Andrea

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Unità Deposito Capsule (2)

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L’appartamento che gli era stato assegnato era nel centro cittadino, in un bell’edificio del secolo precedente. Era uno dei privilegi dei Raccoglitori quello di poter avere a prezzi vantaggiosi case di prestigio, e Atharin ne aveva approfittato, anche a costo di dover fare un viaggio un po’ più lungo la sera al ritorno dall’Unità. Viveva lì da quando si era sposato con Milta, ormai quasi cinque anni fa, ed ogni sera era sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta. L’affitto era lievemente più alto di una casa in periferia, anche con le agevolazioni cui aveva diritto, ma la vista che si godeva dall’ampia terrazza era incredibile.

“Tesoro! Sono a casa!”

Nessuna risposta.

In cucina trovò un biglietto sul tavolo: sua moglie era a cena da un’amica. Gli aveva lasciato qualcosa di pronto nel frigorifero.

Mentre scaldava la cena, controllò rapidamente gli incarichi per il giorno dopo. Solo dieci, per fortuna. Una giornata leggera. Se si fosse sbrigato, avrebbe potuto finire nel tardo pomeriggio e magari portare Milta a cenare fuori città, in campagna, vicino l’Orlo.

Un improvviso sbalzo di tensione fece indebolire per un attimo le luci, e provocò un coro di lamenti dagli apparecchi elettronici della casa. Come tutti gli edifici di pregio, anche il loro aveva un generatore condominiale: in pratica una versione in miniatura dell’Unità di Deposito Capsule che forniva l’energia necessaria a tutti gli appartamenti e contribuiva in parte all’illuminazione pubblica delle strade dell’isolato. La capsula che lo alimentava era stata acquistata quando l’edificio fu costruito, e per tanti decenni non aveva dato alcun problema.

Purtroppo, anche le anime più vigorose raramente riuscivano ad alimentare un carico come quello per più di cento o centocinquant’anni, e la loro evidentemente era ormai quasi esaurita. L’amministratore ne era già stato informato, ed aveva avviato le pratiche per richiedere la fornitura di una nuova capsula al più presto. Il costo sarebbe stato esorbitante, assolutamente proibitivo per gli inquilini: un’apposita assicurazione si impegnava, in cambio di un premio mensile (carissimo comunque, ma per lo meno non proibitivo), a pagare il prezzo di una nuova capsula quando se ne rendesse necessario l’acquisto.
Speriamo che si sbrighino a sostituirla pensava Atharin mentre tirava fuori dal forno la cena ormai abbastanza calda da poter essere mangiata. La vecchia capsula sarebbe stata ceduta all’Unità, dove si poteva estrarre con più efficienza la poca energia rimastale. Non si sprecava mai nulla. Mai. In un mondo come quello, affamato di energia ma con praticamente nessuna fonte esterna cui attingere, non potevano permettersi di buttare via capsule non completamente esaurite.

Non gli piaceva mangiare da solo, per cui la cena non duro’ più di qualche minuto. Preferiva invece sedersi nell’ampia terrazza e godersi il panorama. La temperatura non era mai troppo fredda, né troppo calda. Il mantenimento di un clima confortevole era la seconda voce del bilancio energetico della città. Si preparò un drink e uscì in terrazza, sedendosi in una delle quattro comode poltrone che avevano comprato l’anno prima. Milta non aveva certo appoggiato l’acquisto: a lei la vista della città dall’alto del loro appartamento non piaceva. Avrebbe forse preferito un salotto nuovo, ma Atharin si era imposto, cosa che accadeva abbastanza raramente da far si’ che Milta lo assecondasse. Erano in molti a trovare fastidiosa la vista del loro mondo, ma ad Atharin piaceva molto. Il motivo principale di fastidio era, a quanto pare, la vista della Barriera, vista che invece Atharin trovava confortante. Lo rinfrancava sapere che c’era un limite al loro mondo, un confine. Che tutto poteva essere conosciuto ed esplorato perché non c’era nulla di infinito. Gli pareva a volte che desse alla città un accento di perfezione, di compiutezza, che coloro che sognavano di un mondo senza Barriere evidentemente non erano in grado di apprezzare. Inoltre, difficilmente si sarebbe potuto soddisfare il fabbisogno energetico di un mondo senza limiti. Quante anime sarebbero state necessarie? E quanti corpi in cui far nascere e maturare quelle anime? E quante risorse per nutrire quei corpi? No: più ci pensava, più si convinceva che il loro mondo era perfettamente dimensionato, il risultato di un perfetto equilibrio tra risorse e popolazione. E la Barriera, per lui, era il simbolo visibile di quella perfezione.

Una leggera brezza gli scompigliò i capelli mentre sorseggiava il suo drink, lo sguardo perso nel vuoto. Il centro cittadino era un tripudio di torri e grattacieli, sporadicamente intervallati da spazi aperti, giardini, piazze. Il suo edificio era abbastanza alto da poter godere di una buona visuale sul resto della città. L’illuminazione, a quell’ora della sera, era ridotta ai soli complessi abitativi, essendo ormai chiusi uffici, industrie e negozi. Anche così, lo spettacolo era veramente impressionante. Sterminate pareti di finestre, piccole, luminose, dietro le quali si svolgevano le vite di innumerevoli persone, sconosciute. Un immenso alveare di uomini, donne, bambini, tutti intenti alle normali faccende della loro vita domestica, tutti connessi all’Unità, da cui ricevevano, come linfa vitale, l’energia di cui avevano bisogno. Solo che, come ogni Raccoglitore sapeva bene, quello era solo un prestito. Per ovvi motivi la maggior parte dei cittadini preferiva non pensarci, ma prima o poi, quell’energia, l’avrebbero dovuta restituire…
Più in là una fascia meno illuminata marcava la zona a densità abitativa più bassa, dove erano ospitate le attività produttive. Ancora oltre, le campagne circostanti l’agglomerato urbano erano pervase da un’oscurità quasi totale, interrotta di tanto in tanto solo da qualche lussuosa villa o da qualche ristorante. La maggior parte dei suoi concittadini si fermavano lì con lo sguardo, timorosi di spingerlo oltre, come se facendo così potessero in qualche modo esorcizzare la realtà, spingerla a cambiare negandola ostinatamente. Purtroppo la realtà aveva fino ad ora dato prova di essere molto più ostinata di loro, e la Barriera era sempre lì, immensa, protettiva. Circondava tutta la città, delimitando un cerchio perfetto di circa dieci chilometri di raggio.  Si ergeva per un’altezza che pareva infinita, ed in un certo senso lo era: più che una parete, era un guscio, una perfetta superficie semisferica che delimitava lo spazio cittadino non solo lateralmente, ma anche dall’alto.

Nessuno sapeva esattamente come funzionasse, ne’ quando fosse stata creata, ne perché fosse lì. Si potrebbe argomentare, e a ragione, che Atharin e i suoi concittadini ignoravano un bel po’ di cose importanti circa il loro mondo. Questo pensiero a volte infastidiva qualche cittadino, che intraprendeva enormi e dispendiose campagne di studi, scavi archeologici, indagini genealogiche. Insomma ogni tanto nasceva qualche storico che si metteva in testa di sbrogliare l’intricatissima matassa della loro storia. Purtroppo più che una matassa la storia del loro mondo era una parete di gomma, frustrante ed impenetrabile come la Barriera. L’occasionale studioso finiva, se era fortunato, per arrendersi e trovarsi una passione meno impegnativa. I meno fortunati cadevano in forme più o meno gravi di depressione, che li portavano, nei casi peggiori, ad un incontro ravvicinato con un Raccoglitore. La società cercava sempre di recuperare quegli individui ed evitare la loro morte per quanto possibile: un’anima raccolta in un fase di depressione rendeva pochissima energia rispetto ad una in buona salute. Era sempre meglio sottoporre il povero aspirante scienziato a tutte le cure necessarie per metterlo in grado di vivere serenamente la sua vita quanto più a lungo possibile, fin quando la sua anima sarebbe stata matura per essere raccolta ed utilizzata per il bene comune. Alcuni dei casi più difficili erano addirittura arrivati a togliersi la vita senza dare il tempo a chi stava loro attorno di applicare uno Schermo, causando l’irrimediabile dispersione dell’anima. Uno spreco inaccettabile, sotto tutti i punti di vista, che veniva di solito passato sotto silenzio per timore che generasse meccanismi di emulazione nel resto della popolazione.

Di certo si sapeva ben poco. Era sicuramente impenetrabile, e il suo mantenimento era la prima voce di spesa energetica della città. Attingeva direttamente dal reattore principale dell’Unità, quindi non c’era modo di disattivarla, e comunque era opinione condivisa da tutti i ricercatori in materia che spegnere la Barriera sarebbe stata una pessima idea. Diversi studi su quello che si trovava oltre avevano confermato che al di là non c’era nulla: spazio vuoto, immenso, senza sorgenti luminose apprezzabili, che si estendeva in tutte le direzioni (o almeno, in tutte le direzioni che loro riuscivano ad osservare). Era insomma opinione comune che la Barriera fosse l’unica cosa che impediva all’aria che respiravano di disperdersi. Essendo circondati dal nulla, era anche impossibile sapere se ci si stava muovendo o se invece si era fermi e, nel caso ci si stesse muovendo, in che direzione si andasse.

Non potendola oltrepassare, ad alcuni era venuto in mente di passarle sotto, studiando quanto si estendesse il loro mondo verso il basso. I primi scavi avevano dato risultati che per breve tempo infiammarono gli animi. Al di sotto di uno strato di un centinaio di metri di terra e roccia, il loro mondo era limitato da una superficie piana di un materiale metallico non meglio identificato.  La Barriera iniziava esattamente da questa superficie, per cui non c’era modo di oltrepassarla. Gran parte dei ricercatori si erano lasciati prendere dall’entusiasmo, in parte perché la scoperta di un nuovo materiale era di per se’ un fatto interessante che apriva la strada a nuove campagne di ricerca, di studio, di estrazione di campioni. In parte perché qualcuno aveva suggerito che se quello scudo era una parete, allora magari da qualche parte c’era una porta… Finalmente la barriera non era più motivo di imbarazzo, ma di stimolo. Non di frustrazione, ma di curiosità. La gente guardava alla Barriera non occhi nuovi, ansiosi di scoprire le meraviglie che si celavano al di là. Gli scavi si erano moltiplicati, e dove non era possibile scavare tecniche ecografiche avevano scandagliato lo Scudo dalla superficie, alla ricerca di una anche minima imperfezione o irregolarità che indicasse la presenza di un’apertura. Col passare degli anni, risultò sempre più chiaro che lo Scudo era assolutamente restio a cedere campioni per il trastullo degli scienziati: il metallo era assolutamente indistruttibile, impenetrabile ad ogni forma di radiazione o vibrazione. A peggiorare la situazione, gli studi sembravano dimostrare che la sua uniformità  era completa: se una porta c’era, era molto ben nascosta. Così, piano piano, l’interesse andò scemando e la gente tornò a vivere come al solito, abbassando lo sguardo di fronte alla Barriera, ricoprendo con cura lo Scudo, cercando di non pensarci.

Attualmente stavano attraversando una fase di stasi delle ricerche. L’ultima grande campagna di studi era partita quasi un secolo fa, e l’entusiasmo era andato man mano scemando. Ormai restavano solo tre o quattro irriducibili che continuavano a mandare impulsi laser al di là della Barriera sperando che tornassero indietro dopo esser stati riflessi da qualcosa, qualsiasi cosa, in modo da fornire qualche informazione sul mondo al di fuori del loro.
Inutile dire che ogni attesa era stata finora frustrata. Anche sul versante dello Scudo tutto languiva in una stasi esasperante. I pozzi scavati erano stati richiusi con cura, ufficialmente “per non rischiare di influenzare in alcun modo le ricerche future”. Più probabilmente per non aver costantemente sotto gli occhi l’emblema più visibile del proprio fallimento.
Al momento il filone che andava per la maggiore comunque non riguardava né la Barriera né lo Scudo, ma gli archivi della città. Un giornalista aveva acutamente osservato, un paio di secoli fa, che qualcuno dovrà pur averli costruiti lo Scudo e la Barriera, e difficilmente la barocca burocrazia cittadina avrebbe potuto lasciarsi sfuggire qualcosa di così evidente. Stessa cosa per i giornali e gli archivi degli altri media. Insomma: bastava risalire abbastanza indietro nel tempo, fino alla costruzione della Barriera e dello Scudo, e si sarebbero avute tutte le informazioni che servivano.
Gli archivi digitali dei giornali e dei media arrivavano fino a circa duemila cinquecento anni prima. Prima di allora le copie venivano conservate in formato analogico, se non addirittura cartaceo, il che di fatto le aveva condannate a ridursi in polvere o in rumore bianco del tutto primo di informazione.
Anche tra il materiale digitalizzato, i supporti magnetici che conservavano le informazioni più vecchie avevano sofferto della mancanza di refresh: in mancanza di una lettura e riscrittura periodica, i preziosissimi bit erano pian piano sbiaditi, fino a renderli del tutto privi di senso.
Le cose andavano un po’ meglio negli archivi dell’amministrazione cittadina. Lì si riusciva ad arrivare a circa tremila anni prima, con informazioni sia analogiche che digitali, ma che soprattutto, in ottemperanza ad un regolamento del quale nessuno aveva mai compreso a pieno il significato fino a tempi più recenti, durante tutti quei secoli gli archivisti avevano scrupolosamente provveduto al refresh periodico di tutte le informazioni. Il che le aveva, per fortuna salvate.
Nel complesso quindi si avevano a disposizione tremila anni continuativi di pratiche amministrative e circa duemila cinquecento (seppur con qualche lacuna qui e là) di giornali e altri media. Abbastanza da tener impegnati i ricercatori più motivati, nonché annoiare a morte quelli meno devoti alla causa. Ad ogni modo, quello che sembrò subito chiaro, era che la città era esattamente come la conoscevano oggi già tremila anni fa. Nessuno menzionava neanche di sfuggita una supposta epoca in cui Barriera e Scudo erano stati costruiti, men che meno il loro perché o come funzionavano. Anzi, a scorrere con attenzione gli archivi, si trovavano riferimenti periodici a campagne di studio sulla Barriera, sullo spazio esterno, e più recentemente sullo Scudo.
Insomma, niente che non sapessero già. Anzi la consapevolezza che tremila anni di studi e ricerche non avevano portato nessun risultato, ma si era ancora completamente ignoranti proprio come si era sempre stati, aveva un po’ spento l’entusiasmo dei ricercatori.
Gli archivi dell’Unità Centrale non erano stati di maggior aiuto. I registri dei depositi di capsule e della distribuzione dell’energia venivano conservati per un secolo, poi filtrati e cancellati, conservando solo le informazioni più interessanti, quelle fuori dalla norma. Praticamente non restava nulla.

andrea

Autore: andrea

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5 Commenti

  1. E’ interessante molto scorrevole e piena di dettagli , voglio proprio capire dove vuoi portare questa storia, attendo di leggerne il seguito!
    Ciao!
    Bruno 62

  2. Scusa per il voto volevo darti quattro stelle ancora non mi ci ritrovo con questo sistema di votazione.
    Bruno 62

  3. Fabio

    Ciao Andrea,
    una società immutata per tremila anni e di fatto prigioniera delle sue stesse mura, tremendo.
    Non so gli altri ma io muoi dalla curiosità di sapere cosa c’è al di là della Barriera… ce lo farai sapere si? ^_^

  4. dietro la barriera ci sono, per esempio, le mie molteplici emozioni nel leggere questi tuuoi racconti legati a questa storia dei Raccoglitori.
    ti prego, quanto prima, PROSEGUI! :)

    ps ma la Barriera e’ Dio?

    bacisparsi
    cate

  5. BRAVO ANDREA, HAI SAPUTO CREARE IN UNA CITTA’ FUTURA E SURREALE UN PERSONAGGIO REALE PIENO D’ANGOSCE E DUBBI SULLA SUA ESISTENZA E SULL’AMBIENTE IN CUI VIVE.
    ATTENDO LA 3^ PARTE.
    APROFITTO ANCHE PER RISPONDERE AL TUO COMMENTO SUL MIO RACCONTO “STADIO CIBALI”:
    UNA TIPICA BEVANDA CATANESE E’ IL SELTZ E LIMONE, CON UN PIZZICO DI SALE O BICARBONATO. ANCHE CONSUMARE FETTINE DI CEDRO O DI LIMONE POLPOSO LEGGERMENTE SPALMATE CON SALE O BICARBONATO E’ UN’USANZA DELLA ZONA DI ACIREALE CHE E’ INFATTI CHIAMATA LA RIVIERA DEI LIMONI. COMUNQUE PROVALE E POI MI DARAI UN GIUDIZIO.

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