Margherita
Pubblicato da kiwi65 il 3 gennaio 2009
Non li porto mai, gli spicci. Ma per venire da te, passavo almeno dieci minuti a scegliere accuratamente un paio di monete da uno, un paio da due, e così via. Un mucchietto di ferro che facevo scivolare in tasca tra le dita, durante la fila. Eh sì. La fila. Perché per venire da te si fa la fila, Margherita.
Io non vedevo l’ora di avere una bolletta da pagare, o dei soldi da prelevare, per mettermi disciplinatamente in coda e chiacchierare del tempo con quella donna che si lamentava dei dolori, o parlare del governo con quell’altro signore. Non mi importava aspettare. Il primo tuffo al cuore quando uscivo dalla curva e vedevo le impiegate allo sportello.
I capelli biondi, a caschetto. Gli occhiali leggeri, con la montatura rosa. Secondo me, già sospettavi qualcosa, se nel tempo che la fila si accorciava tra me e te, tu trovavi il tempo per essere gentile e sorridente con ogni cliente e mi lanciavi occhiate, rispondendo alle mie.
Quante volte ho ripetuto questa recita? Non lo so. Ogni volta la nostra conversazione si esauriva in poche battute.
- Ha dieci centesimi?
- Ora vedo. Ecco qua.
- Grazie. Molto gentile.
- Ma le pare.
- Buongiorno.
- Arrivederci.
Ogni volta che uscivo dall’ufficio postale sentivo il tuo sguardo sulla mia nuca, che mi chiedeva il motivo per cui non ti avevo fatto capire se la tua sensazione era vera, oppure no.
Ma io dovevo sciogliere un dubbio, prima di fare qualsiasi mossa.
E un giorno, mentre guardavo estasiato le tue mani curate e coperte da anelli appariscenti volare veloci sulla tastiera, ti ha chamato il direttore.
- Mi scusi un attimo – mi hai detto sorridendo.
- Nessun problema – ho risposto.
Ecco. Ora.
Una mossa atletica e sei scesa dalla sedia. Girati. Girati, ti prego.
E ho visto il tuo cucciolo, mentre con la mano delicatamente tiravi su i jeans, andando a coprire l’elastico del perizoma.
Penso di non aver respirato fino al tuo ritorno, dopo qualche minuto.
- Eccomi qua. Centoventicinque e trentasei. Ha trentasei centesimi?
- Ora vedo. Ecco qua.
Ho tirato fuori dalla tasca sinistra i trentasei centesimi e da quella destra il bigliettino che tenevo pronto da mesi. Ti ho passato gli spicci e poi, dopo qualche secondo, il foglietto a quadretti ripiegato.
Hai preso gli spicci e hai guardato il biglietto. L’hai aperto velocemente e lo hai richiuso nel palmo della mano.
- Grazie. Molto gentile.
- Ma le pare.
- Buongiorno.
- Arrivederci.
Tutto come sempre. Mi sarò sbagliato, ho pensato. Ma vuoi che una donna così, con quel mondo dietro abbia bisogno di essere rimorchiata allo sportello?
Invece, dopo qualche giorno, da un numero sconosciuto, mi è arrivato un messaggio che faceva così:
- Ciao. Sono Margherita e sono sposata. Sarà meglio che mi lasci stare.
Gli ho riposto al volo la prima cosa che mi è passata per la mente.
- Ciao. Sono Guido e sono sposato anche io. Credo anche io che sia meglio che ti lasci stare.
E così abbiamo iniziato a scambiarci messaggi, per settimane. Ogni messaggio più o meno parlava sempre del fatto che avremmo dovuto farla finita. Io ti rispondevo sempre subito, tu ci mettevi anche una settimana. E io aspettavo. Fremevo, ma non ti ho mai mandato un messaggio prima di una tua risposta. Poi un giorno ti ho scritto:
- Ma un pomeriggio libero, per vederci, ce l’hai?
Dieci minuti.
- Venerdì pomeriggio, dopo le tre.
Mi avevi detto che avevi una macchina rossa, che dava troppo nell’occhio. Così ti sei fatta prestare la macchina da tuo marito, una grande macchina grigia.
Ti ho aspettato per mezz’ora. Il tempo limite. Mi era già capitato che altre donne mi dessero buca, molte volte. Mi sono dovuto dare un tempo limite. E trenta minuti di ritardo si possono concedere. Anche se poi alla fine aspettavo almeno tre quarti d’ora, fino ad un ora oltre non ho mai aspettato.
Avevo anche un po’ sonno e mi sono assopito, ascoltando Miles Davis.
Poi ti ho visto bussare al vetro e ti ho aperto.
- Ciao Margherita.
- Ciao.
Ci siamo stretti la mano e ci siamo dati un bacio sulla guancia, come fanno i parenti. Ho messo in moto e mi sono diretto da qualche parte, non ricordo dove. Abbiamo cominciato a parlare del più e del meno, delle nostre famiglie, del lavoro. Dopo quasi un’ora ho fermato la macchina in un piazzale.
- Perché ti sei fermato? – mi hai chiesto con tono minaccioso.
- Scommetto che qualche idea in proposito ce l’hai – ho riposto.
- Ma che ti sei messo in testa? Riportami alla macchina!
- Senti, se sei arrivata a questo punto, penso che almeno un bacio me lo devi.
Mi hai guardato in silenzio, quel silenzio che sa di resa. Hai solo abbozzato un minimo tentativo di resistenza, giusto per salvare le apparenze, come insegnano le mamme.
- Va bene. Solo un bacio, però.
E come insegnano le mamme, non mettere la paglia accanto al fuoco, se non vuoi che scoppi un incendio. Il bacio si è presto tramutato in uno sbottonare di camicette e di jeans, in uno sdraiare di sedili. Mi sono staccato a fatica dalla tua bocca, per cominciare ad esplorare i tuoi seni ed i tuoi
fianchi.
- Girati. Ti prego.
E tu mi hai voltato le spalle, docilmente. E così l’ho visto.
Il tuo cucciolo, fasciato con una mutandina di pizzo nero. Ho preso tra pollice ed indice i tuoi fianchi e ti ho messa in ginocchio. Poi ho tolto la mascherina al cucciolo.
Lo ho misurato per qualche secondo con le mani. Una bella quarantaquattro, non abbondante. La pelle liscia. Ti ho dato un pizzicotto, per saggiare il tono muscolare.
- Ahi! Mi fai male!
Bene. I soldi per la palestra sono ben spesi, ho pensato.
Senza attendere oltre, ho affondato il viso in quella meraviglia, e tu hai singhiozzato dal piacere. La mia lingua ha indugiato a lungo, tra le due porte del paradiso.
Ad ogni affondo, un sospiro soffocato. Avrei continuato per tutta la vita ad assaporare il mosto di quella vite selvatica. Invece tu mi hai rimesso sui binari.
- Basta. Basta. Prendimi. Così, da dietro.
Pazienza. Mi sono tolto quel poco che rimaneva e mi sono messo in ginocchio dietro al cucciolo. Ho preso la tua collana colorata da dietro e ti ho tirata verso di me. Ed i tuoi singhiozzi si sono mischiati con le mie urla, mentre io ti cavalcavo a pelo, briglia in mano.
Alla fine sono rimasto con le mani e la bocca sul tuo cucciolo, mordendolo, baciandolo, schiaffeggiandolo.
Mentre facevamo ritorno, hai pianto. In silenzio, cercando di non farmi capire quanto ti sentissi colpevole per quello che avevi fatto.
Non ti ho vista più, all’ufficio postale. Ai messaggi neanche rispondi più.
Chissà cosa farai in questo momento. Forse stai chiacchierando con tuo marito, forse stai cucinando. Chissà dove sarà riposto il tuo cucciolo, su quale delicato cuscino sta facendo dondolare la tua burrosa figura.
3 gennaio 2009 alle 7:20 pm
ma questo e’ un racconto erotico!
e scritto benissimo, anche, perche’ scritto da un uomo.
dolcissimo e tenero nella sua crudezza, senza fronzoli.
dritto al punto in un crescendo di passione.
mi e’ proprio piaciuto e come dice una mia amica “siamo sane donne italiane che apprezzano”…e concordo
siamo sempre all’eterno concetto: solo sesso?
ma si’, se si mette in chiaro prima, non si dovrebbe soffrire piu’ di tanto.
l’importante e’ parlarsi a priori e i tuoi personaggi hanno messo sul piatto entrambi cosa potevano offrire nei loro moltissimi sms, i veri fautori di tutto l’eros sfociato quel pomeriggio in auto.
bravo davvero.
3 gennaio 2009 alle 7:24 pm
e complimentissimi per il tuo blog.
ne ho uno anch’io ma e’ antesignano., non so come renderlo accattivante…
4 gennaio 2009 alle 1:08 am
Grazie Caterina! Se vuoi qualche aiuto per il blog… basta chiedere!
Ciao
Piero
4 gennaio 2009 alle 6:41 pm
E’ proprio vero! Un racconto erotico, dove il sesso, in fondo in fondo, accontenta i due protagonisti, senza alcun bisogno di smancerie. E’ piaciuto così. Davvero ben scritto, Piero. Lo si legge d’un fiato, e sei stato bravo a non cadere in pesanti volgarità. 5 stelline!
4 gennaio 2009 alle 9:43 pm
Ormoni in fermento, voglia di novità, trasgressione, un po’ di cinismo: gli ingrdienti ci sono tutti per quella che ai miei tempi (nel giurassico) si chiamava ZIP!
Grazie per avermelo fatto ricordare.
5 gennaio 2009 alle 11:49 am
Molto ben scritto, si fa fatica a non arrivare fino in fondo