non c’e’ altro modo. e non c’e’ mai stato.

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Yat Vashem

Pubblicato da caterina il 4 febbraio 2010

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Spendo un pomeriggio della mia vita al Museo dello Yat Vashem, che tutto il mondo chiama OLOCAUSTO.
Lo sapevo dall’inizio del mio pellegrinaggio che era in programma e non ero tranquilla.
In fondo al cuore avevo sempre questo scoglio da superare perche’, credetemi, di questo si e’ trattato.
Arrivamo sorridenti all’entrata di questo luogo deputato a testimoniare quanto accaduto.

La collina su cui sorge e’ chiamata IL GIARDINO DEI GIUSTI e fu celebre la frase di non mi ricordo più chi ” anche loro avranno un posto, un giorno”. e cosi’ e’ stato.
Da lontano, uscendo dalla città si vede un vagone di un treno sospeso nel vuoto a significare tutto quello che ognuno vuol attribuire a questo segno della collina.
Manifesto una certa spavalderia per mascherare la mia paura.

Non voglio entrare, non vorrei ma sono qui, non posso tirarmi indietro e devo affrontare le ombre del passato, di questo devo rendermi conto.
Un tizio ci dice di spegnere tutti i cellulari e per questo ci sarà della visita solo una foto strappata alla fine del percorso e sono felice in un certo senso, di averla scattata e alla fine vi dirò il perché.

Ci raccomandano di sputare chewingum e quant’altro stiamo ruminando e ci dicono di prestare silenzio.

Si entra in un luogo sacro.
Scopro subito che non c’è bisogno di ricordarsi di non parlare. Dopo qualche metro vado via via ammutolendo, a fianco di mio papa’ con il quale ho voluto percorrere questo tunnel lunghissimo, di cemento armato, appena inaugurato, tutto grigio lucido e fatto a capanna. ai lati si diramano le sale a tema, per esempio il ghetto di Varsavia, la deportazione degli zingari, gli aiuti internazionali, in un percorso cronologico da seguire.

Ci sono molte foto, moltissime. alcune di una crudezza spaventosa tanto sono fatte bene.

Ma nn si vedono crudeltà, non ce n’è bisogno. si sa cosa e’ successo.
Foto di tutto, di case bombardate, di povera gente in fila pronta per chissà che cosa. di treni straripanti di braccia e gambe, di cartoline (qualcuno scriveva a casa ” saluti da…” ), di oggetti, di suppellettili, di divise da deportato, di giacigli, di gavette… tutto il marcio e lo schifo che i nazisti seppero produrre, e’ documentato li’, come in altri musei del mondo anche se i musei moderni hanno questa impronta basata sopratutto su immagini e filmati. e trovo che sia giusto. ognuno trae le sue conclusioni e vive le sue emozioni.
Ad un certo punto mi imbatto in due o tre piattini in miniatura, giocattolini che qualche bambina e’ riuscita a portare la’ dentro, all’inferno.
Come dimenticare quel piattino con i fiorellini?
li’ per sempre.
In una stanza stanno proiettando un documentario e vedo Mussolini che da’ la mano a Hitler.
Mi vergogno.
ma sto li’ e guardo.
Voglio vedere fino in fondo e mi chiedo come non accorgersi allora, di quanto stava accadendo?
Cosa e’ passato nella mente di quest’uomo, cosa sperava di portare a casa in un’alleanza cosi’?
Entro in un’altra delle camere che si dipanano ai lati del lungo tunnel e forse qui colgo il significato del tutto, la chiave, lo snodo e anche il messaggio che gli Israeliani hanno voluto dare insieme a quanti patirono per l’Olocausto .
Le pareti sono tutte nere, anche per terra nero. E appese ai muri ci sono le foto a grandezza naturale delle facce di tutti quelli che parteciparono al massacro, con sotto il nome, il cognome e la mansione.
Basta. solo cosi’, musi di gentaglia, ben illuminati.

Impossibile non vederli bene.
E dico a mio papa’: “pensa se qualche nipote di questi qui viene a vedere, e ce ne saranno, perché non e’ successo secoli fa. che vergogna avere li’ incastonato nel nero un farabutto che e’ tuo parente”.
Questa e’ la piu’ grande risposta al mondo che passera’ di li’.
I fautori immortalati per sempre , senza possibilità di rivedere nulla.
Senza parole, senza commento, senza niente, solo occhi da scrutare per vedere se dentro non ci potesse essere una vena di umanità, qualcosa che li riportasse dalla parte giusta.
Li’ PER SEMPRE e ci ho visto anche una sorta di perdono in questa vendetta silenziosa di chi e’ infine ancora qui.
Ho tutto in subbuglio e penso non solo alla persecuzione degli Ebrei ma anche agli Italiani, a tutti gli Italiani che combatterono contro altri Italiani, penso alle foibe, penso ai campi di concentramento in Jugoslavia, penso ai diritti calpestati, penso a quanti vivono e hanno vissuto in circostanze di sopravvivenza per colpa di altri, penso e voglio pensare a tutto l’orrore che ogni tanto una parte di umanita’ produce.
Mi rifiuto di circoscrivere questa tragedia ai soli Ebrei.
la’ dentro c’e’ la sofferenza del mondo e hanno detto bene quando li hanno definiti I GIUSTI.

Nel museo di Gerusalemme c’e’ il ricordo di tutti i giusti della terra.
L’ultima stanza e’ stata ripresa dalle televisioni di tutto il mondo, carica com’e’ di significati.
c’e’ un pozzo e in fondo dell’acqua che riflette una cupola con le foto, moltissime, di volti sorridenti di molti di coloro che furono internati, torturati, uccisi.
le pareti della stanza sono ricoperte dai classici contenitori di documenti per archivi, con dentro i nomi dei morti nell’Olocausto. I muri sono quasi tutti occupati dai raccoglitori.
Ognuno di noi qui ha interpretato come gli ha suggerito il cuore.
Per quanto mi riguarda, mi e’ venuto spontaneo dire ” piu’ giu’ ci avete buttati, piu’ in alto siamo saliti”.
Usciamo ma prima mio papa’ scrive sul libro delle presenze ” sono stato qui con mia figlia e l’unica cosa che mi risolleva e’ sapere che non ci sono persone della mia famiglia appese ai muri e delle quali mi debba vergognare”. qui il mio cuore nn ce l’ha piu’ fatta ed e’ straripato in un pianto incontenibile.

Il papa’ aveva saputo cogliere il mio unico commento e lo ha ritenuto l’unica firma possibile da lasciare su queste pagine.
Andiamo verso il Museo dei Bambini. entrando c’e’ un’immagine, un calco in gesso scelto tra ottocento lavori mandati da altrettanti studi fotografici, di architettura, di scultura e quant’altro che avevano partecipato ad una sorta di concorso indetto dai responsabili del Museo. Il volto di questo bambino parla da se’ e anche qui ognuno attribuira’ il pensiero che gli verra’ spontaneo.
dentro, il buio. si e’ costretti ad aggrapparsi ad un corrimano mentre si trascinano i piedi a tentoni sul pavimento e si gira tutto intorno e un disco ripete all’infinito nome, cognome e provenienza di TUTTI i bambini periti a opera dei nazisti.
nel buio solo tante lucine accese, tipo quelle che usiamo a Natale, che brillano ovunque, grazie anche ad un gioco di specchi.
un firmamento di stelle vere che nonostante tutto il dolore e lo strazio patito, mi ha suggerito che la grande lezione e’ quella di perdonare anche senza dimenticare, perche’ altrimenti non si va da nessuna parte.

La mia unica foto rubata allo Yat Vashem in quel mio unico pomeriggio dedicato alla memoria, era di quel bambino.

2 Commenti a “Yat Vashem”

  1. andrea dice:

    Ciao Caterina,

    bello come i tuoi altri racconti di viaggio. Onesto fino ad essere quasi spietato. Toccante.

  2. caterina dice:

    sei sempre un tesoro, Andrea, davvero.

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