, fece a brandelli la sua carne.
Quando Vasile tornò in sé si accorse di aver commesso un omicidio ma non provava alcun rimorso per quello che aveva appena fatto. Anzi non si sentiva ancora sazio e desiderava altro sangue.
Le tenebre erano calate su Bran: la caccia era appena incominciata.
Scavò una fossa nel cortile e vi seppellì i resti del corpo dell’Ispettore Blaza.
Quindi raggiunse l’automobile che l’ispettore aveva parcheggiato nello spiazzale davanti la chiesa sconsacrata e fece ritornoa a Bran. La parcheggiò di fronte al commissariato di polizia e proseguì a piedi.
Giunto alla locanda rientrò nella stanza e l’indomani: aveva un appuntamento con il notaio per firmare le carte di successione. Il castello sulla collina sarebbe diventato la sua dimora per sempre.
Il giorno dopo Vasile si recò dal notaio e poi al castello.
Immerso nell’oscurità. Il castello era maestoso e regale.
“Finalmente a casa!”, pensò.