Le prime luci del mattino filtrano attraverso le tende della camera. Mi disorientano: guardo intorno e corrugo la fronte restando in silenzio. Dove mi trovo?
La porta è socchiusa e sento dei passi provenire dal corridoio. Qualcuno bisbiglia: è una donna ma non riesco a riconoscere la sua voce. Un brivido mi scuote dal torpore in cui mi trovo mentre avverto che ogni muscolo brucia come se qualcuno mi avesse cosparso il corpo di benzina e dato fuoco. La testa mi duole mentre la vista è annebbiata. Ancora stordito, guardo le mie mani avvolte dalle bende: Cosa mi è successo?
Non ho forza nelle gambe ma cerco di alzarmi dal letto. Il fiato è corto ma basta per raggiungere il bagno e guardarmi allo specchio appeso al muro. Mi tremano le gambe. Chiudo gli occhi: ho paura di guardare la mia fiaccia e rendermi conto che non è un sogno. Sono dentro un incubo. Maledizione!
Allora, prendo un respiro profondo e apro gli occhi: il cuore pulsa impazzito. L’immagine riflessa non mi appartiene. No! Non sono io quell’uomo con il capo ricoperto di bende. No! Urlo a scuarciagola tutto il mio disappunto.
Pian piano, scopro il capo. Vacillo. Mi faccio coraggio e tolgo le bende sporche di sangue: scorgo il mio volto sfigurato dalle fiamme. Un ricordo improvviso mi percuote, mi trafigge il petto come una freccia scoccata da un arciere nel bel mezzo di una battaglia. Il dolore è insopportabile.
Poi i ricordi si susseguono uno dopo l’altro e mi uccidono l’anima.
Dove mi trovo? Conosco la risposta. Cosa sono diventato? Uno scherzo della natura? Un fenomeno da baraccone? I brividi mi percuotono e mi scuotono. Ogni atomo del mio corpo vibra. Il pavimento e il soffitto del bagno fluttuano: la testa mi gira, poi, perdo l’equilibrio e cado a terra privo di sensi. La caduta risuona nell’aria come l’allarme di un negozio azionato dal soffio del vento.
A causa del trambusto, qualcuno corre in mio soccorso.
I passi li sento vicini.
La porta della camera si apre con forza e sbatte contro lo stipite mentre un uomo e una donna, in camice verde, mi sollevano da terra con cura e mi distendono sul letto. Odio quel letto! Maledico il mondo. Mi attaccano a una flebo e mi controllano la testa: nulla di rotto… sentenzia l’uomo soddisfatto.
Qualcuno mi chiama, sembra spaventato. Ascolto in silenzio: è una voce di donna che mi chiama, preoccupata: “Svegliati, Gabriel…”dice tuonante. Poi mi percuote ma non ho voglia di svegliarmi. Preferisco di gran lunga l’oscurità. Ma quella donna non vuol saperne di smettere di percuotermi: la sua energia è contagiosa. La sua linfa vitale mi rianima. Il mio cuore riprende a battere con regolarità. Quando apro gli occhi, lei è ancora lì: mi sorride. È molto bella, penso. Poi ascolta il battito del mio cuore con lo stetoscopio: “Non male, Gabriel!”, esclama compiaciuta, “Mi hai fatto prendere un gran bello spavento…”, sentenzia contrariata.
“Sei stato fortunato” dice l’altro.
Ma quale fortuna! Non vedi come sono ridotto? Ho male ovunque. Mi brucia il corpo… ma ancor di più l’anima. Le lacrime mi rigano il volto per il dolore.
Lei mi guarda con compassione: non voglio la tua compassione, vorrei risponderle. Rivoglio la mia vita, quella di prima. Non voglio trascorrere il mio tempo tra le corsie di questo ospedale. L’odore che si respira è inconfondibile, disgustoso. Mi fa vomitare.
Non ho voglia di sottopormi a mille trapianti e se tutto va bene potrò riavere un volto.
Non sarà mai il mio.
Nessuna operazione di chirurgia plastica potrà ridarmi la felicità.
Piango a dirotto come la pioggia che tamburella sui tetti. Un moto continuo e fastidioso.
La dottoressa ha i capelli lunghi mentre con le sue mani affusolate mi medica le ferite. Poi mi fissa con i suoi occhi azzurri e mi rimprovera come una mamma: “Non piangere, Gabriel! Non tutto è perduto. Io…”, tossisce, “Sono fiduciosa. Conosco un bravo chirurgo plastico a San Francisco. Quando le tue ferite saranno guarite, se vuoi, vi posso mettere in contatto. La vita non smette mai di sorprenderci. Credimi!”, i suoi occhi diventano tristi, “Ne so qualcosa. L’anno scorso mi hanno diagnosticato un tumore al seno. Era giovedì, ancora me lo ricordo, come se fosse ieri: è stato il giorno più buio della mia vita. Mi sono chiesta: Perché a me? Sono stata egoista: perché doveva succedere a qualcun altro? Una sera ho guardato il male negli occhi: ho visto la mia anima splendere di luce propria. Si, voglio vivere. Faccio la chemio e continuo a lavorare: questo lavoro mi piace e mi da grandi soddisfazioni. Per questo ti dico di non mollare. Tornerai a essere quello di un tempo, tornerai alla tua vita e l’incidente sarà solo un brutto ricordo”, una pausa, un sospiro, “Credi nei sogni, Gabriel?” mi domanda con quel sorriso magnetico.
Lo ammetto, sono impreparato alla domanda: preferisco non risponderle.
È pomeriggio, fuori ha smesso di piovere mentre un gatto nero saltella tra un bidone e l’altro in cerca di cibo. Poi si allontana e scompare dietro un’aiuola. Il vento muove le fronde degli alberi mentre qualche passante cerca rifugio da qualche parte per proteggersi dal gelo.
Sono andati via tutti, dopo il grande spavento. Fisso il crocifisso appeso alla parete di fronte: mi rendo conto che non ho mai pregato Dio. Dicono che esista qualcuno che ci protegge da lassù. Forse si sbagliano: incidenti come il mio non accadrebbero. Dio non lo permetterebbe! Forse.
Disgustato, chiudo le tende, spengo la luce e rimango in penombra, immerso nei miei pensieri. Cerco di riposarmi ma non riesco ad addormentarmi. Il tempo trascorre lento ma la notte pian piano si avvicina facendosi carico dei miei pensieri.
C’è silenzio ovunque e mi terrorizza l’assenza di rumore: io che sono abituato al rumore delle onde che si infrangono sulla scogliera.
Anche l’ultimo dei visitatori è andato via, tornerà al tramonto in cerca di risposte o andrà di nuovo via portandosi dietro più perplessità che certezze.
Adesso, che sono rimasto solo, con i miei dubbi, e dopo tanto pensare, è arrivato il momento di riposare anche se sarà una battaglia persa in partenza.
Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal respiro del vento.
È un attimo, un rumore improvviso mi sveglia: guardo fuori dalla finestra ma non c’è nessuno. Forse è quel gatto nero, ancora in cerca di cibo. Mi sbaglio.
Sgrano gli occhi: è mezzanotte. Quanto ho dormito? Sono frastornato.
Torno a dormire ma ormai non ho più sonno. Decido di alzarmi e di dare un’occhiata in giro.
Esco dalla mia camera e raggiungo, pian piano, la porta che mi condurrà fuori dal reparto “Grandi Ustioni”: Finalmente fuori! Sospiro soddifatto. Mentre la porta si richiude alle mie spalle, qualcuno chiama l’infermiere del turno di notte che non si è accorto della mia piccola fuga.
Percorro il lungo corridoio che ho davanti e mi trovo di fronte a un’altra porta: la apro cercando di non far rumore e sperando che nessuno mi scopra. Entro e sospiro: ce l’ho fatta! Ma…
Un altro corridoio si apre davanti ai miei occhi e penso di essere dentro a un labirinto. Scrollo le spalle, sconsolato. Continuo a vagare senza una meta precisa, guidato dall’istinto. Qualcosa troverò, penso in cuor mio.
È l’alba.
Continuo a girovagare per le corsie dell’ospedale in cerca di risposte. Poi, qualcosa attira la mia attenzione: c’è una luce accesa nella camera numero 5 del reparto di terapia intensiva.
Decido di controllare. Mi avvicino e scosto la porta di quel tanto da poter dare un’occhiata. Sgrano gli occhi: un uomo dorme nel suo letto intubato e attaccato alle macchine. Entro senza pensarci due volte e lo guardo. Sembra dormire.
È in coma, penso.
È così giovane, mi dico. Rabbrividisco.
In quel momento, guardo le mie mani, le bende che le accarezzano: è un istante, penso di essere fortunato. Le lacrime mi rigano il volto ma questa volta sono lacrime di gioia.
Chiudo la porta e torno indietro.
È domani, il sole splende. Il cielo è terso, sgombero di nuvole.
Sono vivo, penso.
È un nuovo inizio, ci vuole pazienza.
Sorrido.