Ciccio, spazzato via dalla tempesta
Pubblicato da diego il 10 dicembre 2007
A Montaforte il 25 dicembre era festa per due motivi: innanzitutto perché il tempo, a quanto si ricordava, era sempre stato clemente, e secondo perché era Natale.
Ciccio abitava fuori mano, lungo la strada che portava in cima alla montagna, e la mattina del 25 era in giardino e stava bardando il pino d’oro e d’argento. Due giorni addietro il vento aveva soffiato, teso e duro come un vecchio irascibile, e le nuvole grigie avevano elargito una spolverata di neve che si era posata sui cumuli cascati una settimana prima, ma Ciccio, come gli altri di Montaforte, era sicuro che a Natale ci sarebbe stato il sole.
Aveva uno di quei festoni d’oro avvolto intorno al collo, ma uno schiaffo di vento venne su dalla valle come prendendo la rincorsa su uno scivolo, e glielo fece andare negli occhi. Ciccio guardò il cielo. Lì sopra sembrava una gettata di cemento fresco, ma oltre le cime aguzze dei picchi di San Lorenzo era già nero e minaccioso.
-Oh, bè- disse. -Questa poi…
Provò a gettare il festone sul pino, e il vento se lo portò via, facendolo volare nel cielo.
Le raffiche rinforzarono.
Le palline che Ciccio aveva agganciato ai rami del pino presero a tintinnare. Una di esse volò via, poi una seconda e infine tutte le altre, come uccelletti colti da un’irresistibile richiamo migratorio. Qualcuna finì contro il muro della casa e si spaccò. Infine il pino e tutti gli alberi nei dintorni, quelli del giardino e anche quelli della pineta che vestiva il fianco del monte, s‘inchinarono in un gran rumore di fasciame. Il vento adesso suonava addirittura la campana della chiesa di Montaforte, che si sentiva un chilometro più in basso, smarrita nel gran soffiare e nel cigolio dei legni che cominciavano a cedere.
Ciccio, mezzo accecato dai turbini di neve soffiata via dai cumuli, decise di abbandonare gli addobbi e rientrare in casa.
Ci sarà un altro momento per finire il lavoro, pensava, le bufere non durano in eterno. Oggi è Natale.
Ma l’oscurità divorò il cielo a gran bocconi. Camminando goffo e ingobbito, Ciccio percorse tutto il vialetto che portava all’ingresso.
Aprì la porta e la maniglia gli scivolò, strappata via dal vento che ormai era una fiera impazzita. Entrò nel corridoio, portandosi dietro una folata di nevischio. Provò a richiudere la porta, ma sbattendo contro il muro si era incastrata. Il vento della bufera entrò quindi insieme a lui, si aggirò per casa, e Ciccio sentì tutti i vetri che tremavano. Lasciò andare la porta e corse nella sala grande, da dove sentiva provenire dei sinistri scricchiolii.
Oh!
Non aveva certo chiuso le imposte, e perché mai? Era Natale, e chi avrebbe pensato a… quello?
Attraversò la sala di corsa, inciampò nel tavolino e volò in avanti, con la mano tesa verso la manovella delle tapparelle. Ebbe un’ultima, fugace vista della sua sala, cara vecchia quotidiana sala, l’abete ornato di lucine intermittenti che accudiva una montagnola di pacchetti e pacchettini, la mensola sul camino dov’erano le foto dei suoi tre cani e del figlio morto, la poltrona di stoffa verde con la coperta, in cui sedeva tutte le sere a leggere un libro (e su cui si addormentava, con gli occhiali che gli pendevano dalla punta del naso), e poi la vetrina con la minuscola collezione di minerali, e lo scaffale con l’enciclopedia e i libri di storia, e la vecchia televisione Seleco in un angolo, con l’antenna quadrata posata sopra.
Venne il buio.
Il cielo era tutto nero, ogni luce cancellata dal mondo. La grande vetrata della sala esplose. Un miliardo di schegge brillanti grandi come spilli piovvero addosso a Ciccio, che invocava l’aiuto dei santi coprendosi la testa con le braccia.
Attraverso le dita divaricate, vide il piccolo abete scosso, abbattuto e svestito delle sue lucine, perse in uno sfrenato ballo aereo nei pressi del lampadario. Lo stesso lampadario ondeggiò una volta, due, tre, tintinnando e scricchiolando prima di staccarsi e piombare in mezzo alla sala, sfondando il tavolino di vetro con lo scroscio di un gigantesco acquario rovesciato. Ciccio vide i pacchetti che erano sotto l’albero, tutti i regali che con tanta cura aveva preparato, prendere il volo sotto il suo naso, uno in fila all’altro, portati via da una raffica di vento, e uscire dalla finestra panoramica.
COSA?
Ma in uno di quei pacchetti (lo aveva riconosciuto dal fiocco rosso e verde) c’era anche un ferro da stiro, il suo regalo per la signora Antonina, che saliva dal paese tre volte la settimana per rigovernargli la casa.
Non può volare! Non può…
Poteva eccome. Eccolo là, seguire la fila degli altri pacchetti, lesto come se avesse timore di essere lasciato indietro. Ciccio li guardò a bocca aperta, sparire succhiati via in quel cielo nero. Era solo un’illusione, o la pancia gravida delle nuvole sembrava formare i lineamenti di un viso accigliato?
Il televisore Seleco terminò la sua onorata carriera sul pavimento, ma non cadde semplicemente dal mobiletto. Quella belva senziente e furiosa che era il vento lo sollevò di un buon metro da terra e poi lo scagliò con forza inumana, tanto che Ciccio, che pure si trovava dall’altra parte della sala, si ritrovò gli scarponi inondati di schegge. La poltrona scricchiolò e strisciò, infine anch’essa cedette. Volò contro la parete di destra, poi contro quella di sinistra e un bracciolo si staccò. Ciccio si abbassò riparandosi con le mani, ma la poltrona, dopo tre passi di danza, prese anch’essa la via per il cielo. Ciccio sentì qualcosa di molto simile ad una mano gigantesca che gli si serrava intorno, e finalmente cacciò un grido e cercò di scappare.
Corse via dalla sua sala che ormai era una bolgia dantesca in cui volavano quadri e fotografie, mobili, cassetti, bicchieri e frammenti di vetro dai bordi affilati, cuscini, un tappeto afghano che sbatacchiava le ali come un uccello scuro in procinto di spiccare il volo, vasi inseguiti da mazzi di fiori secchi, tutti i pezzi ordinati della sua vita ballavano e giravano, e roteavano mulinando in giro per la sala, in giro per quello che della sala restava, prima di essere risucchiati tra le nubi oscure, aspirati da quel volto tetro.
Ciccio si aggrappò alla porticina che dava sulle scale per la cantina, ma il vento spingeva in senso contrario, ed era come se la porta fosse stata inchiodata. In alto, da qualche parte, la bufera faceva saltare via le tegole dal tetto, schiantandole chissà dove. Poi la tempesta cambiò direzione, si accanì sul divano, strappandone via le fodere, e Ciccio ne approfittò per spalancare la porta e schizzare giù lungo la scalinata buia.
Ma non c’era salvezza, per quanto corresse, per quanto fondo fosse il riparo. Ciccio arrivò davanti alla porta della cantina e si accucciò a terra, nascondendo la testa nell’incavo del braccio.
Ci fu un boato tremendo quando la tempesta sradicò il tetto e lo gettò in mezzo al bosco. Tutto volava verso il cielo nero, anche i mobili più pesanti, lavandini e vasca da bagno, mattoni, pezzi di intonaco, il camino, pezzi interi di muro, uno dopo l’altro.
Senza più la sua casa sulla testa, nascosto come un lombrico in fondo alla galleria, Ciccio si sentì strattonare da una mano invisibile, fortissima. La mano lo sollevò e lo portò in alto. Schiuse gli occhi e vide che della sua casa non era rimasto che qualche brandello di muro, ma distante, tanto piccino che faticava a riconoscerlo. E lui andava su, su dove l’aria era più fredda, e il cielo una pozza d‘inchiostro.
10 dicembre 2007 alle 4:21 pm
Oh, era così carino, così vivida questa storia… finisce troppo presto!!
Mi vien voglia di chiederti “e poi, e poi?? cosa succede???”
Bravissimo, ottima narrazione!
10 dicembre 2007 alle 4:43 pm
Sono triste per Ciccio:(… Avvicente storia! Complimenti !
10 dicembre 2007 alle 7:23 pm
Originale e avvincente come al solito. Come al solito, ci lasci con il dubbio che ci sia qualcosa sotto che non traspare, che quello che cerchi di dirci non è esattamente quello che hai raccontato
10 dicembre 2007 alle 7:31 pm
Povero Ciccio… proprio spazzato via dalla tempesta… dai, scrivi un seguito in cui ritorna cavalcando un ciclone… Bella storia, ben scritta
11 dicembre 2007 alle 12:26 pm
Povero Ciccio…ma come va avanti mi piacerebbe che ci fosse dell’altro sotto, magari Ciccio si salva o era solo un sogno o la metafora della sua vita…non so…mi dispiace che finisca così.
11 dicembre 2007 alle 12:57 pm
Niente da fare mi dispiace. Finisce proprio così. La vita distrutta e succhiata via. Improvvisamente, totalmente, definitivamente. Se non è chiaro il messaggio metaforico del racconto me ne scuso e mi assumo la responsabilità, perchè è evidente che si tratta di una mia mancanza. Se invece vi intristite per lui e per la sua sorte ingiusta mi rallegro. Vuol dire che la storia ha raggiunto il suo scopo. Grazie a tutti per la lettura, come sempre, e per gli interessanti commenti!