non c’e’ altro modo. e non c’e’ mai stato.

Una raccolta www.storydrawer.org

AMARCORD

Pubblicato da caterina il 3 febbraio 2009

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Mi chiedo se mi giudicherete pedante dal momento che intendo ritornare sulla storia di Nikolajewka.

E’ come quando si parte da una parola mai sentita prima, a tal punto che ti domandi come sia possibile che una persona di cultura media, che legge i giornali, ascolta la radio, guarda quel minimo di televisione che si concede, vive calata nella realtà, in ogni suo giorno non si sia mai, dico mai, imbattuta prima in questo vocabolo.

Impossibile.

Nessuno è mai entrato nella traiettoria al momento giusto per pronunciare quella parola e far scattare la giusta curiosità.

Buio completo e poi la clamorosa scoperta.

Prima il niente e adesso la possibilità di iniziare una nuova ricerca e aggiungere un ennesimo tassello a tutto ciò che affolla i cassetti della mente.

Non so, prendiamo un nome a caso: tacosardones.

Un nome di fantasia che invento qui per qui.

Lo cerco in internet, certa che non si aprirà un bel niente e invece…appare un mondo nuovo.

Il mondo di tacosardones.

Ci resto malissimo, mi sento una sprovveduta, arrivata fin qui senza conoscere la sua esistenza.

Ma come ho fatto a sopravvivere?

Se è già nella rete, significa che moti altri invece lo davano per scontato. Sono come chi arriva trafelato e in ritardo ad una cena.

Stranita chiedo qua e la’ “ma voi lo conoscete da quanto?”

Possibile che io non ne sapessi niente?

Subito golosissima, apro e chiudo dieci finestre alla volta della minuziosa ricerca su Google e leggo il più grosso…

Una bambina affamata in una gastronomia.

Mangio con le mani, butto giù l’impossibile.

Poi, dopo aver metabolizzato, mi affino nella ricerca, scopro le sue virtù e le sue debolezze, i suoi tic, le abitudini e infine cerco la sua mail per scrivergli cosa penso di tutta la situazione che lui stesso ha impiantato.

La cosa più importante adesso, e che annulla tutto il resto, è che lui, il tacosardones della faccenda, sappia che io so, l’ho scoperto e desidero fortemente entrare in relazione con lui.

La funzione deve diventare biunivoca.

La passione è scoppiata.

La scintilla ha dato fuoco alle polveri.

Il processo è irreversibile.

Tacosardones è il punto di non ritorno.

Nell’attimo in cui devo aver colto di sfuggita questo termine, per tutto ciò che lo riguarda inizia una nuova era e la parola continua a vivere, anzi, nasce nuovamente in me.

Una catena cui , presuppongo, sottostia qualsiasi concetto, iniziativa, libro, film, idea nella nostra epoca globalizzata.

Così è accaduto per Nikolajewka.

A scuola non arrivavamo mai fin li’.

All’asilo non si studia.

Alle Elementari arranchi fino alla Prima Guerra Mondiale, sapendo si e no come ti chiami.

Alle Medie sarebbe ora di approfondire il Fascismo ma è Giugno ormai e i tigli emanano un profumo irresistibile e tu non vedi l’ora di farti delle belle scorribande sugli schettini in attesa di partire per le vacanze.

Cosa vuoi che conti sapere della Repubblica di Salò quando Riccione ti aspetta?

Mica mi serve conoscere chi era Edda Ciano e la sua tragedia per ordinare una piadina. Dai, siamo seri!

Il Piave mormora così piano che non lo senti quasi più.

Al Liceo lo spauracchio della Maturità e hai deciso di portare Storia, pensa un po’ ma sei certo al cento per cento che non ti chiederanno mai la Seconda Guerra Mondiale.

Non è nei programmi. Mi sconvolge ancora adesso questa strana e tacita regola scolastica ma tant’è…

E arriviamo nella vita vera quando una sera scopri il piacere di leggere un libro che non ti è più imposto da nessuno e per il quale non dovrai fare una relazione o qualcuno ti interrogherà .

Lì inizia la magia.

Ti riappacifichi con Manzoni e Shakespeare e Dante… non lo odii più.

Jane Austen diventa tua amica e conosci a memoria le pagine di Orgoglio e Pregiudizio quando Elisabeth Bennet torna sui suoi passi, mette da parte il pregiudizio e si dichiara a Mr Darcy che a sua volta ha ricacciato indietro il suo orgoglio.

I maschi riaprono il De Bello Gallico e te ne raccontano la bellezza dei particolari con la luce negli occhi mentre tu pensi che siamo proprio diversi, uomini e donne. Non ti salterebbe mai in mente di divertirti nel leggere la descrizione completa di un campo militare, dei materiali per costruire le tende, di cosa mangiavano Cesare e i suoi prima della battaglia.

Ti ridiventa simpatico Dostojeski e la sua frase “la bellezza salverà il mondo” fa ormai parte del tuo parlato.

Vai in un brodo di giuggiole con le citazioni di Seneca che un tuo vicino di ombrellone sta leggendo e ti fa ri-conoscere e ti rendi conto di che gentona fosse questa qui.

Tutto un sistema che avevi abbandonato nella foga dei vent’anni quando c’è dell’altro da fare.

Ma a quaranta il comodino diventa il luogo più affollato della casa.

E in tutto questo, in una giornata qualsiasi, qualcuno ti chiede se sai dov’è Nikolajewka e…il resto si dipana nella piccola storia di cui sopra.

Dal niente al tutto.

E’ “l’effetto tacosardones”.

Divenni improvvisamente avida di questo fatto storico e di tutto il suo contorno, al punto che adesso uno dei miei desideri di viaggio sarebbe di andarci, là in Russia, in questo villaggio dove mi si dice non ci sia quasi niente che ricordi la battaglia e il sangue.

Solo una grossa spianata dove, mi auguro e spero, non sorgerà nessun ipermercato o centro commerciale con annesso distributore di benzina ed enorme parcheggio coperto non custodito.

Nessuna emme giallo fosforescente del Sig. Macdonald e nessuna grossa “C” di cinecity.

Oddio, no, davvero, ve ne prego.

Là sono successe cose che non si devono dimenticare o coprire con gli schiamazzi dei bambini folgorati sulla via del Toys Center e gli scontrini del supermercato gettati dal finestrino.

Qualche sabato fa, non contenta di aver assistito ad una cerimonia dedicata alla memoria della battaglia che avvenne tra il 17 e il 26 gennaio del 1943, mi spinsi a Brescia per un’altra commemorazione.

Il grosso degli Alpini tornati da quel massacro era di queste zone e quindi qui è molto sentito il ricordo.

Se mi avessero detto del freddo e dell’umidità e del fatto che il tutto si sarebbe svolto all’aperto, sono quasi creta che avrei declinato. Va bene i morti e tutto, però il freddo è freddo. Poi mi sono ricordata di come sia facile parlare senza rendersi conto delle conseguenze e fui proprio io a dire la volta prima “con tutto il gelo che hanno patito quei poveri Alpini, non sarà questo meno due gradi a spaventarci!”

E adesso non potevo rimangiarmi la parola.

Io sono nata a Brescia, all’ospedale civile. Poi non ci ho abitato ma sulla carta d’identità quel “nata a BS” mi accompagnerà per sempre ed è una certezza della mia vita.

Quindi ero contenta di tornarci.

Respiro aria di casa anche solo a sfiorare la città attraverso l’autostrada. Vedo la torre azzurra dell’inceneritore e mi dico “pota, so a Bresa, so a casa”

Certo, quel mattino l’appuntamento, anzi, “l’ammassamento” delle truppe era al cimitero e…signori miei!

Che meraviglia delle meraviglie il Vantiniano!

E’ tutto bianco, moltissime tombe a terra, ghiaia biancogrigia ovunque, viali maestosi che partono dal cuore della città e alberi secolari, curatissimi, potati da maestri del verde.

Non mi sfiorava il pensiero che fosse un luogo di morte. Quella mattina ho considerato che morire fa parte della vita, ineluttabilmente. Tanto valeva non farsi prendere da strane malinconie.

La vita e la morte, il tempo che passa e se lo riempi bene, arrivi soddisfatto di te.

Punto. Non mi spinsi oltre.

Al passaggio del labaro pieno zeppo di tutte le medaglie assegnate alle varie divisioni che combatterono questa battaglia dimenticata e ne uscirono vittoriose, mi sono portata la mano destra sul cuore. Il saluto militare mi sembrava esagerato e non mi competeva ma un segno della mia affezione, sì, quello glielo dovevo.

Sono una che la mano sul cuore la mette ad ogni inno d’Italia.

Trovo sia un gesto amicale.

Molte parole di commozione anche questa volta, cappelli laceri sulle teste dei reduci, questa allegra combricola di eroi viventi, talmente abituati a quello che hanno patito sessantasei anni fa, che li’ nello spiazzo ai piedi del Monte della Maddalena a fine Gennaio di uno degli inverni più gelidi che io ricordi, non avevano nemmeno i guanti!

Uno di loro mi ha guardata con due occhi azzurri e vivacissimi e in maniera irriverente ma con l’evidente intento di “tagliare l’aria” che si era fatta pesante, mi disse “signorina, abbiamo avuto solo tanto c… a tornare”.

E nel mio cuore li ho catalogati come i miei nuovi amici, i miei nuovi, vecchissimi maestri da prendere ad esempio nelle mie lotte, non augurandomi mai una Nikolajewka nella mia esistenza, mai una situazione senza scampo in cui dover disperatamente tentare il tutto per tutto.

Potrei non averlo il c…, io.

Ciò che ha reso indimenticabile questa giornata è il dopo.

Un inaspettato pomeriggio di ricordi altrui che però mi sono goduta anch’io. Quello non era il mio giorno, non solo mio, almeno e nemmeno degli Alpini.

Finito il tutto, mio papà mi propose un pranzetto.

Ma bene! Sempre disponibile all’assaggio e soprattutto felice di un’occasione per poter parlare un po’ con lui. Uno dei miei pensieri più crudi e persistenti, che mi avvelenano la vita, è considerare che niente dura per sempre e che arriverà il momento in cui loro due non ci saranno per me.

Dio che tristezza infinita. Basta, Chiusa la parentesi.

Passiamo davanti agli “Spedali Civili” e improvvisamente mi ricordo tutto!

Di quando avevo quasi sei anni e intabarrata in un cappello di pelo coi pompon, mano nella mano del papà, mazzo di rose alto quasi come me stretto nell’altro braccio, varcai la soglia di mattoni rossi dell’edificio e pensai “qui si sono dimenticati la O”.

Andavo a riabbracciare la mamma senza più il pancione e a conoscere mio fratello, nato anche lui lì da pochi giorni.

Credo di essere ricorsa a quell’evento miliardi di volte.

Un fratello ti cambia la vita costantemente. E’ una parte di te contemporanea e se tutto va come deve andare, è la tua famiglia che ti cammina vicino anche quando diventi vecchio. La memoria di tutto è depositata nei fratelli.

Dopo pranzo e dopo una ennesima e gradita lezione di politica e Storia che ho ascoltato con grandissimo piacere, mio papà fa finta di smarrirsi per le vie, adducendo la colpa a “tutte queste nuove rotonde che hanno stravolto questa città”.

“Come dappertutto, papi”.

“E ma qui mi pare più del normale, caspita. Non so dove siamo e sì che la conosco bene Brescia. Ci ho vissuto e studiato, vuoi che non mi ricordi?”

Mah…sarà. Non posso giudicare perché da quel ventuno di Febbraio di molti anni fa, credo di non esserci mai tornata nella Leonessa d’Italia.

Sbuffo in silenzio perché mi dà l’impressione che stiamo girando in tondo.

In fondo basta seguire le frecce, orco cane. Non è difficile uscire dal centro, dai! Segui A4 e arrivi all’autostrada, bene o male.

Poi mi sfiora un dubbio.

Che diventa certezza quando il papà mi dice ” ma guarda il liceo Calini!

Io ho studiato qui”.

E gli si velano gli occhi.

Ecco, ho capito dove voleva andare a parare. Il suo desiderio era tornare a vedere, abbandonarsi per un attimo ai suoi ricordi. E scopro che la sua scuola è rimasta quasi intatta. Si ricordava delle case liberty che sorgevano lì vicino. C’erano ancora tutte oltre ai palazzi costruiti dopo.

Ho fatto il gioco silenzioso di indovinare se il tal edificio era antecendete o nato dopo quegli anni, mettendo alla prova le mie nozioni di architettura.

Su fino al Castello…è ufficiale che la stiamo prendendo decisamente larga.

Da qui mi si è presentata una Brescia in grande stile, tetti rossi, nessun edificio postmoderno a rovinarne l’orizzonte, la Loggia, tristemente famosa e bellissima ad amalgamare il tutto con le sue fattezze palladiane.

Riscendiamo e sorrido all’esclamazione “e qui c’e’l’Arnaldo”.

“Ah dai…un tuo amico?”

“Ma no, la statua di questo qui che non ho mai capito cosa facesse.”

Aguzzo la vista ma non ci arrivo fino alla targa che ne spiega la storia e comunque pare sia uno dei simboli della città.

Altro tacosardones da cercare su Google appena arrivo a casa.

La visita va esaurendosi. Io sono un navigatorie solitario a bordo dell’auto, nel senso che non ho potere.

Chi guida sta decidendo luoghi e passaggi e io lascio fare perché sarebbe mancare di rispetto a questo uomo che sta ripercorrendo un tratto della sua vita quando io non ero nemmeno un’idea mentre lui c’era, studiava, lontano da casa, in un triste collegio, con pochissimi soldi e una fame cronica.

In fin dei conti i suoi passi faticosi hanno permesso a me di essere qui, oggi.

“Qui era tutta campagna. Non c’era niente. “

“Ma sei sicuro?”

“Eh si’ che sono sicuro. La zia Rita mi diceva di portare al pascolo le galline e i conigli la domenica mattina dopo la messa. Poi al pomeriggio andavo al cinema dentro l’oratorio.”

“Abitavo qui, al numero trentotto”.

La casa c’è ancora. E abitata, anche.

Ma Dio che stilettate al cuore a e alla nostalgia…come si fa a sopportare questi bagni nel passato?

E sono sicura che mio papà ha programmato tutto fin dal mattino e per questo lo ringrazio, comprendendo quartiere dopo quartiere il suo intento.

C’è tanta di quell’armonia dentro la nostra macchina che non vorrei scendere.

Stiamo qui, giriamo in tondo per Brescia, raccontami come si fa ad essere forti e coraggiosi.

Mi interessa, davvero. Non sono annoiata. A casa non ho niente da fare, per lo meno niente che si avvicini anche solo minimamente all’interesse e alla magia che provo adesso.

Cosi’ parlando, finiamo nel quartiere di San Faustino.

Ah, il Santo Protettore dei singles…delle zitelle…come me!

Senza volere, sono tornata all’ovile, praticamente.

Che sia un lapsus freudiano?

Qui abita quello scrittore, conduttore radiofonico, attore che mi piace da impazzire!

Quando alla radio parla di questa parte della città, mi sembra un luogo immaginario, inarrivabile, un angolo di paradiso ed invece è un affascinante quartiere strappato negli anni al degrado, dove ambirei ad avere anche solo un monolocale, di fronte alla chiesa del Patrono della città e mio Santo preferito, a questo punto.

E quello dev’essere il panificio dei suoi dove anche lui ha lavorato per anni, cui accenna sempre con affetto.

Senza volerlo ho collocato un altro tacosardones, del quale fino a poco tempo fa non conoscevo l’esistenza e poi di colpo, un mattino lo sento recitare una poesia nel suo seguitissimo programma e mi si apre un nuovo mondo…scattano le ricerche, gli approfondimenti, un indirizzo mail, funzione biunivoca e bla bla bla.

Ho il desiderio di vederlo sbucare da qualche vicolo di questa elegante città della quale non avevo realizzato il grandissimo potere di riportarmi alle origini, con dolcezza e un pizzico di amarezza e di nuovo al presente, come solo le cose che contano davvero sanno fare.

Poiché era sabato, ho giocato il numero 38.

E’ regolarmente uscito.

 

 

5 Commenti a “AMARCORD”

  1. emmaus2007 dice:

    Allora. Per prima cosa, ho cercato “Tacosardones” e non mi è venuto fuori niente…
    Come hai fatto a trovarlo?
    Per il tuo scritto, devo dire che è bello. Forse non al livello del tuo precedente riguardo gli alpini in Russia, però molto piacevole di lettura. Soprattutto, con pochi periodi troppo lunghi (brava) e senza errori di distrazione o battitura. Nel complesso, siccome avevo dato 5 stelline a “Il panno”, questo si dovrà accontentare di 4. Meritatissime, però!
    p.s. splendido il rapporto che hai con tuo padre!
    Ciao!

  2. mattiekian dice:

    anch’io ho cercato su google tacosardones e non ho trovato niente…ma credo che quello sia solo uno spunto, una sorta di serendipity, giusto?
    Mi piace molto il modo in cui scrivi, il testo scorre senza difficoltà, complimenti
    PS se vuoi che ti si apra un nuovo mondo prova a cercare Porzus…

  3. caterina dice:

    ciao miei intelligentissimi e sensibilissimi amici di penna!
    :)
    e grazie, come sempre, per la vostra prresenza :)
    si’, Mattie.
    tacosadones e’ proprio cosi’ :)
    mi sono svegliata una mattina e mi si e’ proposto alla mente questo nome.
    allora ho pensato che forse, dormendo spesso con la tele accesa, era stato un messaggio passato nel dormiveglia.
    poi l’ho cercato in internet e nn c’era.
    allora l’ho considerato un piccolo regalo della mia fantasia!

    adesso entro nel mondo di Porzus e ti dico…
    :)

  4. adb dice:

    GRADEVOLE, COME AL SOLITO IL RACCONTO SULLA TUA VISITA A BRESCIA, NON RAGGIUNGI I TONI LIRICI DEL TUO PRECEDENTE REPORTAGE “IL PANNO”, MA OTTIENI SEMPRE UN BELL’EFFETTO.
    MI HAI FATTO ARROVELLARE UN BEL PO’ NEL CERCARE IL SIGNIFICATO DI TACOSARDONES, CHE NON SIGNIFICA NULLA, NEL CONTEMPO LEGGENDO IL COMMENTO DI MATTIEKIAN, SONO ANDATO A CERCARE “PORZUS”, ED HO APPROFONDITO UNA TRISTE PAGINA DELLA RESISTENZA ITALIANA CHE A MALAPENA CONOSCEVO. INOLTRE HO APPRESO IL SIGNIFICATO DELLA PAROLA
    “SERENDIPITY”. BRAVA CATERINA E BRAVA MATTIEKIAN!

  5. caterina dice:

    caro ADB,
    sei davero tale.
    immagino nn avrai molto tempo, come tutti ma aena puoi, entri, leggi e commenti, creando questo filo Catania-Verona che gia’ atre volte ho apprezzato molto.
    grazie pr il tuo commento.
    diro’ che appositamente non ho vluto mettere al centro i fatti di Russia, questa volta.
    i protagonisti erano altri, mio papa’, i miei affetti, le mie radici e questa citta’ oltre alle mie speranze e Nikolaiewka e’ stata solo un pretesto, seppur doloroso.
    la penna alpina ha corso a lato.
    anch’io ho visitato Porzus e mi rendo conto di quante cose la Storia tiene ancora per se’.
    spero sia sempre piu’ generosa e ci dica la verita’.

    tantibaci
    cate

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