Seduti attorno a un tavolino di cristallo siamo in cinque: alla mia destra c’è Riccardo con il suo odore inconfondibile di tabacco; alla mia sinistra ci sono Stefano e Gaia, inseparabili. Di fronte, c’è la piccola e stravagante Alice che mi mostra sorridente un mazzo di carte colorate.
“Scegli una carta, Andrea” mi dice Alice mentre poggia il mazzo di carte sul tavolino.
“Non sapevo fossi una veggente” le rispondo divertito.
“Non fare lo stupido, Andrea” mi dice rimproverandomi mentre mi guarda negli occhi. I suoi brillano come stelle nel cielo, i miei sono due enormi buchi neri dove ogni raggio di luce si spegne.
“Scegli una carta…” mi sussurra Riccardo mentre si prepara la sua solita canna. “Mi sto annoiando a morte, ragazzi!” sospira.
“Un tiro anche per me…”, gli bisbiglia Stefano spaparanzato e annoiato sul divano.
“Avete provato di tutto e adesso non avete altro con cui divertirvi, voi ricchi?” domando quasi infastidito. Cercavo delle persone serie con cui dare un senso alla mia esistenza ma mi sbagliavo. Avevo di fronte dei ragazzi annoiati e viziati che passavano le loro giornate chiusi in casa a fumare spinelli e sniffare cocaina.
“Basta!” tuono improvviso. Poi, mi alzo di soppianto e mi dirigo verso l’uscio della porta ma Stefano e Riccardo mi bloccano all’istante: “Che cosa credevi di trovare qui, stronzo?”.
“Non lo so neanche io” rispondo quasi bisbigliando. E arrossisco per la vergogna. Perché sono venuto a casa di Alice? Cosa cercavo, veramente? O cosa pensavo di trovare, qui? Sono solo quattro ragazzi ricchi e viziati che trascorrono le loro giornate sdraiati su un divano a sballarsi.
“Scegli una carta, Andrea!” mi chiede con insistenza Alice.
“D’accordo, poi andrò via!” le rispondo aggrottando la fronte.
Nella vita, avere successo è questione di fortuna e di conoscenze giuste. Quelle che non ho ancora incontrato. O non incontrerò mai. Scelgo la mia carta tra le tante nel mazzo e osservo con attenzione Alice mentre me la mostra: sulla carta sono è raffigurata una successione di numeri.
“Adesso vai e segui il tuo destino” mi dice Riccardo. E con la mano mi invita ad andare: “Su… vai…”.
Li guardo ancora una volta e capisco che non scherzano affatto: “Stronzi!”
Vado via sbattendo la porta.
Adesso non ho idea di cosa fare e dove andare.
Fuori, l’aria è gelida e minaccia di piovere. Una leggera brezza aleggia su di me rinfrescandomi la mente. Ho un desiderio urgente: andarmente da questo posto il prima possibile e non tornarci mai più! E pensare che credevo di essere l’unico fuori di testa…
Percorro Corso Vittorio Emanuele mischiandomi alla folla accorsa numerosa per via dei saldi di fine stagione. Guardo le vetrine dei negozi e le persone che passeggiano intorno a me disinteressato. Milioni di mondi sono qui. Si toccano. Si sfiorano. Forse entrerò in collisione con qualcuno di loro e catturerà la mia attenzione. O forse ci diremo addio in un istante.
Le auto in fila al semaforo attendono impazienti. Scatta il verde, il rombo dei motori mi assorda. Via, verso nuovi mondi incasinati. Poi, un gran botto mi scuote.
Guardo l’orologio, sono solo le dieci ma il grigiore del giorno spegne il mio entusiasmo immediatamente. Pochi metri più avanti, il sei è fermo. Salgo.
Non c’è nessuno: l’autobus è vuoto.
“Buongiorno!” dico rivolgendomi al conducente. Un uomo, con lunghi capelli brizzolati legati a coda di cavallo con pizzetto e barba incolta, vestito di nero.
“Buongiorno a lei!” mi risponde senza degnarmi di uno sguardo.
Scelgo l’ultima fila e mi siedo silenzioso. Accendo il mio ipod e ascolto della buona musica per rilassarmi.
Fuori, qualche lampo isolato e il rombo dei tuoni annuncia il temporale. La gente è già corsa via e le strade sono deserte. L’autobus parte a singhiozzo.
Noto, nostalgico, il Bar di Gino è chiuso per lutto. Una corona di fiori è posta davanti alla sua saracinesca abbassatta. I ricordi mi portano alla mia adolescenza e al mio primo bacio.
Il sei svolta in Piazza Garibaldi dove i lavori di restauro non sono ancora terminati. La polizia municipale invita le auto a procedere con cautela mentre l’escavatore traccia un solco nell’asfalto stradale. È un buco nero che si allarga giorno dopo giorno ingoiando qualunque cosa incontri a tiro.
L’autobus procede la sua corsa svoltando all’angolo tra Vittorio Veneto e Via dei Caduti fermandosi di fronte al Palazzo del Governo. La porta davanti si apre e altri due uomini salgono: un aziano signore in costume e un uomo tarchiato e trasandato. Quest’ultimo si siede accanto a me e stringe con forza la sua ventiquatt’ore. Gronda di sudore e gli tremano le gambe. L’odore della sua pelle è sgradevole e mi disgusta profondamente. L’anziano signore, ben vestito e sorridente mi saluta con un cenno della mano, emana un profumo di rose appena sbocciate che allontana quell’odore ripugnante da me.
Guardo fuori dal finestrino. Ecco la mia vecchia scuola: Istituto Margherita. L’edificio è ormai logoro, i cornicioni decandenti e il portone arruginito. La mia scritta sul muro: “Ti amo Giulia” è ancora lì dopo dieci anni. Indelebile come i miei ricordi, mi fa sorridere e pensare a lei. Chissà dove sei adesso. Volevi diventare avvocato per aiutare i più poveri e chissà se almeno lei si è realizzata nella vita.
L’autobus continua la sua cavalcata nella bufera. La pioggia batte contro i vetri incessante mentre i tergicristalli spazzano via l’acqua lasciando libera la visuale dell’autista. Lampi e tuoni fanno un grande baccano mentre un fulmine cade vicino a un tombino attirando la nostra attenzione. Un brivido accarezza la mia pelle scuotendomi dal torpore. L’uomo tarchiato è ancora al suo posto immobile con lo sguardo fisso nel vuoto ed è insensibile al rombo dei tuoni. Accenna, solo, brevi respiri regolari. L’anziano signore fischietta una melodia armoniosa nonostante la pioggia. La sua energia positiva contagia chi gli siede vicino.
Siamo in Via Scipione L’Africano. Seconda fermata. Salgono otto persone. Quattro donne, tre ragazzi e un bambino con il volto rigato di lacrime.
Lungo il tragitto, il bambino piange con insistenza. La sua mamma, abbastanza provata, ha i capelli arruffati e indossa un vestito a fiori sgualcito. L’anziana signora seduta alla loro destra offre al bambino un lecca-lecca. “Tieni, piccolo!” gli dice strizzandogli l’occhio.
Il bambino guarda la sua mamma con i suoi occhi umidi cercando la sua approvazione.
“Va bene, Tommaso.”
I tre ragazzi, zaino in spalla, sembrano conoscersi, parlano tra loro e ridono per ingannare l’attesa.
L’autobus sbanda a una curva prima di fermarsi. La portiera davanti si apre e sale un uomo in divisa militare. Capelli rasati e baffi. Strizza l’occhio a Thomas prima di sedersi davanti a me.
C’è traffico e il conducente, fin qui taciturno e concentrato sulla guida, sbuffa.
Svolta a sinistra, dove c’è il giardino “Piccoli Angeli” che mi riporta indietro nel tempo. Ricordo, mia madre mi accompagnava ogni giorno e qui giocavo con Davide. Su e giù sugli scivoli. Rincorse e cadute. Urla e grida tra la disperazione di mia madre.
Poi, tornavo a casa e crollavo sul divano per la stanchezza.
L’uomo in divisa, sorridente, scambia qualche parola con l’anziano signore.
“In partenza?”
“Si, il Governo ha deciso di mandarci in missione in Afghanistan” dice aggrottando la fronte.
“Buon fortuna, figliolo!” e gli da una pacca sulla spalla.
“Grazie, signore” risponde il soldato quasi per educazione.
Il soldato mi ricorda i racconti sulla Seconda Guerra mondiale di mio nonno Alberto. Era tornato dalla guerra sano e salvo ma un cancro ai polmoni se l’è portato via tra lo sgmomento di mia nonna Anna. Ogni domenica, dopo il pranzo, si sedeva sulla sua poltrona, vecchia e sgualcita, accendeva la sua pipa, e raccontava delle sue avventure al fronte. Fiumi di parole che non finivano mai.
“Ogni giorno poteva essere l’ultimo per noi al fronte”, diceva aspirando la pipa, “ma… io… ero fiducioso e pregavo Dio di riportarmi a casa sulle mie gambe” diceva mostrandoci le sue gambe vecchie e arrugginite dal tempo.
Poi, mia nonna Anna ci mostrava, con orgoglio, le lettere che gli scriveva nonno Alberto dal fronte e ci raccontava del suo stato d’animo e della paura di non rivederlo mai più. “Ogni giorno pregavo il Signore di riportarlo a casa… ogni giorno…” diceva mentre si faceva il segno della croce.
Qualche anno fa, ho fatto domanda per entrare nell’esercito ma sono stato scartato per un difetto congenito al cuore e mio nonno mi disse di non prendermela: “A volte sembra che vada tutto storto. Non preoccuparti, Andrea, un giorno troverai anche tu la tua strada!”.
E ripenso a tutti i miei fallimenti. Ai treni persi o sfiorati. A quello che potevo essere e non sono mai diventato perché le paure logorano la mente fino a minarla. Ogni notte, i fantasmi del mio passato tornano a bussare alla mia porta e mi tormentano. È difficile ignorarli. Passarci sopra no. C’è chi riesce ad andare avanti lasciandosi i brutti sogni alle spalle ma io no non ci riesco.
Il dolore mi uccide lentamente. Una sera ero sul terrazzo di casa e ho guardato dentro l’oscurità: c’è un vuoto dentro di me, incolmabile. Qualcosa che ho dentro che non mi fa andare avanti. Mi tiene a freno. Senza pensarci un attimo, sono salito sul cornicione e ho guardato oltre immaginando di cadere giù. Forse, lasciandomi andare mi sarei sentito per una volta libero di volare nell’infinito.
L’autobus svolta in Corso Italia e procede lungo il rettilineo verso casa mia. Chiamo la fermata e mi preparo a scendere. La strada è disconnessa e presenta alcune crepe nell’asfalto mai ripristinato dal Comune. Si balla un pò. Il palazzo è vecchio e mostra crepe nell’intonaco ma tiene nonostante abbia più di quarant’anni. La gente che vivie nel mio quartiere è povera e popolare. Lo spaccio di droga è all’ordine del giorno. A volte mi è capitato di scorgere delle ammucchiate di ragazzini di fronte al Bar degli Amici in Via dei Martiri vicino a casa mia. Il tizio mi fulminava con lo sguardo ed io tiravo dritto per la mia strada tra l’indifferenza dei passanti.
Scendo alla fermata e mi dirigo verso casa. Il portone è aperto e la luce è accesa. Un piccolo altare è imbastito nell’androne. Intorno alla mia foto sono accesi dei ceri e disposte delle corone di fiori. Su un registro leggo le firme di parenti, amici e persone che non conosco o non ricordo. Qualcuno ha lasciato dei fiori in mio ricordo.
A fatica salgo i gradini delle scale fino al terzo piano. Mentre tutto scorre velocemente intorno a me, le lancette del mio orologio sono ferme alle dieci del mattino. Mentre gli altri continuano a vivere le loro storie, la mia è giunta al capolinea.
La porta di casa è aperta e ho il cuore in gola. Entro e noto con piacere che ci sono tutti i miei parenti e qualche amico. Sono disteso sul letto come se dormissi mentre mia madre piange per il dolore che le ho procurato. “Mi dispiace, mamma!” le dico accarezzandole il viso ma è inutile, non può sentirmi.
Le sue parole mi turbano: “Perché l’hai fatto, figlio mio!”.
“Non lo so, mamma” le rispondo dispiaciuto. Prima di oggi, mi sentivo uno zero.
Ultima fermata
17 agosto 2021 | 0 Commenti