Homerus
Pubblicato da maelstrom il 5 ottobre 2007
collana
R A C C O N T I B R E V I
mimmo burzachechi
HOMERUS
copyright
© mimmo burzachechi, 2007
printed in italy
III EDIZIONE
si ringraziano:
i venerandi nonni
scomparsi per
avermi illustrato con le loro vite una senectudine brillante e saggia.
Alexandra Tudorache per il sostegno, l’esortazione, la
moderazione.
agli uomini di buona volontà
«I ciechi
conducono i ciechi.
Questo è il
sistema democratico.»
Henry Miller
«Oh ciechi,
e ‘l tanto affaticar che giova?
Tutti
tornate alla gran madre antica,
e ‘l vostro
nome a pena si ritrova.»
Petrarca, Trionfi, «Trionfo della
morte», I, 88-90
Prefazione
dell’autore
Chi è Omeros, Homerus
o Omero? E chi è nonna Amalia di cui fra poco affronteremo le vicende? Chi sia
Omero è misterioso. La cosiddetta questione omerica – contraddittorio
filologico divampato in maniera forte fra il 1600 e il 1800 negli ambienti
letterari, ancora oggi attivo e con le prime scintille che brillarono nel IV°
secolo avanti Cristo imputabili al “piromane intellettuale” Erodoto – mette in
dubbio l’esistenza personale dell’illustre poeta e letterato dell’Iliade e dell’Odissea,
ispiratore di Dante Alighieri e di infiniti poemi consegnati alla leggenda.
Chi è dunque Omero?
Egli è il simbolo della passione letteraria ed epica in promiscuità con il
timore religioso che trovano la loro massima espressione in un essere umano con
un handicap, d’altronde di spirito dotto e d’animo sensibile dotato.
Omero è dunque un
simbolo e ogni simbolo che si rispetti è incarnato in una categoria di uomini.
Si annovera una nutrita schiera di umani che, privi della vista oppure
altrimenti menomati e tali da non poter svolgere una vita completamente
auto-determinata, hanno scelto di non essere passivi alla vita, bensì di
conoscere, di sognare, di contribuire al progresso e all’intrattenimento
accogliendo nella loro vita cultura e arte. Ecco è così che immagino Omero. Un
uomo con molto tempo a sua disposizione per via dell’handicap visivo, pochi
mezzi per sostentarsi, libertà di pensiero e di azione sconfinate. Un uomo con
una libertà tuttavia limitata nell’auto-determinarsi, nello scegliere il suo
lavoro, la sua compagna, i suoi amici, i suoi luoghi, i suoi viaggi. Un uomo
con una immaginazione fuori dal comune.
La cecità quasi lo
costringe a spendere la sua intera vita nell’impegno letterario. Cosa potrebbe
difatti fare in un’epoca in cui la pensione sociale ancora non esiste, se non vendere
la sua fantasia e la sua arguzia nel capire e interpretare, il suo dono “profetico”,
la sua logica lungimirante? E se non fosse stato cieco, a cosa si sarebbe
dedicato? Avremmo gustato le sue opere?
Penso al sole. Vedo il
sole. So, conosco come esso sia, quantunque possa guardarlo solo un minuto per
non rimanerne abbacinato.
Omero pensa al sole.
Non può vederlo. Si informa il più possibile sul sole presso i vedenti. Chiede
sfrenatamente informazioni su di esso ai passanti, ai suoi amici, ai dotti. Lo
percepisce. Lo immagina. Omero diventa il dio del sole e fa sorgere il sole.
Anzi lo ricrea. E il sole nasce ricco, novello, igneo, aureo, lampante,
instancabile, rifulgente, occhiuto, cadente.
Omero, come tutti,
cerca la bellezza negli altri esseri umani e non potendo soffermarsi sull’epidermide,
sulla delicatezza del viso, sui richiami visivi, sull’imponenza di un corpo o
sul mistero di uno sguardo cerca la bellezza nell’introspezione della gente,
nella propria, in quella dei personaggi e trovatala fa della bellezza
introiezione.
Così un personaggio
non è più semplicemente meschino o trionfale, buono o cattivo, ma ha bellezza,
sfumature di bellezza e di ferocia, di bontà e orrore. Ha tutto tranne un
giudizio definitivo. Ha un momento di gloria ed uno di ignominia. Nessuno è
salvo, nessuno è condannato.
La breve storia che mi
accingo ad illustrarvi, se vi aggraderà leggerla fino in fondo, vi porterà in
un mondo di buio e di luce, un mondo grottesco e intimo, un mondo che per molti
aspetti accomuna nonna Amalia al sommo poeta greco Omero. La protagonista della
vicenda di fantasia, Amalia, inconsapevolmente attinge al modello di vita e al
lato esistenziale di Omero, quasi egli fosse la sua “Alma Mater”.
Nonna Amalia è un
personaggio idealmente nato nel 1906, ma quanto mai moderno, una contraddizione
vivente, l’antitesi del conformismo e del materialismo.
Il messaggio ultimo che
questa nonna – costruita in parte in modo autobiografico, in parte sulla falsa
riga dei miei nonni carnali – vuole donare è quello del primato della vita
spirituale su quella materiale. Un primato che tuttavia non è retorico né
attiene al senso del dovere. Un primato che non dipende dal precetto dei soliti
uomini potenti che provano a tenere a bada il popolo con la promessa di una
vita migliore dopo la morte a patto che in questo mondo evitino di ribellarsi e
di pensare. Niente di tutto ciò. In nonna Amalia il materialismo fallisce e
prevale l’intimismo perché ella avendo sperimentato vita mondana, eclettismo,
edonismo ed essendone uscita fondamentalmente povera dentro, ha compreso che si
è adoperata in investimenti a breve termine ed ora alla tarda età è il momento
di pensare alla pensione, alla pensione dell’animo. Fare un investimento tale
da garantire quel grado di soddisfazione di se stessa, quella animazione e
quella libertà necessari per la felicità.
Donna cresciuta in
ambiente cattolico, diventa ben presto apostata di quanto le è stato insegnato
a credere. Sceglie la filosofia del buddismo per coccolare il suo lato
interiore, ma le immagini fosche e quelle luminose del cristianesimo non
passano mai da lei. Non vanno via.
In un sincretismo
molto conflittuale di cattolicesimo e buddismo arricchito da frustoli di
venalità profana, nonna Amalia è l’esempio tipico della persona incostante nell’umore
e nelle decisioni. Il suo nucleo è buono e venato di egoismo. Non ha avuto
figli ed è la nonna adottiva dei suoi pronipoti. Quando il maschietto e Misha
la femminuccia, irrompono nella sua vita fatta di tempo libero e di frivolezze
da pensionata ben messa economicamente, i sentimenti di Amalia si accendono
come brace stancamente ardente e prossima ad estinguersi quando all’improvviso
viene stimolata da paglia e ossigeno a iosa.
Eppure, tutto ciò è
troppo forte per Amalia. Troppo impegnativo. Troppo rivoluzionario per le sue
abitudini solitarie e metodiche che le conferiscono sicurezza e decretano la
sua felicità. D’altro canto il senso del dovere proveniente dal Cristo e dal
Buddha le impedisce categoricamente di comunicare ai genitori dei nipotini che
non se la sente più di accudirli. Li vorrebbe con sé e vorrebbe restaurare come
in una apocatastasi la sua vita precedente di donna completamente libera.
Il peso di un
allontanamento volontario dei nipotini è insostenibile, l’idea insopportabile.
L’idea di una vita stereotipata da nonnina che rinuncia alle sue passioni per
accudire i piccoli della specie, i piccoli della famiglia è per Amalia
altrettanto dolorosa ed improponibile.
Entrano in gioco le
sue due sfere religiose. Nel cristianesimo, accudire i suoi nipoti è un dovere.
Nello stesso tempo Amalia ama morbosamente quei due bambini e nel suo buddismo
ciò che è morboso costituisce desiderio e come tale va ridimensionato, poi
estinto.
Il dissidio interiore è
un crescendo di dolore. Con un unico gesto disperato, infliggendo del male a se
medesima, Amalia crede di onorare Cristo e Buddha e restaura la sua pace, la sua
vita fra lo scolorito e il variolato. Compie un gesto grave di autolesionismo
per eliminare il desiderio di godere dei nipotini come impone il suo credo
orientale e nello stesso tempo lo fa per castigare il suo corpo nella logica di
San Paolo che riprova il peccato (mancanza al dovere di nonna in questo caso),
lo umilia e lo scaccia con la punizione corporale.
Contrasti dunque in
Amalia, contraddizioni come si diceva in apertura. Il Tao in Amalia, simbolo
orientale filosofico-religioso che rappresenta in un cerchio formato da due
abbracci, l’alternanza ciclica e la consustanzialità di bene e male, di notte e
giorno, di tristezza e gioia, ricchezza e povertà, spiritualità e materialismo,
amore e odio.
Torniamo infine al
poeta Omero, scomodato per dare il titolo a questo racconto breve e per fare da
ispiratore ad Amalia.
La luce e il buio sono
uguali per Omero. Possiedono bellezze diverse, ma non avendoli mai visti, non
rappresentano per lui due antipodi. E in nonna Amalia tutti i contrasti, tutti
i contrari, tutte le contraddizioni, tutte le intemperanze, le incoerenze sono
agli antipodi? Lei direbbe di no, direbbe che il suo buon umore o il suo
cattivo umore, il suo amore o il suo “odio” alterni per i nipotini non hanno
valenza morale, non sono il passaggio dal bene al male, ma semplicemente da una
bellezza ad un’altra dove anche il dolore è bellezza.
Il gesto
autodistruttivo che Amalia perpetra, come andremo a leggere, è la soppressione
della propria vista. L’accecamento dei propri occhi. L’azione non è punitiva,
ma diretta a ricostruire una libertà artificiale violata dal neo-impegno di
nonna-sitter.
Omero, rimane sempre
un mistero, nasce cieco e la sua arte aulica e raffinatissima si avvantaggia di
questa cecità che diviene luce dell’ingegno in termini di dedizione esclusiva
all’arte e all’approfondimento. Per Amalia, invece, dedicarsi esclusivamente
all’arte è una scelta e – per ottenere anche uno sgravio di coscienza,
necessario visti i suoi sensi religiosi – individua una via che attraverso la
sofferenza e la privazione compensi l’acquisto della sovranità sul proprio
tempo e sulle proprie capacità e che non dia la possibilità di tornare indietro
dalla decisione.
Bello ed eroico a
volte orrendo, giusto e vile il vincitore, bello ed eroico a volte orrendo,
giusto e vile lo sconfitto.
Mimmo Burzachechi, Squillace –
Calabria
2 agosto 2007
*
Amalia e Melampo
(amalia e il tempo)
«Si potrebbe dire le crostate di
nonna Amalia, ma è
più appropriato l’apocatastasi di nonna Amalia.
L’opinione più diffusa è quella che, se una signora – diciamo
anziana – fa bene le torte, vuol dire che ha trascorso l’intera vita a
prepararle nel vincolo di donna casalinga. Nonna Amalia, invece, sfornava
crostate solo per la festa annuale di beneficenza del Circolo Unione, ma
quante ne sfornava!
Il resto dell’anno lo trascorreva oziosamente fra gli archivi di scartoffie
dell’Inps dove fin da ragazza aveva impiego. L’estate, poi, andava sempre in
crociera. Sempre su un mare diverso. Almeno così mi raccontava mia madre da
piccolo.
Si raccontava anche che la sera, fino a tardi, la nonna
scrivesse poesie. Poesie su uomini avventurieri, su uomini durati una crociera
e qualche miglio nautico soltanto. Su maschi scarlatti e pellegrini che
facevano scorrerie sui suoi capelli rossi da ragazza, sui suoi occhi verdi e
polverosi da impiegata, sugli occhi verdi, salmastri e illuminati da
navigatrice.
Si potrebbe dire le poesie di nonna Amalia.
Nonna Amalia non si era mai sposata
né aveva avuto figli così suo zio – che era direttore generale vicario all’Inps
di Catanzaro – aveva trovato all’unica nipote zitella un modo di passare il tempo (e
sostentarsi in futuro) che fosse alternativo al convento delle suore clarisse
di Rossano Calabro dove più volentieri l’avrebbe voluta collocare suo padre
Vittore. Una suora avrebbe ben portato lustro alla famiglia patrizia, mentre
un’impiegata negli anni quaranta di bell’aspetto, ma senza marito sarebbe stata
una vera disdetta. E poi quando e mai si è vista una donna di buona famiglia
che studia o lavora fuori casa! Questo era uno dei tanti adagi che spesso sentivo rievocare
nel linguaggio familiare.
Ho 33 anni e nonna Amalia non c’è
più. Probabilmente il suo continuum mentale è rinato in un altro corpo di donna
matta, oppure è entrato per sempre nella luce, come mi incoraggiava a sperare lei
fin dai tempi dei bei pomeriggi celesti, raffinati e squisiti che trascorrevamo
insieme in estate nella sua casa alta e fresca quando mia madre era a lavoro ed
io troppo piccolo per rimanere a giocare con gli altri in cortile.
La vita di nonna Amalia da giovane
si dice sia stata straordinaria, ma quello che ella concepì e fece nella sua
tarda età ebbe del sublime, del clamoroso. Del deplorevole.
Leontine, cara, ti racconto questa
storia perché stai per accettare un lavoro come direttore marketing, l’incarico
che spunterà il tuo talento acuto esattamente come una parete dall’intonaco bucciato e ruvido spunterebbe la tua
pensierosa matita dalla sottile mina zero/cinque. Te la racconto perché nonna
Amalia era la persona più incredibile che vivesse sul pianeta del suo tempo,
come ora lo sei tu.
L’ultimo ricordo che ho della nonna
è la sua bara aperta, il suo corpo bello e immobile da 72 ore nella estrema
imbarcazione di legno pronta a salpare per l’ultima crociera, il suo fido cane
guida per ciechi, Melampo, che non si mosse dalla chiglia della barca di legno
finché questa, levata l’ancora, non partì per la luce.
72 ore. Mia madre, per una precisa
volontà di nonna Amalia e con la complicità di Sganga, l’uomo delle onoranze
funebri, dovette dichiarare la morte con due giorni di ritardo. Sì, perché se
qualcuno avesse toccato la salma prima dei tre giorni, il continuum mentale della nonna ancora
ghettizzato nella materia avrebbe potuto rimanere imprigionato o essere
profanato, mi pare di aver capito che il motivo sia stato questo per cui vietò,
per iscritto, di saldare lo zinco nei tempi normali.
E ricordo che, prima di essere
affidato ad una nuova signora non vedente, Melampo accompagnò la nonna fino
alla sepoltura con la stessa solenne premura che le aveva riservato dal 1979 al
1988, gli anni della cecità.
Melampo che fu il suo migliore
amico, il suo pubblico, l’unico uomo della sua vita, l’uomo di casa.
*
Quei pianti, quei sorrisi
(amalia e i giochi)
Quando sono nato io, la nonna aveva
già 68 anni. Era del ‘6 come si soleva dire una volta per significare del 1906.
Fino all’età delle scuole non ho mai capito bene l’arcano di come Amalia
potesse essere mia nonna se in verità non aveva mai avuto figli. Solo in quinta
elementare mi fu spiegato che i miei nonni carnali, oggi diremmo biologici, morirono
in un attentato contro il loro pensiero sindacale prima che mia madre e mio
padre si incontrassero.
Nonna Amalia, sorella del mio nonno
carnale Emanuele, fece da mamma pro tempore a Sveva che è mia madre. E lo fece
con sommo gaudio di suo padre Vittore il quale negli ultimi bagliori della sua
vita vide la figlia assennata, affaccendata nella cura di una adolescente con
il suo stesso sangue. Come se Amalia non fosse più arida. Come se Amalia non
fosse più ribelle, come se non fosse più dissoluta. Amalia avrebbe detto, “come
se non fossi più viva”.
Sotto l’egida di nonna Amalia, mia
madre terminò gli studi, insegnò, sposò, ebbe me e mia sorella a distanza di
appena un anno.
Di conseguenza, anche nonna Amalia
ebbe me e mia sorella a distanza di appena un anno.
Ci ebbe fino ai miei 5 anni, poi mai
più. Poi mai più. Non nel senso della badante, quantomeno.
Rideva e piangeva, quando accudiva
ai suoi unici nipoti, rideva e piangeva in un’alternanza di umore così rapida,
eppure così graduale e coerente da sembrare savia. O forse lo era, se è vero
che anche io e mia sorella siamo ed eravamo perfettamente sani di testa. Già,
perché anche noi due da bambini piangevamo e ridevamo alternativamente con la
stessa frivola indifferenza dei soli azzurri e delle piogge grigio perla di
marzo che si azzuffano nello stesso pomeriggio.
Ricordo vivamente i suoi singhiozzi
che esplodevano incomprensibili e oscuri d’improvviso, ricordo che in quei
momenti farfugliava in un’altrettanto incomprensibile voce, qualcosa come
“dalla fame, dalle due pesti, dalla guerra libera nos Domine”. Ma a furia di sentirle queste
parole le ho carpite.
E quando erompeva il suo sorriso,
come lava vulcanica o come marea, invece diceva “perdono bimbi miei, sanguis
sanguinis mei, perdonatemi siete tutto per me”, anche queste parole le ho rubate
al dimenticatoio.
Dopo la consueta merenda pomeridiana
a base di zabaione fatto sul fuoco con uova, zucchero e Marsala, ci impegnava
in fantastici giochi di ruolo. Nell’ideazione di quei trastulli può essere
decisamente considerata una precorritrice dei videogiochi come Final Fantasy.
Principiava a raccontarci delle
storie e poi assegnava a me e a mia sorella delle parti attive nella storia,
come se fossimo stati attori che devono improvvisare. Lei, la nonna, guidava e
noi un po’ protestando perché non avevamo la libertà assoluta, un altro poco
divertendoci da matti, recitavamo, seguivamo, inventavamo. Pareva di essere in
un’atmosfera immaginaria e magica, sebbene molto verisimile; avevo
l’impressione di essere immerso nel mondo di una delle poesie della nonna, una
di quelle che ogni tanto leggeva quando faceva buio e benché risultassero per
me incomprensibili, mi facevano veramente viaggiare e approdare esattamente nei
sentimenti che doveva aver provato lei nel momento in cui le aveva scritte.
Sognavo, sentivo qualcosa ogni volta che la nonna leggeva una sua poesia,
oppure ci portava dentro di essa con i giochi ridanciani e profondi.
Sto parlando dell’eredità più
importante che abbia ricevuto: l’immaginazione. Mi è valsa un lavoro di
giornalista e la funzione di babysitter preferito nelle serate a casa degli
amici che hanno già dei figli. Io sono il beniamino di quei bambini, come la
nonna era il nostro idolo.
Tanta immaginazione mi è valsa anche
molto terrore delle cose che non si vedono.
*
L’ultimo giorno di
scuola
(amalia e le sentenze)
Irrompeva la sera. Ad un tratto mi
ritrovavo a casa senza accorgermene. In macchina, il gioco inventato dalla
nonna appositamente per quel singolo giorno proseguiva. Io e mia sorella,
avvinti dalla sfida del gioco, avvinti dalla ricerca del colpo di scena che
avvantaggiasse il mio o il suo personaggio e convinti di essere altrove,
ridevamo e ci arrabbiavamo senza accorgerci di essere su 4 ruote di gomma. E la
nonna sembrava esser con noi. Quando poco dopo il buon profumo della cena
raggiungeva i nostri nasini lusingandoli, il richiamo ancestrale del cibo
interrompeva il gioco. In quel momento tornavamo con i piedi e le teste a casa
e capivamo che andando via ci eravamo dimenticati di salutare la nonna.
Il 19 novembre del 1979 fu l’ultimo giorno in cui i
miei genitori accompagnarono me e la sorellina dalla nonna. Seguì
un’interruzione violenta dei miei pomeriggi felici che mi segnò molto e mi
lacera ancor oggi ad essere sincero. La ricordo come un altro dei misteri di
nonna Amalia. Qualche mese dopo ripresero le visite alla nonna e infine nel
1988, sul letto di morte, la nonna mi spiegò ogni cosa riguardo la separazione.
Era lunedì, quel 19 novembre, lo
ricordo benissimo perché dopo la noia della domenica senza la nonna, avevo
sospirato il momento dell’incontro. Non capivo perché la nonna il sabato e la
domenica volesse stare sola e non venire a casa nostra. Infondo avevamo una
stanza degli ospiti accogliente e la mamma cucinava da gran chef. Né la nonna
voleva che io rimanessi a dormire da lei. Ne soffrivo immensamente come se
fossi respinto, ma lei diceva che aveva da fare. Da fare cosa? Forse pregare Buddha
come faceva in nostra presenza durante la settimana? Che motivo ci sarebbe
stato di vergognarsene visto che lo faceva anche davanti a noi? Forse temeva di
adirare mia madre la quale, sempre stata cattolica, poteva pensare che deviasse
noi bambini dal credo cristiano con le sue strane idee? L’ennesimo mistero…
Quel lunedì fu l’ultimo giorno in
cui imparai veramente qualcosa; successivamente gli anni della scuola furono
solo un coacervo di nozioni senza legame né verità.
*
Effetto ripercussione
(amalia e il rebound)
Sono le 14 e 30 del 12 agosto del
1988. Fuori la porta a vetri dell’ombrosa stanza da letto mia madre e mio padre
singhiozzano, possiamo udirli dall’interno. Ho una paura senza precedenti,
intensa, la nonna mi dice che sta morendo mentre sorride. Dice che la sua vita
è stata bella. Dice che chi era veramente felice e puro in vita sarà felice
nell’infinito. Non devo preoccuparmi. Ripete che è felice e sorride. Tendo a
crederle perché sorride, ma ho paura lo stesso, sento la vita scivolare via
dalle mie mani unte della vita stessa. Preghiamo insieme come facevamo a casa
sua. I suoi occhi ciechi da tanti anni sono gli occhi più vispi e accesi che io
abbia mai rimirato.
“Om…
Quello è il
tutto, questo è il tutto,
da quel
tutto, proviene questo tutto,
sottraendo
questo tutto a quel tutto,
ciò che
resta è il tutto. ”
Io ho la voce rotta dai palpiti incontrollabili del mio
cuore atterrito e una gran determinazione a rimanere con lei fino alla fine, lo
ha concesso solo a me allontanando tutti gli altri. Lei giubila nel suo mantra
serena, appagata e bellissima. “Om”. Dopo la recita e il respiro del mantra,
denuda il suo segreto. È umile e presuntosa al contempo nella sua morte. Mi fa
giurare di far conoscere il messaggio che sta per affidarmi – il suo messaggio
- e renderlo vivido e persuasivo per il maggior numero di persone. Accetto. Mi
spiega che, troppo colta e raffinata per smarrirsi nella vita mondana ha
trascorso i suoi giorni maturi ad esplorare le vie del concento e del Buddha.
Tante volte da piccolo le avevo chiesto, senza ottenere una risposta
soddisfacente, perché pregasse quell’uomo panciuto anziché nostro Signore. Ora
mi dice: Buddha e nostro Signore sono nel tutto e se togli il tutto dal tutto
ciò che rimane è sempre il tutto.
Mi rivela che suo padre voleva
mandarla in convento e così era fiorito dentro di lei il rifiuto per il credo
cattolico. Una faccenda di terrore, rigetto, aspirazione, contestazione.
Mi rivela ancora che da piccola
l’educazione cattolica ricevuta era stata rigorosa e che spesso doveva
digiunare e portare il cilicio. Una faccenda di traumi.
Ingenuamente le rivolgo una domanda:
nonna chi hai amato di più? e in quella trance dolorosa in cui mi trovo nello
svolgersi della sua morte mi illudo che indichi me come il più amato. Mi
risponde: non amo e non ho amato nulla più della libertà e dell’arte. L’arte e
la bellezza sono le rappresentazioni della realtà che portano alla comprensione
profonda della realtà: i quadri, la musica e i libri, i modelli matematici e il
mistero della fede.
La ascolto biascicare queste parole:
quando tu e Misha venivate a casa ero molto animata. Siete stati i bimbi che
non ho mai avuto. I miei gioielli. I miei diletti, dillo anche Misha, te ne
prego. E poi quando andavate via avevo dei rebound. Troppo forti per restare
viva. Troppo deboli per essere vuota. Troppo acuti per ascoltare, troppo
illuminati per lasciarmi la vista degli occhi. Ed io: cosa è un rebound
nonna?
Reflussi di libertà. Quando andavate
via pensavo a quanto fosse stato bello. Pensi mai che è bello stare a casa, ma
che ti piacerebbe sapere dove sono i tuoi compagni di scuola, se si divertono
senza di te, se qualcuno ottiene lo sguardo dolce che vorresti tu, mentre
giochi con Misha? Ti senti mai lasciato fuori? Senti mai di perdere occasioni? Sì
è vero nonna.
Ti sembra, almeno alcune volte, di
essere un cane legato vicino ad una ciotola di cibo succulento e che la tua
catena al collo ti impedisca di raggiungere la ciotola per pochi centimetri? Sì
nonna è così.
E non ti sembra che più ti dimeni
per avere la ciotola più il laccio che si attorciglia alla tua gola ti
strangoli lasciando amarezza nella tua bocca che sanguina per i troppi morsi
assestati contro l’aria, contro il vuoto nel tentativo delirante di assaporare
quel cibo irraggiungibile? E così ti senti incompreso. E loro pensano che tu
abbia tutto, che stia bene sotto le loro ali, che la loro protezione sia il tuo
paradiso, che la normalità e la sicurezza siano l’obiettivo finale e giusto, ma
tu vorresti morire piuttosto che stare legato a catena. Loro…
E così ti svegli al mattino con ira,
poi al pomeriggio ti abbatti e la sera sei di nuovo furioso. Tu…
La nonna ora è agitata. È rabbiosa,
rancorosa per l’esattezza, come mai l’avrei immaginata. Ma ti immagini,
Leontine, una signora anziana che muore ed è furiosa? Che stringendo i denti
come nell’atto di mordere si lamenta dell’ingratitudine della gente sibilando,
e lancia anatemi e getti di saliva di vecchia sulla supina ignoranza che
trionfa nei più con un vantaggio di beatitudine inconsapevole e indifferente
riguardo i problemi del mondo e la contemplazione?
Sì nonna, mi sento come te.
Troppo spesso nonna. Credo che le tue catene per un certo periodo siamo stati
involontariamente io e Misha, come le mie catene sono stati i doveri e la
soggezione. E so che ci vuoi bene. Lo so!
Cosa hai fatto, nonna, per essere
felice? Perché non ci hanno portato più da te nel pomeriggio, quando mamma
andava a lavoro? Forse perché sei diventata cieca? Cosa hai detto a mamma e
papà? Insegnami ancora una volta nonna.
*
Nonna Amalia
(non più nonna)
Una nuvolaglia disordinata,
estremamente grigia e pesante discende sui miei occhi ormai insensibili al
dolore. Cacciato il sole, la tenebra si impossessa del mio sguardo che non
ritornerà mai più. Mai più ritornerà. Né il verde giungla del mio iride
scintillerà mai più. La caligine del limbo accompagnerà sommessa il rumore dei
flutti del mare. Non più frangenti d’acqua protervi che sfidano al sole
folgorante lo scafo della nave nella mia consueta crociera estiva. Non più
lapilli di sale che vengono sul ponte ventoso e assolato saltando. Buio, nebbia
e stupore ormai. Ho sempre avuto paura dei cambiamenti eppure ho dovuto
cambiare. Pensavo troppo ad ogni poesia non scritta, rimpiangevo sfrenatamente
ogni passeggiata mancata. Dolevo nelle lunghe telefonate con Maura, la mia
amica, la quale graziata dall’età matura dei suoi nipoti, mi raccontava delle
mostre di quadri visitate a Venezia. Lei molto tempo libero, tempo altero e
irrinunciabile. Tempo preteso, tempo di diritto. Io, tempo offerto e abnegato,
dolevo e morivo. Ho condotto la mia vita a smettere di desiderare. Smettere di
desiderare per essere felice. Per fuggire l’insoddisfazione.
Non ho desiderato pertanto marito e
figli, non ho desiderato amore o successo. Ho accolto il piacere senza bramarlo
e ho gustato ogni carezza e ogni sorriso, ogni gesto benevolo e delicato senza
chiedere che si riproducesse.
Ho ostracizzato desideri e
ambizioni. E poi siete arrivati tu e Misha, come valanghe di neve siete venuti
e siete diventati il mio desiderio acceso, il mio diletto. E avete riattivato
anche tutti gli altri desideri che avevo disperso fuori dalle mura della mia
fortezza. Il non desiderare, la mia fortezza. Il non sperare, la mia fortezza,
l’essere un tutto e non un individuo, la mia fortezza. La mia fortezza (sì…),
la mia abulia, la mia apatia. Il mio pallore.
Vi ho aspettati la notte, finché il
giorno non avesse sconfitto la mia solitudine. E mentre eravate con me gioivo e
desideravo che arrivassero presto le 8 di sera, perché vostra madre tornasse a
prelevarvi e a restituirmi la mia libertà. La libertà di non desiderarvi, di
non cercarvi, l’autonomia di scacciare ogni passione, per non essere delusa se
questa fosse stata irrealizzabile.
E la notte ancora vi aspettavo. E
mentre eravate con me recriminavo, quasi odiandovi, ogni pensiero non scritto,
ogni domanda non fatta. Ogni quadro d’autore sbiadito, ogni lepre fugace
mancata.
Ho vagliato il punto dove fanno
perno e girano, balzellano e si rincorrono il dare e il ricevere, il tirare e
lo spingere, l’agognare e il donare, il chiaro e lo scuro.
Prima il chiaro, la luce, il bene, i
maschi, il giorno. Adesso lo scuro. La donna. L’acido. L’alta marea sul globo
terraqueo oculare. Una invasione, la piena di un fiume.
Ci pensavo da tempo, poi ho deciso
con la rapidità della lince che si avventa sulla preda. Ho preparato un
amalgama di lidocaina e fluorescina – colliri anestetici – insieme a delle
gocce di adrenalina. L’essenza liquida della materia è stata l’ultima cosa che
ho visto. Dopo l’anestetico ho versato nel mio sguardo il dolore. Ho afferrato
con avidità la boccia di ammoniaca che usavo per smacchiare gli abiti. E l’ho
versata sugli occhi con grande abbondanza, con irrefrenabile delirio, violenza
e goduria. Mi sono accecata da sola. Mi sono privata della vista. Ego
castigo corpus meum.
Ho concluso la mia esperienza
sensibile della luce ed ho cominciato il cammino più bello verso la luce.
Questa è la mia morte ed è la più luminosa. Da quel giorno tu e Misha mi siete
mancati moltissimo e così i colori. Ma non sono mai stata più libera e più
padrona di me.
Ho chiuso i miei occhi con l’acqua,
ho riacceso il mio spirito con il fuoco.
*
Le crostate di nonna
Amalia
(La preda)
Porgimi una prugna gialla voglio
mordere. Per la vita che non ho morso.
Tieni nonna, è la più bella. Il
frutto migliore che sceglievi per me dalla coppa in ceramica, ora lo scelgo per
te.
Su! Abbiamo poco tempo. Fammi
mordere la vita che non ho morso. Non prendere la prugna dal frigorifero,
prendila sul tavolo deve essere calda. E con questo caldo di agosto, certo che
lo sarà! Voglio mordere un essere vivente, la prugna e il suo succo siano caldi
come il sangue, il tono della buccia sia come carne che si arrende ancora viva
alle fauci della lince. Nonna fai paura. No tesoro. Mordi, desidera, inspira sempre. Guardami
tesoro.
Porsi la prugna alla nonna secondo le sue indicazioni.
Gialla, calda, dura e matura. La morse con veemenza. Poi mi disse le sue ultime
parole, il suo testamento spirituale, e spirò.
Usò delle parole forti, un linguaggio malizioso e
accattivante immediatamente riconoscibile per un ragazzo di 14 anni, come ero
io all’epoca, la cui curiosità di scoprire è al culmine.
Così, per spiegarmi il fascino e la colpa del suo rendersi
cieca, invocò un lessico che mi colpì molto, parlò di pornografia e di
esibizionismo della sua azione, parole che trafugavo di nascosto su riviste
clandestine degli smodati compagni di scuola e che avevano una attrazione ed
una evocazione misteriosa quanto irresistibile. La nonna lo sapeva e sapeva
come imprimere nella mia memoria il messaggio.
Sai cos’è la pornografia?
Non posso mentire, lei sa sempre
tutto. Sì nonna, ma… Non vergognarti è normale alla tua età. Piuttosto ti vergogneresti se
sapessi che io, nonna Amalia, ho messo in scena la pornografia 9 anni fa nel
1979? Non ci credo nonna, penso che stia avviando il suo ultimo scherzo per sdrammatizzare la
sua morte. In effetti mi ha estorto un sorriso, quasi una risata. Lei è
serissima invece, capisco che non scherza. I suoi occhi sembrano guardarmi
anche se non funzionanti e sembrano riprovare il mio sorriso come per dire
non-c’è-tempo-per-scherzare-non-ti-accorgi-che-questa-volta-sono-seria?
Mi ricompongo. Cosa dici nonna,
non comprendo?
Vedi, caro, la pornografia non è solo quello che pensi. Il concetto ti apparirà
più chiaro e completo se cercherai bene sul tuo dizionario di greco antico, sul
“Rocci”. La parola pornografia significa rappresentare una vendita, una
alienazione.
Protendo in avanti le labbra
strette, alcune mie aree cerebrali si stanno attivando, ma ancora non
comprendo. Nonna non ti capisco, calmati dai. È banale e offensivo dirle
“calmati”, la nonna ha un gesto di stizza, emette un suono sordo e gutturale
fiatando con vigore. Sono così vicino a lei che posso sentire il suo fiato che,
intossicato dai farmaci, odora come uno straccio da pavimenti usato e non
strizzato, lasciato a macerare.
Rappresentare una vendita o una
alienazione, riprende, cosa significa alienare? Dare ad altri diritti o proprietà che prima
erano tuoi, giusto? Sembra imboccarmi la verità come faceva quando ero
piccolo con la pastina. Ma significa anche allontanare o perdere. E la rappresentazione di
questa perdita è un eccesso, un abuso. Un’esibizione. Vedi, togliendomi la
vista, accecandomi da sola ho esibito la vendita – cioè la perdita – dei miei
principi.
Dapprima mi ero lasciata incantare
dal compenso alto che ricevevo nelle emozioni e nei sentimenti quando facevo da
nonna full-time a te e a Misha. Vendevo la mia libertà, la mia intimità per il
contraccambio della gioia di nonna. Della gioia di non essere più inutile e
sola. Per l’ebbrezza di non morire perché vedevo la mia stirpe, le mie cellule,
il mio sangue – voi due in poche parole – crescere e perpetuarsi. Tutto ciò era
pornografia. Ed il sabato e la domenica ero libera dal lavoro di vendermi.
Successivamente, togliendomi la
vista e ricadendo nella impossibilità di badare a me stessa, figuriamoci a voi
piccoli, ho riacquistato i miei principi di prima, di beata solitudine, di
tempo per me stessa e per la meditazione che è altruismo universale. E ho
venduto le nuove gioie che avevo acquistato, le nuove purezze che avevo
conquistato, le nuove vette morali. Ho perso te e Misha, vi ho venduti per
ricomprare me stessa. Anche questa è stata pornografia, esibizione di questa
compravendita, abuso di cose che non mi appartenevano. È bastato pagare e farmi
pagare.
E poi non ho saputo più chi fossi
io, quale fosse il mio pudore da non mettere più in scena, in vendita.
Era questo il tutto o era
quell’altro il tutto?
È tutto chiaro nonna, sei stata splendida.
Sorride appagata, annuisce con la testa mentre la saliva le
si secca agli angoli della bocca e affanna febbrilmente per lo sforzo di aver
parlato. Si è confessata sul suo letto di morte, il suo messaggio è assicurato
ai posteri, è stata assolta da me. Il suo nipotino è stato iniziato ai segreti
elevati, lei sta per entrare nella luce. Tutto è a posto. Tutto va bene ora.
Tutto è pacificato, tutto è compensato ormai.
Nel forno c’è la mia ultima crostata. Una crostata di prugne
gialle. Mordi, mangia, conosci. Conosci. La sua ultima parola.
“Om…Quello
è il tutto, questo è il tutto,
Da quel
tutto, proviene questo tutto,
Sottraendo
questo tutto a quel tutto,
ciò che
resta è il Lutto ”
Ciò che resta è il Lutto.
Prefazione dell’autore__________________ 3
Homerus_____________________________ 9
Amalia e Melampo
(amalia e il tempo)____________________ 11
Quei pianti, quei sorrisi
(amalia e i giochi)____________________ 14
L’ultimo giorno di scuola
(amalia e le sentenze)_________________ 17
Effetto ripercussione
(amalia e il rebound)__________________ 19
Nonna Amalia
(non più nonna)______________________ 23
Le crostate di nonna Amalia
(la preda)___________________________ 26
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5 ottobre 2007 alle 8:46 am
Mi e piaciuto tantissimo questo racconto. Ha la forza di evocare il desiderio di liberta e di vita!
5 ottobre 2007 alle 6:58 pm
Ciao Mimmo. Non lo dico molto spesso su questo sito, quindi prendilo come un complimento: questo è un racconto per leggere il quale *pagherei*
Bellissimo, la voce narrante così delicata e intima eppure anche così vigorosa. Il personaggio di Amalia ben delineato e convincente. Ho solo due lamentele:
1) è troppo corto! potresti costruirci attorno un romanzo splendido, raccontanto la vita della famiglia che ruota attorno ad Amalia
2) la prefazione io la trasformerei in una postfazione. di solito non leggo mai le prefazioni, ma per te ho fatto un’eccezione, e mi hai rovinato la sorpresa della cecità autoinflitta
Grazie mille per avercelo fatto leggere.
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