Mentre Tiziano passeggiava con il suo pinscher tedesco di nome Dado lungo il muraglione del Borgo Antico e l’acqua salmastra pervadeva le sue narici, le prime luci del mattino rischiaravano la città. Un leggero venticello lo accompagnava durante la sua passeggiata mattutina in compagnia del suo fedele cane.
E mentre Luigi correva lungo la pista ciclabile che fiancheggiava il Lungomare di Bari schivando i getti d’acqua delle onde del mare che si infrangevano sugli scogli, Simone Alfieri era già per strada e si dirigeva verso Corso Vittorio Emanule per raggiungere Piazza Garibaldi. La sua quotidianità era scandita dalla solita routine: colazione al bar di Noè il cui proprietario era un ex sacerdote che aveva rinunciato ai voti dopo aver conosciuto sua moglie Chiara e dove avrebbe incrociato gli sguardi dei soliti frequentatori. Poi un giro in centro per ingannare la noia e mischiarsi alla folla che infestava Via Sparano come gli scarafaggi infestavano le strade della città nella calda estate che si era lasciato alle spalle.
Al bar di Noè incontrava gli amici di sempre: Umberto e Stefano. Umberto era un ex dipendente dell’Acquedotto mentre Stefano era un ex compagno di scuola con cui aveva fatto tutta la trafila dall’asilo alla scuola superiore come se si trattasse di una squadra di calcio. Poi le loro strade si erano divise. Stefano era partito per Milano dove sognava di diventare uno chef di fama internazionale e lavorare in un ristorante di lusso mentre Simone aveva deciso di entrare alla Facoltà di Medicina: il suo sogno nel cassetto era diventare un cardiologo di grande fama come suo nonno paterno Nicola Alfieri.
Umberto era un vecchio signore di 72 anni calvo e tarchiato che amava vestirsi elegante ogni giorno ed era un accanito sostenitore del fumo di sigaretta anche se non disdegnava la pipa. Fumava due pacchetti di sigarette al giorno come se fossero caramelle. Era soprannominato il professore: aveva sempre un consiglio da dare ma non amava riceverne. Era cordiale ma molto permaloso: bastava poco per farlo adirare.
Stefano era più anziano di Umberto di due anni ma ne mostrava dieci di meno. Fin da giovane praticava molto sport: era stato campione giovanile di atletica leggera. Adesso si manteneva in forma facendo jogging tutte le mattine. Si svegliava alle cinque del mattino quando ancora la città dormiva e il sole pigro dell’autunno si alzava in cielo per svegliarla dal torpore della notte.
Mentre Simone camminava sul ciglio della strada pensava a Margot, la sua vicina di casa: era alta e magra con due occhi blu che lo ipnotizzavano. I capelli erano biondi e la pelle bianca come il latte. La sua bellezza era rimasta immutata nel tempo.
Margot aveva settant’anni e per quarant’anni era stata un’attrice di teatro; con la sua compagnia teatrale aveva girato la penisola riscuotendo un enorme successo al botteghino. Una volta ritiratasi dalle scene e dissipato la sua ricchezza aveva deciso di trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza in un modesto appartamento che si affacciava sul Borgo Antico le cui pareti erano tappezzate di poster e fotografie che la ritraevano come una diva. Quando era malinconica capitava di ascoltare i suoi monologhi mentre affacciata alla finestra interpretava l’Amleto. Margot era rimasta ancorata al suo passato come una nave è ancorata alla bitta sul pontile: viveva e si nutriva del suo glorioso passato.
- Quanto mi mancano gli anni Settanta quando ero famosa in Italia e nel mondo. La gente mi fermava per strada e mi chiedeva un autografo e io ne ero ben felice. Con la mia compagnia giravamo il mondo: la gente mi applaudiva durante i miei spettacoli e il loro affetto non mi faceva sentire sola. Mi manca il mio pubblico e mi manca la recitazione. Era la mia vita… adesso che il sipario è calato sulla mia esistenza, mi sento così sola e malinconica… – ripeteva spesso. Poi restava in silenzio per qualche minuto e i suoi occhi si riempivano di nostalgia.
Più volte Simone le aveva proposto di trascorrere una serata insieme nella sua villa di campagna ma Margot aveva sempre declinato l’invito.
- Sai Simone mi piacerebbe tanto ma odio i ragni e i topi e qualsiasi altro animaletto che vive nei boschi. Sarà per un’altra volta. Sono sicura che prima o poi andremo a cena insieme.
- Margot, lo spero di cuore – le diceva sorridente Simone.
Umberto considerava Simone un sognatore ingenuo: – Non accadrà mai – gli diceva – Non sei il suo tipo. Margot è una donna elegante e sofisticata. Ama la dolce vita mentre tu Simone sei solo uno dei tanti dottori con una laurea in tasca che non hanno avuto fortuna nella vita. Mi dispiace ma Margot resterà un sogno per te – gli diceva strizzandogli l’occhio.
Simone scrollava le spalle sconsolato: – Forse hai ragione ma ci spero sempre. Margot è una donna sola che ha bisogno di qualcuno che la riempia di doni e di carezze.
Umberto gli dava una pacca sulle spalle e dopo aver pagato il conto si voltava e andava via lasciando Simone e Stefano alla loro routine quotidiana.
Poi il suono di un clacson risvegliava Simone dal torpore in cui era caduto riportandolo alla realtà. Quindi riprendeva la sua camminata lenta e claudicante lungo il corso assorto nei suoi pensieri. Fin da quando era ragazzo amava fare lunghe passeggiate per riflette sul senso della vita.
Non di rado incontrava qualche immigrato che gli chiedeva una monetina ma Simone dispiaciuto gli diceva che non ne aveva in quel momento. Lo salutava e continuava a risalire verso Piazza Garibaldi.
Giungeva all’incrocio e si fermava sul ciglio del marciapiede e mentre aspettava sull’attraversamento pedonale guardava immobile e con lo sguardo assorto il giardino al centro della piazza: assomigliava a un uomo vecchio e malandato proprio come lui. Immaginava che un giorno qualcuno lo avrebbe rimesso a posto: in quel momento la sua mente lo riportava a Umberto che lo considerava un sognatore ingenuo. Per un attimo un sorriso malinconico sembrava scalfire il suo sguardo serio che lo aveva contraddistinto per tutta la sua vita.
Poi a un tratto il cielo diventava plumbeo mentre un vento gelido si abbatteva sulla città. Il cielo iniziava a lampeggiare e grossi nuvoloni grigi si ammassavano intorno al sole lasciando la città in chiaroscuro. Simone si stringeva il nodo della sciarpa e si aggiustava il cappello smosso dal vento. Poi incominciava a tossire per liberare i polmoni e sputava a terra. Quando il rosso del semaforo diventava verde attraversava la strada in cerca di un rifugio per ripararsi dalla tempesta imminente.
Lampi e tuoni incominciavano a squarciare il cielo quella mattina annunciando il temporale: a un tratto incominciava a piovere a dirotto mentre una piccola tromba d’aria spazzava via le foglie accatastate da qualcuno lungo il margine del viale alberato che attraversava il giardino di Piazza Garibaldi.
Mentre Simone procedeva verso il bar di Noè con passo celere, nonostante gli acciacchi dell’età, mise un piede in una grossa pozzanghera colma di pioggia e vi ci cadeva dentro come inghiottito da un grosso ratto affamato e in cerca di cibo.
Al suo risveglio era disteso per terra disorientato ma non sentiva alcun dolore per la caduta e perfino gli acciacchi erano spariti: gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo quando era ancora un giovanotto agile e pieno di vita. Aveva smesso di piovere e il sole era già alto nel cielo. Dopo lo smarrimento iniziale Simone osservava il posto in cui era caduto come un astronomo scrutava le stelle del cielo con il suo telescopio.
A un tiro di schioppo dal punto in cui si trovava c’era un signore seduto su una panchina vestito di bianco e dall’aspetto bizzarro. L’uomo lo fissava in silenzio.
- Dove mi trovo? – Tuonava a gran voce ma lo sconosciuto non rispondeva alla sua domanda anzi scoppiava in una fragorosa risata. Simone rimaneva esterefatto: non ne capiva il motivo. Ai suoi occhi la città dove viveva da più di cinquant’anni era scomparsa nel nulla come inghiottita da un buco nero e al suo posto c’era un enorme castello che brillava di luce propria come le stelle del cielo. Il castello lo affascinava così tanto come se fosse una bella donna da corteggiare. Aveva viaggiato molto in gioventù e scoperto luoghi incontaminati ma prima di allora non aveva mai visto tanta bellezza.
A un tratto udiva della musica provenire dal castello incantato che lo incuriosiva e lo ammaliava come un incantatore di serpenti ammalia la sua creatura facendola danzare al suono della sua musica: – Ma che posto è questo? – domandava allo sconosciuto che tuttavia restava fermo e sorridente sulla panchina.
Poi Simone smise di fare domande e in silenzio ascoltava quella musica così dolce e riposante lasciandosi trasportare dalla sue note e mentre vagava con la mente accarezzava i suoi ricordi come una mamma accarezza il suo bambino.
Le lacrime iniziavano a rigargli il volto ma per una volta erano lacrime di felicità.
Poi a un tratto lo sconosciuto seduto sulla panchina smetteva di sorridere e con fare autorevole gli andava incontro e lo abbracciava, sussurandogli all’orecchio le parole: – Figliolo benvenuto in Paradiso.
L’uomo che cadde in una pozzanghera
6 febbraio 2020 | 0 Commenti