CuL dE SaC
Pubblicato da belriguardo il 17 novembre 2006
CUL DE SAC
L'amore è tutto ciò che si può ancora tradire.
Andrea Pazienza
Avevo poco più di un giorno
quando iniziai a rotolare.
La mia essenza vitrea, da poco
solidificatasi, aveva assunto un colore turchino brillante, facendomi risaltare
nella sacca di juta in cui mi avevano posto a riposare.
Accanto a me colori sbiaditi,
opache rotondità, nulla neppure minimamente in grado di offuscare la mia
brillantezza.
La luce fece un breve capolino
aprendo e chiudendo il coperchio su di me. A quel punto emisi un riflesso, di
proposito. Mostrai il profilo migliore di me catturando più luce possibile ed
emettendo un barbaglio folgorante che probabilmente colpì nel segno.
Non fu un’estrazione casuale,
come malelingue non esiteranno a dire.
Fu una scelta precisa, ne sono
sicura, fatta seguendo il richiamo che avevo emesso.
Due dita sottili mi afferrarono,
mi fecero viaggiare lungo il collo della sacca, e mi riposero in un’altra, più
calda e morbida, scossa da lievi sobbalzi, nella quale riposai per circa un’ora.
Poi la stessa mano mi rapì dalla
mia culla dondolante. Mi tenne un po’ a mezz’aria, donandomi per la prima volta
una vertigine, ed infine mi poggiò su quello che sarebbe diventato il mio campo
di battaglia, l’asfalto rovente-plumbeo-ruvido-dissestato sul quale i bambini
avevano disegnato la pista.
Il mio padrone, i cui tocchi mi
avrebbero lanciato attraverso quei tortuosi viaggi lucidi, tra anse di cemento
a gomito, dritto fino alla buca salvifica, era un bambino dagli occhi chiari e
dal ciuffo biondo. Tra le orbite sembrava avere due mie gemelle, che mi si
puntavano contro come ad incoraggiarmi, a fornirmi la forza per vincere.
Il suo indice mi carezzava, mi
lucidava, mi cincischiava addosso. Poi, all’improvviso, una stoccata brusca
della sua unghia sulla mia corazza vetrosa fece girare il mondo. Ondeggiando
all’interno di tornanti pieni di spigoli, sbalzata su puntuti sassolini o
escrescenze dell’asfalto irregolare, riuscii a fermare la mia corsa in
prossimità della buca scura.
Da allora ne è passato di tempo.
Presto, man mano che, nelle
competizioni che si succedevano, accumulavamo vittorie su vittorie, l’affiatamento
tra me ed il mio padrone divenne viscerale. La danza che facevo tra i suoi
polpastrelli accaldati, quando nervoso cercava conforto dalla mia intrinseca
freschezza, lo riportava lentamente alla calma. Era come se sulle mie pareti
lisce scivolassero le sue paure, ogni suo pensiero negativo.
Mi usava, sì, mi usava: come oggetto da mostrare per conquistare
ricciolute biondine. Fungevo da specchio per le allodole nei suoi primi
abbordaggi amorosi.
A me non dispiaceva. Al
contrario.
Lentamente tra me e lui si creò
una specie di simbiosi.
Prima di addormentarsi mi posava
sul suo comodino, adagiandomi con cura su un cuscino rosa approntato apposta per
me; non dimenticava mai di portarmi con sé, nella sua tasca destra, quasi come
un amuleto.
Il suo protocollo comportamentale
era il frutto di anni di esperimenti apotropaici.
Prima di ogni competizione
perdeva qualche minuto nei suoi riti scaramantici: tre giri intorno a se stesso
verso destra, un saltello, il segno della croce. Poi cadeva sul ginocchio
sinistro, e mi sistemava all’estremo destro della linea di partenza.
In gara appariva freddo e
calcolatore. Silenzioso.
Di fronte alle espressioni di
sorpresa che accompagnavano i suoi tocchi più spettacolari, opponeva
un’espressione di circostanza, per nulla a disagio.
Fui immediatamente colpita dal
talento naturale che dimostrava nei tiri ad effetto. Sembrava conoscerne perfettamente
i segreti, le infinite potenzialità. Le rotazioni che m’imponeva sfiorandomi
con quella parte del dito dove si incontrano unghia e pelle erano
millimetricamente precise: incontrando la parete, l’angolo che disegnavo si
allargava o si stringeva a suo piacimento, quel tanto che bastava per colpire
in pieno l’avversaria.
Rarissime volte i suoi colpi
uscivano troppo lunghi o troppo corti. La preparazione era scrupolosa, non
amava essere affrettato.
Nonostante aumentassero gli
spettatori delle nostre performance
la sua calma era il segno di una maturità rara e di una forza di volontà
davvero singolare in un ragazzo così giovane.
Prima mi girava intorno piegando
la testa come a misurare con lo sguardo le distanze. Sembrava perdersi in
complicati calcoli angolari, vagliava le varie possibilità concedendo a tutte
lo stesso identico tempo. Poi, dopo aver deciso, si piegava finalmente,
scaricando tutto il suo peso sul ginocchio sinistro. Da qui prendeva la mira
chiudendo l’occhio sinistro e inclinando leggermente il capo.
“Vai bella”, era la formula propiziatoria
che recitava prima di colpirmi e lanciarmi lungo le linee sperate. A quel punto
tutto per me cominciava a confondersi, entravo in una specie di trance dalla quale solo lentamente
riuscivo a riemergere.
(Si è portati a credere che
qualsiasi movimento rotatorio ci sia congeniale, perché essendo tonde è quasi
naturale pensarci mentre rotoliamo. Ma in realtà non è così. La nostra forma ci
è imposta da umani demiurghi, conoscitori superficiali della nostra vera
natura. Il nostro essere sferico ha come conseguenza immediata quella di
assicurarci una rotazione in qualsiasi senso, ma ciò comporta che raramente
accada di ruotare nel senso che a noi più aggrada. Non conoscendo la nostra
natura inoltre – e quindi ignorando persino la nostra capacità pensante – l’uomo
crede sia la stessa cosa colpirci davanti o dietro, perché per lui non abbiamo né
un davanti né un di dietro.
E così ci tocca adattarci.
Questo sforzo di adattamento è la
spiegazione alle inevitabile turbolenze che a volte la nostra traiettoria
subisce. Anche il mio padrone spesso infatti si è chiesto, dando voce ad un
pensiero, come un suo tiro, apparentemente riuscito perfetto, su una superficie
eccezionalmente liscia, all’improvviso deviasse fino a risultare sbagliato.
Nonostante il colpo fosse stato abbastanza netto, e avesse impresso la giusta
dose di forza, e avesse calcolato la giusta angolatura, il tiro si era
dimostrato, senza un’apparente ragione, di quel poco imperfetto da pregiudicare
inevitabilmente il risultato.
La spiegazione è tutta qui.
Non essendo stata posta nel
giusto verso, non partivo da dritta, di conseguenza, mio malgrado, il fastidio
di partire da una posizione scomoda ed il tentativo di aggiustarmi in itinere imprimeva alla mia traiettoria
quella leggera deviazione che causava il fallimento del tiro.
Non so se il mio padrone abbia
capito tutto questo. Ho notato con il tempo una cresciuta attenzione per il
modo in cui mi pone alla partenza. Ma capisco anche che per lui è difficile
individuare il mio giusto verso. Sono volubile ed imprevedibile, come l’asfalto,
d’altronde, su cui mi fanno viaggiare le sue dita).
Questa la mia storia più recente,
o meglio il prologo della storia che avevo intenzione di raccontarvi. Ora viene
il dunque.
Era da poco iniziata la nostra
stagione estiva, la decima che vivevo con il mio padrone e quindi anche la
decima della mia vita.
Per quell’anno avevamo deciso di
partecipare solo ad un numero piuttosto limitato di competizioni. Avendone
vinte gran parte negli anni precedenti, il mio padrone aveva deciso di
intervallare le gare ad esibizioni di abilità nelle quali stava cominciando a
cimentarsi (e che aveva capito essere anche più remunerative rispetto al denaro
che racimolava dai premi dei tornei).
Si trattava di piccoli
esperimenti di tiro da grandi distanze. Costruendo una pista di bicchieri di
plastica e di vetro, progettava di abbattere tutti i bicchieri di carta
utilizzando come sponda sia le mura che i bicchieri di vetro.
L’avevamo provato per giorni, poi,
dopo una serie poco incoraggiante di fallimenti, tutto aveva cominciato a
collimare. Il gioco riusciva, e l’effetto che ne derivava era garantito.
Questo era il clou del nostro
spettacolo.
Era entusiasmante vedere la gente
sorprendersi di fronte alle mie evoluzioni. Non riuscivano a credere che fossi
io a produrre quel caos di tintinnii e di accartocciamenti. Ed invece non
facevo altro che recitare la mia parte, proiettandomi a razzo su traiettorie
percorse innumerevoli volte e conosciute a menadito.
Ho sempre avuto la tendenza a
brillare. Non è scritta nella mia struttura molecolare la modestia e, d’altra
parte, quale fra di noi non aspira ad essere riconosciuta la più bella e la più
luccicante di tutte?
Io in quei momenti vivevo in
pieno questa sensazione. Sebbene conoscessi la tendenza degli uomini a dare
tutto il merito al loro simile, ad elogiare cioè l’abilità del mio padrone ed a
oscurare parzialmente il mio ruolo, nonostante ciò, sentirmi tutti gli occhi
puntati addosso era fonte di un piacere indescrivibile. Mi sentivo al centro
del mondo, un’incandescente meteora piovuta dal cielo per illuminare i loro
sogni.
Mai avrei pensato di cadere
repentinamente da quel piedistallo di egocentrismo che mi ero costruita a bella
posta e che le circostanze avevano contribuito a consolidare.
Quando quel ragazzo, scuro di
carnagione e con le ciglia talmente folte da formare una sorta di tettoia sullo
sguardo torvo e litigioso, uscì dalla folla e lanciò la sfida al mio padrone,
vidi per la prima volta sul suo volto disegnarsi un’espressione tra il sorpreso
e lo spaurito. Tra l’indice ed il pollice occhieggiava una perla amaranto dal
luccichio abbagliante.
Il mio padrone ovviamente non osò
tirarsi indietro. Esitò solo un attimo, poi accettò con impeto. Da sempre
amante delle sfide colse l’occasione al volo vedendo in essa l’ennesimo
pretesto per dimostrare al mondo intero – pubblico inesperto ed addetti ai
lavori – quanto il suo talento fosse incontestabile e puro.
Osservai a fondo la presenza
cristallina che mi venne affiancata sulla linea di partenza, mentre il mio
padrone si cimentava nella sua solita danza propiziatoria. Una sciabola di
rosso l’attraversava da parte a parte. Era lucida e curata. Ne avevo incontrate
di avversarie, ma mai di una bellezza così irraggiungibile. Cercai di
trattenere più luce possibile, ma non mi riuscì di superarne la lucentezza. Dovevo
batterla, umiliarla, a tutti i costi.
Ma il suo padrone non sembrava
molto d’accordo, anzi dall’attenzione che riservò alla sua fase preparatoria
conclusi che non fosse affatto un pivellino.
In questa parte di mondo le
partite sono organizzate in sette round con una durata massima per round di
cinque minuti, oltre la quale la partita viene considerata patta.
La partita cominciò: toccò per
prima a Moses ed il suo tiro portò la bella lungo una traiettoria tranquilla. Lui
si sentiva tranquillo, sicuro di sé. Era ancora la fase di studio, ossia la
fase in cui ciascuno degli avversari valuta quale sia l’approccio dell’altro. Per
questo provai una sorpresa ancora più grande quando il mio padrone tentò una
tattica veramente sorprendente, inedita fino a quel momento: il suo dito mi
colpì con una tale violenza che i miei sforzi non bastarono ad evitare il
peggio.
L’urto fu inevitabile. Cozzai la
parete vetrosa della mia rivale amaranto così forte che questa schizzò lontano,
contro il muro di fronte, mentre io rimanevo piantata sul mio asse, persa in
una rotazione vorticosa. Sembrò come se avesse voluto da subito farle capire
quel che l’aspettava.
L’uomo cigliato non la prese
molto bene. Corse dapprima a raccoglierla lontano, la guardò minuziosamente, millimetro
per millimetro, per vedere se c’erano scalfitture, abrasioni, poi sbottò, indirizzando
verso il mio padrone improperi disonorevoli.
Per un attimo ebbi paura che i
due potessero arrivare alle mani. Fronte contro fronte, il ragazzo continuò a
sputacchiargli contro offese irripetibili, che potevano far pensare, ad uno
spettatore dell’ultimo minuto, antichi rancori venuti a galla all’improvviso,
tutti in una volta.
Invece, almeno per quanto ne
sapevo, non si erano mai visti fino ad allora.
Il mio padrone stette a guardarlo
per tutto il tempo con un sorriso sghembo, ironico. Solo dopo qualche minuto intervennero
a dividerli. Gli organizzatori dovettero utilizzare i migliori argomenti
concilianti per riportare la calma, e convincerli a ricominciare daccapo.
Non saprò mai quali fossero le
reali intenzioni del mio padrone. E’ da tempo che mi chiedo se abbia voluto
solo provare una nuova tattica di gioco, per sfuggire alla noia di competizioni
oramai sempre uguali, o se invece abbia voluto innervosire il suo avversario,
scalfirne la sua imperturbabilità.
La spocchia che Moses aveva
dimostrato sfidandolo lo aveva talmente indignato da far esplodere una rabbia
che in lui non avevo mai vista. O forse aveva da subito intuito il suo
pericolo?
La partita ricominciò
dall’inizio. Accanto a me la mia avversaria era ora leggermente impolverata e
provata dal volo che le avevo imposto. Nel suo riflesso obliquo lessi “astio
nei miei confronti” “odio profondo” “disprezzo estremo”, e paventai una sua ritorsione.
D’improvviso il mio padrone
ritornò freddo e calcolatore. Il suo gesto aveva avuto il duplice risultato di
innervosire Moses e di tranquillizzarlo. Almeno così mi sembrò in quel momento.
Mi diede tocchi precisi, abili
effetti, che mi condussero facilmente alla vittoria dei primi due round. Mi
sentivo rassicurata, tranquilla. Era ordinaria amministrazione. Moses dal canto
suo collezionò in quei frangenti un numero di errori davvero banali. L’avevo
sopravvalutato, pensai. Sembrava che per noi fosse tutto in discesa.
Poi, inaspettatamente, la partita
prese una piega diversa.
Da una posizione scomoda,
nascosto dietro una duna d’asfalto e parzialmente impallato dalla buca, Moses
indovinò un tiro di una difficoltà elevatissima. Anche il mio padrone ne rimase
profondamente colpito. “Come aveva fatto quella biglia a disegnare una
traiettoria così curva?”, stava chiedendosi.
Ma nel round successivo la
sorpresa fu ancora più grande. Moses stavolta impresse alla sua rossa un
effetto tanto leggero e preciso, che questa dapprima scavalcò la duna ad una
velocità, poi cambiò passo, ripiegò sulla sinistra, strisciò un ostacolo, e …
incredibile … me la vidi piombare addosso, compiaciuta e irruente.
Era il pareggio. Chi l’avrebbe
detto. Da questo momento in poi cominciai a temere il peggio.
Moses divenne d’improvviso freddo
e controllato, che si fece difficile per il mio padrone trovare una posizione
in grado di metterlo in difficoltà.
Nel quinto round il mio padrone
mise in pratica ogni mossa del suo repertorio. Mi saggiò negli effetti più
ardui, mi lanciò lungo traiettorie apparentemente impossibili, tentò i rimbalzi
più arditi. Ma Moses resisteva. La sua biglia riusciva incredibilmente a
tenermi il passo, a scansare i miei assalti. Quando sembravo sul punto di
prenderla mi sfuggiva, gli incroci mancavano di un solo millimetro, un solo
dannato millimetro. Il quinto round si protrasse per un tempo incredibile. Fu
Moses a crollare per primo: sbagliò un tiro di una tale semplicità da farlo
arrossire di vergogna. Eravamo però esausti. La paura mi trasmetteva leggere
turbolenze che arrivavano quasi ad incrinare le mie pareti vetrose. Il mio
padrone mi aveva messo inoltre a dura prova, mi aveva toccato con una forza tale che immaginavo che anche la sua unghia
non se la passasse tanto bene. Era provato, lo sapevo bene.
Vincere sempre e facilmente può
rammollirti, di una misura talmente piccola ed impercettibile da emergere solo
quando la partita diventa combattuta ed estenuante.
E’ vero, eravamo in vantaggio, ma ora dovevamo
affrontare la voglia di rivalsa di Moses, il cui talento cominciava ad
apparirmi in tutta la sua magnificenza. Quella maledetta biglia, di quale anima
era fatta per lasciarmi così provata dagli scontri?
Il sesto round fu uno dei più
sfortunati che io abbia mai vissuto, un autentico capolavoro del caso. Anche
stavolta il mio padrone giocò tutte le sue carte, combatté a viso scoperto
capendo che doveva chiudere, doveva assolutamente riuscirci. Mettendo da parte
ogni virtuosismo, mi lanciò attraverso traiettorie sicure. Non fu colpa mia se
una pietruzza mi sbalzò di molto lontano dall’obiettivo che si era preposto.
Lui si sollevò strabiliato. Se la prese dapprima con me, mi dannò per il round
che gli avevo negato, poi, però, sembrò capire la mia innocenza. Sembrò. Fu un
autentico capolavoro della sfortuna, lo ripeto, vi prego di credermi. Anche se
lui non smise mai, probabilmente, dentro di sé, di incolparmi di quel fallimento.
Nel settimo ed ultimo round ci
giocammo quindi la partita. Stavolta il rischio che si correva era davvero
grande.
Il mio padrone appariva sicuro di
sé e controllato, non sembrava aver smarrito la sua proverbiale calma;
nonostante ciò lo conoscevo troppo bene per non leggere nei suoi occhi quel
disagio, nuovo e al quale non era abituato, che provava nel non essere riuscito,
stavolta, a battere il suo avversario prima di arrivare all’ultimo round. Non
era mai capitato fino allora.
Intanto Moses aveva ripreso
l’atteggiamento urtante dell’inizio. Aveva lanciato un tiro floscio, che aveva
fatto fermare la sua rossa a metà strada, qualche centimetro prima della
leggera curva che divideva il percorso.
Non mi piaceva Moses, e la paura
di finire nelle sue mani mi trasmetteva uno strano infinitesimale tremolio su
tutto il mio guscio vitreo. Sebbene si dimostrasse piuttosto attento
all’incolumità ed alla lucidità della sua compagna, c’era nel suo modo di
toccarla, di lanciarla e riposizionarla un’energica trasandatezza, una legnosa
grossolanità che io non avrei potuto sopportare. D’altra parte nutrivo anche
una piccola paura che potesse verificarsi la cosa contraria, ossia che potesse
sostanziarsi l’ipotesi di vittoria del mio padrone.
Vincere la perla adamantina poteva
significare per me qualcosa di peggio della sconfitta. La sua superba
rotondità. La sua fluida scorrevolezza. Quell’anima dura, granitica, inscalfibile,
rappresentavano per me una minaccia. Nulla mi diceva che, un giorno, non
sarebbe stata preferita a me, nulla mi garantiva che una volta vinta sarebbe
rimasta a marcire nel cimitero delle sconfitte, ossia sul fondo della sacca di
juta.
Fino ad allora il pensiero non
aveva mai sfiorato il mio padrone. D’altronde non l’avevo mai deluso e,
scaramantico com’era, mai avrebbe abbandonato una come me, in grado di
regalargli una serie così lunga di vittorie. Ma, si sa, le cose cambiano per
tutti e non vedo perché per me non debba essere lo stesso. Questa
concatenazione farraginosa di pensieri (siete sorpresi dalle enorme mole di
pensieri che sono in grado di produrre, ammettetelo, mai lo avreste immaginato)
mi esortava a trovare al più presto una soluzione.
Quando nel terzo round Moses
aveva indovinato il tiro della vita,
il mio padrone ne era rimasto così profondamente colpito che da quel momento
notai una maggiore attenzione nei confronti della rossa. Non sono paranoica se
affermo che cominciava a mettere radici nella sua mente (ed ora toccava a me
non far germogliare questa radice) l’idea di averne trovato una alla mia
altezza, in grado di sostituirmi alla grande e di proiettarlo ancora più
lontano, laddove io non ero stata in grado di portarlo. Almeno così la pensavo
in quel momento. Avevo pochissimo tempo per inventarmi qualcosa e riponevo
l’unica speranza nel fatto che la partita potesse prolungarsi oltre il tempo
limite.
L’inizio del settimo round mi
faceva ben sperare. Con il suo atteggiamento provocatorio Moses cercava di
tirarla per le lunghe, tanto che pensai ad un certo punto che anche nelle sue
intenzioni ci fosse quello di finirla
patta.
Seguiva pedissequamente le mosse
del mio padrone, approntando opportune ma cautelative contromosse, senza mai
scoprirsi più di tanto, ma piuttosto facendo un gioco di rimessa.
Quando nel quinto round aveva
sbagliato un colpo a dir poco semplicissimo, imprimendo una forza non necessaria
quanto sarebbe bastato un semplice accompagnamento, questa sua sufficienza gli
aveva fatto fare davanti alla folla accorsa numerosa la figura del pivello,
dell’ennesima vittima sacrificale.
Nel giro però di pochi minuti tutti
avevano dovuto ricredersi. Il ragazzo dalla peluria stranamente localizzata
aveva condotto il campione, di cui si parlava come dell’imbattuto, fino
all’ultimo minuto dell’ultimo round.
La sensazione di trovarsi di
fronte ad un evento raro aveva reso più frizzante l’atmosfera, ed il pubblico –
composto ora anche da famiglie che si concentravano intorno a quegli stand
soprattutto col sopraggiungere della sera, quando l’aria cominciava a
rinfrescarsi e le bancarelle si riempivano di leccornie e stuzzicherie –
assisteva sì composto, ma col viso proteso al fine di cogliere dell’evento il
maggior numero di particolari possibile.
Ad un tratto l’orologio in cima al
palo a strisce, in fondo allo spiazzo, diede un rintocco: si entrava
nell’ultimo minuto della gara, c’era da muoversi, da affrettare la mossa.
I secondi rapidamente cominciarono
a scorrere sotto la grande lancetta, emettendo un leggero ticchettio ansiogeno.
Solo in quel momento il mio
padrone capì quanto si fosse lasciato distrarre. Non aveva fatto caso al
trascorrere del tempo, ed ora correva il rischio di pareggiarla, quella
maledetta partita, pareggiare ossia perdere, perché pareggiare per lui
equivaleva a perdere, vale a dire ad interrompere la striscia di vittorie
nette, incontestabili, durata fino ad allora.
Dopo aver conquistato la buca da
qualche tempo, avevo provato in un numero imprecisato di tentativi (sette od
otto) a colpire la maledetta. Questa
però era stata, fino ad allora, abile nel nascondersi dietro gli ostacoli che
puntellavano la pista. Nel suo estenuante giochino, Moses dimostrava una lunga
esperienza e sagacia, tendeva ad estenuare l’avversario facendo leva sulla
tensione nervosa e cercando così di indurlo in errore.
Il mio padrone cominciò allora a
giocare il tutto per tutto. M’imprimeva un effetto fortissimo, che sarebbe
stato in grado di disegnare le curve a gomito che lui voleva, se solo… se
solo non avessi fatto quello che feci.
Non potevo rischiare. Non potevo.
Per una volta, per l’unica volta, remai contro.
Sì, lo ammetto, tentai più volte
di cambiare la traiettoria.
Ecco, a questo punto della storia
non posso che provare una sensazione terribile, un senso d’angoscia profonda
che mi confonde i pensieri.
Mi toccò decidere in pochi attimi.
Ed in pochi attimi la paura mi
fece scegliere.
Per la prima volta giocai non con
lui, ma contro di lui.
Non mi si giudichi
frettolosamente. Gli ero troppo legata da non pagare il prezzo del tradimento
pur di rimanergli lì, accanto, per sempre.
Quando mancavano esattamente
dieci secondi, mentre dalla sua fronte ormai madida di sudore gocciolavano
pesanti gocce sull’asfalto rovente, ed un vocio sottile aleggiava sulla folla
ed ampliava la sensazione di attesa, il mio padrone mi lanciò in quello che
avrei scoperto sarebbe stato il mio ultimo viaggio.
La rossa era parzialmente
nascosta da un ostacolo a forma di piramide e dalla parte finale della buca.
Non c’era abbastanza tempo per conquistare in un primo tempo la buca e poi
cozzarla vincendo. Allora dapprima disegnai una parabola che mi condusse fino a
lambire un lato della base quadrata della piramide. Da qui, spinta dall’effetto,
puntai dritto fino allo spigolo della buca, sul cui bordo il mio padrone
puntava a farmi scorrere in equilibrio precario come un acrobata. Infine avrei
dovuto abbandonare quel filo di rasoio in un punto preciso, e così cozzare la
mia avversaria.
Ma le cose non andarono così.
Non so bene dove trovai le
energie per uno sforzo così intenso. Abbandonai il bordo della buca qualche
millimetro prima, in una misura piccola ma sufficiente per evitare l’incontro,
mentre il gong dell’orologio sanciva la fine della partita ed il disonorevole,
agli occhi del mio padrone, risultato di patta.
Ero salva.
Le cose si erano svolte come
avevo voluto e nulla e soprattutto nessuna si era frapposta fra me ed il mio
padrone.
Seguirono una stretta di mano e
qualche scambio di battute con il ragazzo cigliato. Per lui quel giorno era da
rilegare fra gli indimenticabili, perché era stato capace di recuperare in una
partita nella quale partiva sfavorito. Per lui contava la mezza vittoria che
aveva ottenuto.
Sulla coscienza del mio padrone
invece pesava, di una misura che non avevo immaginato potesse essere così
grande, il gravame della mezza sconfitta.
Quando tornammo a casa
immediatamente mi accorsi che qualcosa si era incrinato. Avevo esultato troppo
presto. Non ero affatto salva. Al contrario. Sembrava essersi accorto delle mie
intenzioni. Sembrava vedere davanti a sé, come una presenza corporea e burrosa,
lo spettro del mio tradimento.
Da allora il mio mondo è buio e
ruvido. Dal fondo del sacco di juta lancio, ogni qualvolta una luce si sporge,
il mio barbaglio azzurrognolo.
Ma nessuno ha ancora risposto al
mio richiamo.
Sarà che non ho più lo smalto di
un tempo, o sarà il destino chissà.
A volte penso al mio
padrone-compagno-amico.
Penso che forse mi merito tutto
questo.
Ma sono anche consapevole di
averlo tradito per amore. E questo basta a confortarmi, almeno per un po’.
Spesso mi perdo nel pensiero
rifocillante che un giorno saranno di nuovo le sue dita a trarmi d’impaccio, a
salvarmi da questo limbo opaco nel quale sono cascata…
Fine
17 novembre 2006 alle 11:19 am
Caspita Stefano! E’ spettacolare…. grazie per avercela fatta leggere. Alla fine mi stavo quasi commuovendo (e sì che farmi commuovere per una biglia non è facile^_^).
18 novembre 2006 alle 9:23 am
Mi hai fatto ripensare ai momenti trascorsi insieme alle mie biglie, francesi, americane, italiane…e sai quelle di sughero le giapponesi, e poi c’erano le vedove quelle di un colore unico. Che ricordi. Dovrei conservarne ancora una scatola intera! Bel racocnto, particolare e ben scritto. L’ho letto tutto di un fiato. Complimenti.
20 novembre 2006 alle 5:53 pm
Certo, tutto può essere…
La vita è una visione,,,,,,
Sei molto bravo…..
22 novembre 2006 alle 2:55 am
complimenti! originale, avvincente, non ho perso una parola, viaggiavo con la biglia anch’io.
23 novembre 2006 alle 11:39 am
…
23 novembre 2006 alle 1:17 pm
Davvero particolare ed emozionate, un viaggio unico da una prospettiva meravigliosa!
30 novembre 2006 alle 7:36 pm
Forse… potresti fare meglio…
12 dicembre 2006 alle 11:13 am
Mi e’ piaciuto molto questo viaggio attraverso la biglia e alla fine l’ho capita..anche io come lei avrai probabilmente agito nello stesso modo..
29 gennaio 2007 alle 4:56 pm
é bello! oltre ad essere originale la biglia che racconta la sua storia tradire per amore è un tema interessante. grazie
15 giugno 2007 alle 10:24 am
Bella e originale. Quando indirizzerai il tuo dono verso la descrizione, non più solo del sentimento, ma del senso nascosto della realtà… allora sì la tua intenzione scorrerà di fianco al tuo talento, per “centrare” la buca dell’Abisso. Hai i miei più sentiti auguri a che il tuo intento sappia riconoscere il verso giusto del prossimo tiro.
3 ottobre 2007 alle 5:54 pm
idea originale, a tratti scritto veramente bene, a tratti ti dilunghi troppo, secondo me. Io lo rivedrei, riscrivendolo:
- un po’ più conciso
- senza la parola “biglia”
Nel complesso però un bel racconto!!
19 ottobre 2007 alle 10:59 am
signor belriguardo non mi delude mai!
ma anche io avrei evitato la parola biglia, il racconto lo trovo originale, coerente al suo stile.
5 novembre 2007 alle 3:05 pm
Ho apportato le modifiche suggerite. Grazie a tutti. Sinceramente.
31 dicembre 2007 alle 12:21 pm
Potete trovare Cul de Sac e altri racconti a questa pagina:
http://www.lulu.com/content/1746111
Che ne pensate?
Saluti.