Oh Felia!

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Scendono le palpebre sulle iridi brune, spegnendo le scintille dorate che illuminano le sfumature d’ambra del suo sguardo.

Il dolore mi oscura la vista e ripenso alla nostra vita insieme.

Dai giochi della pubertà ai turbamenti confusi dell’adolescenza abbiamo condiviso tutto, siamo cresciuti e abbiamo sofferto le improvvise mancanze che la morte getta sulla strada dei giovani come antipasti.

Le vacanze da soli, ormai grandi, lei ed io, sulle montagne dell’Appennino d’estate e lungo i litorali deserti d’inverno. Capirsi con un sospiro, rimproverarsi con uno sguardo, la nostra comunicazione profonda non aveva quasi bisogno di parole o di gesti.

Ci eravamo sorretti a vicenda mi dico, ma so che lei era più forte, so che lei mi ha dato di più di quanto abbia mai saputo darle io, con la mia precarietà e insicurezza di maschio so che cercavo una realizzazione al di fuori del nostro rapporto, mentre lei, come uno scoglio, restava al posto che si era scelta, al mio fianco e tutto il suo mondo ruotava intorno a me al mio ritorno, quotidiano eppure sempre nuovo.

La dolcezza dei nostri amplessi prolungati, eppure rari, si staglia nel ricordo e ancora mi coinvolge dalla corteccia all’ipotalamo fino al plesso pubico, in un inturgidimento che mi sembra fuori luogo.

Quando, finite le superiori, pur di andarmene dalla casa dei miei e potere, finalmente, vivere appieno il nostro amore, la nostra intimità, cominciai a fare il visurista al catasto, ancora non sapevo quanto poco sarebbe durato il nostro amore. Eppure avrei dovuto immaginarlo, avevo tutti gli elementi per saperlo, no, certo non il giorno preciso, ma prevedere che difficilmente avremmo potuto godere di noi almeno un lustro…

Non ci pensai allora e ancora oggi mi sembra incongruo, tutti i preparativi, i debiti, il mutuo, arredare la casa per trovarsela vuota di lei dopo appena due anni, avevo immaginato un amore eterno, senza immaginare che dopo le i nonni, l’antipasto, la morte ci avrebbe servito il piatto forte: la sua morte.

Il mio dolore riverbera, come martellate in un magazzino vuoto, sale come una scossa lungo le mani e le braccia, dal martello al cervello, ma ritorna, amplificato dall’eco delle pareti, la coscienza del suo dolore nel lasciarmi, mi colpisce e mi stordisce più dentro, oltre la corteccia logica fino all’ipotalamo profondo, sento il cuore mancare battiti, volersi fermare, ma ancora una volta la sua forza, la sua fiducia in me, mi fanno muovere dei passi sulla via del ricordo e non la voglio deludere.

Di certo la religione che qui va per la maggiore, almeno a parole, non ci dà speranze di una vita eterna in comune, eppure io so che lei è viva in me, per quello che mi ha dato sarà sempre così.

Come un fulmine, mi colpisce e mi stronca l’approssimarsi della separazione dal suo corpo, non la posso sopportare, qualcosa devo fare, così prendo il coltellino per disossare il prosciutto e, con delicatezza, apro il suo torace e il suo ventre, dal collo all’ano intorno al quale faccio un giro e, attento a non inciderle estraggo le sue viscere: l’intestino, lo stomaco, l’utero, i polmoni, i reni e il fegato, le ripongo con attenzione in due sacchi neri uno nell’altro e mi riposo, mi lavo e mi bevo una coca, ecco se fumassi credo che mi fermerei a fumare una sigaretta, nei film fanno così.

Ora il suo corpo, sul tavolo della cucina non ha quasi più niente a che vedere con lei, potrei distaccarmene più facilmente, ma il pensare che possa finire in pasto ai vermi, che i lombrichi e i cagnotti pasteggino con le sua natiche sode, e forti nel sostenere i miei assalti, mi costringe a riprendere il coltello e a porzionarla con delicatezza e rispetto.

I freezer è pieno e non so cosa fare della testa, avrei dovuto pensarci prima, i suoi occhi chiusi, in quello che appare come un sonno sereno, la fronte distesa e la sua lingua che appena un poco si scorge tra le labbra, come a volte le succedeva dopo un pasto abbondante, mi si rivoltano contro e urlano improperi contro la mia insipienza, come ho potuto essere così improvvido!

Ma non è lei che mi rimprovera, come al solito sono io che quando mi accorgo dei miei errori mi odio.

Ho trovato una soluzione: mescolo con attenzione della calce viva in un secchio con l’acqua, ci immergo poi la sua testa per intero, è sommersa, l’ho carezzata un ultima volta con le mani che bruciano per gli schizzi di calce. Resterà nella cantina fresca.

Forse, diventare adulti, maturare, vuole dire farsi duri, conservare i ricordi della gioventù nella calce fino a consumarli e farne pietra, ho ventitré anni e me ne sento cento sulle spalle dopo questo pomeriggio da macellaio.

Mi lavo ed esco a cena.

Ma i ristoranti mi sembrano tutti troppo pieni e rumorosi o vuoti e squallidi, l’idea di cenare da solo guardando il piatto o spiando gli altri mi appare come un ergastolo.

Torno a casa e apro il freezer, le costine che ho messo per ultime sono ancora tenere, non hanno ancora fatto in tempo a congelare, ne tiro fuori una porzione e la metto in pentola a pressione, con crauti in scatola e cipolla, con vino e dadini di pancetta affumicata.

Dopo meno di tre quarti d’ora suona il contaminuti, in cucina aleggia un profumo che mi commuove, apro la pentola con attenzione, aspirando il profumo come se fosse il suo alito caldo.

Ho aperto la bottiglia di Morellino di Scansano che avevo comprato per quando avessimo avuto ospiti, e dopo cena, sorseggiando l’ultimo bicchiere, ho ripensato a quando Felia ed io scoprimmo il sesso.

Avevo dodici anni avevo trovato in soffitta nella casa dei nonni, dove andavamo sempre a passare due settimane in agosto, la tendina canadese di papà da ragazzo e tanto ho implorato che mi ci lasciassero dormire, finalmente, la sera prima del mio compleanno, nella calda serata di quel agosto, col babbo, piantai la tenda nel giardino dei nonni, facemmo i rosticini e poi, sotto lo sguardo preoccupato e incerto di mia madre, andai a dormire, solo.

Sentivo l’assiolo, come un metronomo, lento, scandire la notte, le foglie dei pioppi, nella calda brezza dell’estate, come un ruscello vivace che ruzzola tra i sassi, mi addormentai ascoltando i misteriosi rumori della notte.

Mi svegliò la sensazione di bagnato sul ventre, le mutande mi schiacciavano il pene, turgido, al mio fianco Felia si sporse e cominciò a leccarmi la pancia, abbassai l’elastico e la lasciai fare. Rimasi, confuso, tra il sonno e la veglia, assaporando la delicatezza del suo tocco e il suo tepore, finché i primi uccelli annunciarono l’alba, poi mi addormentai sereno.

L’avevo conosciuta esattamente due anni prima.

Era il mio decimo compleanno, domenica, e la trovai, al mattino di quel 16 agosto, in un cestino, in cucina,.

Avevo chiesto tante volte un pappagallo ai miei genitori, volevo insegnargli a parlare e stupire gli amici, speravo in un pappagallo grigio o almeno in un amazzone dalla fronte gialla, al limite avrei accettato anche un parrocchetto o un pappagallino ondulato, avrei vinto la sua paura con la pazienza e in poco tempo avrebbe mangiato dalla mia mano, avrebbe potuto stare libero nella mia stanza, invece si misero d’accordo con i nonni e mi presero una cucciola di mastino napoletano dall’allevamento del paese accanto, Ofelia di Roccabruna c’era scritto sul suo pedigree, ma la chiamammo sempre Felia.

Ci innamorammo subito, credo, ma non ce ne rendemmo conto che poi, col tempo.

 

 

fine

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