La gabbia – Parte 2
Pubblicato da diego il 20 novembre 2007
Trascorse la notte sonnecchiando, anche se la sete
lo tenne sveglio per la maggior parte del tempo. Giunse l’alba, con le sue luci
rosa, e Loris si tirò su dal materasso. Era stanco morto, e asciutto.
Sembrava che ogni goccia di liquido gli fosse stata succhiata via dal corpo. Le
pareti della gola gli si erano appiccicate l’una contro l’altra, e gli facevano
un male dannato, eppure l’unica cosa a cui riusciva istericamente a pensare non
era la sete, ma solo come diavolo avrebbe fatto ad uscire di lì. Non aveva
nessun modo di comunicare con l’esterno. Era quello il problema. Doveva trovare
qualcuno che venisse a tirarlo fuori, ma non c’era modo di farglielo sapere.
Ormai aveva perso la speranza che qualcuno passasse nel corridoio per caso, e
comunque con la gola in quelle condizioni non sarebbe riuscito ad urlare
nemmeno se gli avessero acceso un fuoco sotto i piedi.
Si andò a sedere di fianco alla gabbia e si afferrò
le ginocchia.
Fatti venire un’idea, Loris, alla svelta. Fatti
venire un’idea e che sia quella buona.
Forse non era quella che avrebbe definito un’ottima
idea, ma era l’unica che avesse avuto.
Si rigirò il foglietto in mano, contemplandolo con
aria critica. Era il foglio con il messaggio che gli aveva lasciato Valeria.
Sul retro aveva scritto un altro messaggio. Con il suo sangue.
Era giunto a quella decisione quando si convinse di
non voler passare nemmeno un minuto di più in quell’appartamento. Ancora un
minuto lì dentro e sarebbe uscito di cervello.
Si era inciso l’indice con lo spunzone acuminato
che sporgeva da una delle sbarrette della gabbia. Il canarino aveva osservato
l’operazione con stolida noncuranza. Aveva funzionato anche meglio del previsto.
Si era spremuto il dito come la cartuccia di una stilografica scadente.
Sul foglio di carta, a larghe lettere malferme,
erano scritte le parole:
AIUTO – CHIUSO IN APPART 12 F – AIUTO
Non avrebbe forse passato un esame calligrafico, ma
le parole erano comprensibili. C’era solo da sperare che il destinatario non
pensasse ad uno scherzo. O che leggesse solo il messaggio di Valeria per poi
gettarlo via con un sorriso ironico. La sola idea gli dava i brividi.
Doveva solo aspettare che passasse qualcuno, farsi
notare e lanciargli il foglietto.
Se non altro quello stratagemma gli aveva fatto
ritrovare un po’ di fiducia. Non era gran cosa cui aggrapparsi (non una gran
cosa cui affidare la propria vita, in ogni caso), ma era pur sempre qualcosa. E
una volta che fosse uscito di lì sarebbe corso subito dalla signora Bei per
fracassarle sulla testa tutte quelle sue fenomenali porte di nuova concezione.
Trascorse un tempo interminabile, in cui non vide
che tre o quattro auto sfrecciare lungo la strada che passava sotto il palazzo,
ma niente che facesse al caso suo. Continuava ad abbracciare il muretto di
cemento del balcone come un naufrago riverso sul relitto di una nave, cercando
di tenere a bada la nausea e le vertigini.
Quel lato del palazzo dava verso sud, così non
appena il sole si levò ad un’altezza sufficiente, prese a martellargli negli
occhi.
Loris era determinato a resistere, a costo di
prendersi un’insolazione. Sarebbe crollato morto li dov’era, ma non avrebbe
ceduto.
Però era una desolata mattina dei primi di agosto,
e la strada continuava a rimanere deserta.
Quanto tempo era passato? Non era più in grado di
stabilirlo. Teneva le palpebre socchiuse per alleviare le fitte lancinanti che
quel sole immenso gli provocava, ma doveva pur tenere gli occhi aperti se
voleva controllare la strada. Le labbra gli si erano seccate e screpolate come
strisce di carne salata. Ogni volta che respirava gli pareva di sentire un
lungo sibilo, e immaginava fosse per via della gola bruciata. La sete era
totale, pazzesca. Sembrava sovrastare come un vento nero i suoi ultimi barlumi
di ragione.
E ancora non vedeva nessuno. Nessuno.
Loris non aveva mai avuto miraggi in vita sua, ma
quando vide quella piccola figura avvicinarsi lungo la strada, ebbe la netta
impressione che finalmente fosse arrivato il suo turno.
Era stanco morto, bruciato e sfibrato. La pelle del
viso gli si era scottata e tirava come fosse sul punto di spaccarsi. Gli
sembrava anche che la sete fosse diminuita, e la cosa invece di quietarlo lo
mise in apprensione. Tuttavia, quando vide quella ragazza svoltare l’angolo e
pedalare felice con i capelli al vento, l’impressione che ebbe fu proprio
quella di un miraggio. La vista gli tremava, e strizzò gli occhi per metterla a
fuoco. Si alzò in piedi e cominciò ad agitare le braccia. Gridò, ma la voce gli
s’incagliava a metà crociera tra i polmoni e la bocca, nelle secche della gola.
Il panico che potesse non vederlo offuscò per un momento anche le vertigini per
quel vuoto pauroso che si apriva sotto di lui.
Era troppo in alto. Troppo in alto perché potesse
vederlo. Perdio, non…
Fu un attimo.
La ragazza sollevò gli occhi. La vide sorridere,
splendida creatura. I capelli lunghi le svolazzavano intorno a quel viso
sorridente di quindicenne.
Lo aveva visto. Loris agitò le braccia
furiosamente.
-Fermati- rantolò. -Oh, Dio, fermati…
La ragazza agitò una manina bianca, poi se la portò
alle labbra e gli spedì un bacio. In un attimo se n’era già andata, felice e
sorridente. Silenziosa com’era arrivata. Con un ultimo gesto disperato, Loris
lanciò il foglietto appallottolato verso di lei, ma si era già voltata. Lo vide
cascare in mezzo alla strada, perso.
Crollò a sedere sul balcone, e trovò ancora qualche
grammo di forza per piangere.
Si era addormentato profondamente, tanto che quando
si svegliò pensò, senza tema di sbagliare, di essere svenuto. Forse aveva avuto
un piccolo collasso dovuto alla debolezza e all’emozione.
Il cielo nero era drappeggiato da migliaia di
minuscole stelle. Era di nuovo sera (o notte?), e nonostante la brezza, un
braccio e metà del viso gli bruciavano selvaggiamente. Doveva essere rimasto
sotto il sole a picco per tutto il pomeriggio. Si trascinò nell’appartamento a
quattro zampe. Non sentiva per niente la necessità di alzarsi in piedi.
Si accartocciò di fianco alla gabbia.
Due giorni, pensò. Sono qui dentro da due giorni
Cominciò a pensare di essersi tramutato in un
fantasma. Possibile che nessuno si fosse ancora accorto della sua assenza? Era
possibile?
Si, era possibile. Due giorni passati li dentro, in
quel vuoto assoluto, gli parevano lunghi come il tempo dal giorno della
creazione, ma cos’erano fuori? Quante cose lui stesso aveva rimandato al giorno
successivo?
Quella ragazza… aveva davvero creduto che volesse
salutarla? Dov’era in quel momento? A casa? Si certo. Magari in giro con i suoi
amici, a bere… bere tutto quello che voleva. Acqua fresca. Bibite ghiacciate.
Granite alla frutta. Bere. Bere. Bere qualsiasi cosa.
Alzò la testa verso il canarino. Nella penombra
vedeva a malapena la sua piccola gobba sul fondo della gabbia. Non si era
ancora mosso. Sembrava che stesse covando.
-Che ne dici, tu?- mormorò. -Mi sa che non arrivo a
domani sera.
Ma il canarino non parlava, non cinguettava.
Restava immobile.
Non gli aveva nemmeno dato un nome, pensò Loris
prima di addormentarsi.
Così passò anche la terza notte. Loris non capì mai
come, ma passò, e fece addirittura un sogno. Stava di nuovo guardando la gabbia
del canarino, solo che adesso i canarini erano due, appollaiati sul fondo a
fronteggiarsi come minuscoli idoli pagani. Uno dei due canarini era un Loris in
miniatura. Un Loris assorto e triste, alto quattro dita, che fissava il vuoto
davanti a se, in silenzio. Come un canarino.
Si svegliò quando il sole era già alto, ma non fu
proprio un risveglio, quanto un lungo e doloroso parto. Si guardò intorno,
mentre la sete si risvegliava anch’essa, più furiosa che mai. Era come avere un
nugolo di vespe impazzite nella testa, nella gola e nei polmoni. Aveva sentito
parlare di animali che impazzivano per mancanza d’acqua, ma non si era mai reso
conto di quanto quel modo di dire potesse essere vero.
Si, si poteva davvero impazzire per la sete.
Stava impazzendo?
Il canarino era sempre nella sua gabbia, ma
quell’immagine di lui stesso, seduto in quella gabbia, continuava a tornargli
alla mente.
Aprì la bocca, ma non era più in grado di parlare.
Provò ancora, ma la sua gola non riusciva a fare di meglio che emettere delle
specie di fischi. Non erano tanto diversi dai richiami di un uccellino.
Si lasciò crollare sul pavimento e rimase lì, ad
osservare il soffitto bianco e pulito di casa sua.
No… io… non sono…questo…
Perché quel sogno continuava a tormentarlo? Perché
non riusciva a levarselo dalla testa?
Si bloccò, quando quel pensiero titanico finalmente
venne a galla, come una città sottomarina che emerge dalle acque dopo milioni
di anni di oblio.
Rivide se stesso e Valeria che entravano
nell’appartamento. Rivide mentre crollavano sul pavimento dell’ingresso, come
bambini goffi. Ridevano e si baciavano.
La mano di Loris si allungò verso la gabbia, senza
che fosse la sua volontà a comandarla. Ci stava andando da sola. Perché Loris
era troppo impegnato a vedere
quando sollevava Valeria da terra e la portava in
soggiorno, dove c’era il materasso. Allora non aveva potuto notarlo, ma adesso,
con gli occhi della mente, vedeva quella maledetta porta restare aperta.
L’avevano dimenticata aperta. Non socchiusa, ma completamente spalancata.
Le sue dita sfioravano le sbarre. Lisce e bianche.
Lunghe e affusolate. Loris non le sentiva, perché vedeva
quando si spogliavano in preda alla frenesia
dell’amore, tutti quei vestiti che volavano in giro.
Fece scorrere un’unghia sulle sbarre, che mandarono
piccoli rintocchi sordi. Ma Loris non era lì a sentirli. Lui stava vedendo
Valeria che si svegliava presto, mentre lui ancora
dormiva. Valeria che si rivestiva, scriveva il suo biglietto e usciva dalla
porta, chiudendosela alle spalle. Quella porta che era rimasta sempre aperta,
per tutta la notte.
Fece saltare il gancio dello sportellino. Il canarino
drizzò la testa e scrollò le piume arruffate. Ma Loris
rivedeva i suoi pantaloni atterrare sulla gabbia.
Adesso poteva sentire quel piccolo tonfo ovattato. Metallo che scivola su altro
metallo.
-Via- disse la sua bocca, mentre agitava debolmente
la mano. -Via, sei libero.
Il canarino sbatté le ali e uscì dalla gabbia.
Volteggiò in soggiorno e Loris lo guardò assaporare il gusto inebriante della
libertà. Poi uscì sul balcone e sparì. Ma Loris era ancora da un’altra parte, a
guardare una cosa che in quel mondo non aveva mai visto. Ma la vedeva adesso,
la vedeva benissimo. Vedeva
il saltello di un canarino, che si spostava nella
sua gabbia di una spanna, e con quel salto incatenava la libertà di Loris alla
sua.
O tutti o nessuno, amico.
Forse era quello che voleva dirgli quando lo
fissava con i suoi occhietti neri.
Loris aveva sempre avuto l’impressione che stesse
covando qualcosa. Forse solo un’idea, forse qualcosa di reale. Non aveva mai
pensato che facesse entrambe le cose.
Guardò a lungo quella piccola chiave scintillante
sul fondo della gabbia, pensando a tutto e non pensando a niente.
20 novembre 2007 alle 1:29 pm
Gran bel racconto! Quasi alla fine ci sono arrivato a dove potesse essere andata la chiave. Complimenti! Scrivi davvero bene! Alla prossima!
20 novembre 2007 alle 2:27 pm
Complimenti Diego, mi hai lasciato col fiato sospeso fino alla fine. Certo forse la cosa sarebbe stata piu’ interessante senza lieto fine, ma anche cosi’ mi e’ piaciuto molto. La scena della ragazza che saluta e manda un bacio e’ spassosissima
20 novembre 2007 alle 2:29 pm
Ciao Diego, anche io non posso che farti i miei complimenti. Direi che mi è piaciuo tutto di questo racconto, anche il titolo e la sua doppia lettura: la gabbia del canarino e l’uomo in gabbia. Comè quel detto? La casa nasconde, non ruba!!! Bravissimo. ^_^
20 novembre 2007 alle 6:00 pm
Mi è piaciuto soprattutto il senso di “giustizia” che aleggia sul finale del racconto: non sarebbe stato mica bello se il canarino fosse rimasto nuovamente in gabbia da solo! E comunque neanche io mi aspettavo il lieto fine!!!