MIMMO BURZACHECHI – Racconti Gotici

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Senso e Rivelazione – Parte Terza

Pubblicato da maelstrom il 9 dicembre 2007

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Parte Terza

Reazione all’evento

Non ricordo cosa fosse quel bollino, a distanza di anni non lo ricordo, l’unico ricordo che ho di quei momenti convulsi, è di non ricordare o provare alcunché. Come se fossi insensibile.
È stato un suono, sirene di ambulanza per essere precisi, a restituirmi i sensi.
Sentivo, frastornato come se mi fossi appena risvegliato da un lungo letargo, un sapore ferroso e indecente di sangue fresco in bocca, avvisavo l’odore pestilente della pelle bruciata, dolevo sommessamente con la limpida consapevolezza che, dopo poche ore, il dolore sarebbe diventato violento come l’urlo di Betty, la ghiandaia, vedevo sul serbatoio rosso fuoco della mia moto riversa a terra a pochi metri da me, riversa a terra come me, zebrature di rosso più scuro, rubino. Era sangue e il tutto sembrava un quadro visionario con una zebra insanguinata dove non si comprende bene se le strisce siano pigmenti scuri del pelo, o sangue che sfocia al mare dopo una folle corsa sui ripidi e larghi pendii dei monti della Sila.
E l’equazione è presto fatta. Senso elevato al piacere, aperta parentesi della coscienza, senso che diventa consapevolezza e delirio, chiusa parentesi della coscienza, tutto uguale ad x. (ics) Dove x è croce, è dolore.
Pertanto, Signori della corte, io ed il mio avvocato qui presente chiediamo che l’accusa di distruzione di proprietà pubblica venga ritirata perché non c’è vena di pazzia o di ubriachezza in quello che ho fatto, ma solo tanta tanta sfortuna.
Se quella ginestra e quel caldo di ottobre…
Se Èlide non mi avesse sedotto…
(Se tu… se lei…) (adesso) (altro che adesso. Direi Poi ! Del senno di poi son piene le fosse)
Certo, certo lo ammetto, ero io alla guida, io il responsabile, ma la velocità è un demone, vedevo lei Signor giudice, proprio lei, che annuiva mentre lo dicevo, mentre sancivo: è un demone.  Lei annuiva, sì. Annuiva come se anche lei, ogni tanto, senza carattere di giudizio definitivo, per carità, avesse il vizio di correre. Lei ha la faccia da auto però, non da motocicletta.
Qualora doveste accogliere la mia richiesta, egregi Signori e anche lei giudice piè veloce, prometto solennemente di abdicare la mia passione per i particolari e per la velocità e di non distruggere nuovamente la proprietà dello Stato, non chiedetemi però di riconoscere la mia pazzia o la mia imprudenza.
Quello che è nel mio desiderio è semplicemente perorare la causa della mia assoluzione elencandovi quanto ho imparato da quella esperienza; ciò che invece si trova nella mia speranza, in maniera accorata, è che voi possiate e vogliate concordami la libertà, (l’assoluzione!) (grazie! Ma cosa sto dicendo… se non ci fossi tu…) pardon, ho detto la libertà per errore, intendevo la remissione del mio debito nei confronti dello Stato.
Umilmente rivolto alle vostre toghe bianche, (nere!) (nere… sono stanco perdinci!) pardon ho detto bianche per veniale errore, intendevo dire rivolto alle vostre nere e insigni toghe che custodiscono la giustizia come un tabernacolo, (li puoi anche adulare, ma hanno notato che hai detto toghe bianche) (lo so) in vero, in piena libertà, onestà ed in piena coscienza e consapevolezza io vi prometto solennemente che l’esaltazione per i bollini adesivi (i particolari, i dettagli non i bollini solamente) e ovviamente per ogni genere di particolare o dettaglio, non visiterà mai più la mia mente né quando sono sulla ducati né quando sono a piedi né quando veglio né quando dormo.
Come prova della mia buona fede e dei miei buoni propositi, vi dirò che l’origine della mia folle corsa, quel giorno di ormai tanti anni fa, non fu il bollino adesivo, non inseguivo effettivamente quello, bensì era rappresentata da tutt’altro la mia preda in fuga, ora vi spiegherò, o per meglio dire vi spiegherò che ero io a fuggire da qualcosa.
In quei giorni ossigenati, ancora potevo percorrere gli innumerevoli chilometri immemori e non solamente i metri affranti del vostro cortile dai mattoni verdi per anni e anni giorno dopo giorno! (cosa dici non sei un recluso, sei qui in aula solo da stamattina per discutere una ammenda) (hai ragione Leontine, perdinci però…) (lo so sei stanco, ormai finisco la frase anticipandoti, il classico cavallo di battaglia per te, ma ora rimedia alle scemenze che hai pronunciato) (sono stanco) e capitemi, Signori piè veloci e piedi scalzi, (shh! E non ribattere che sei stanco, lo sappiamo, piuttosto impegnati) (sì) per me, che non sono mai stato in un’aula prima d’ora se non in quelle della tarda scuola, questa vostra aula mi appare come un cortile senza soffitto la cui lacuna, del soffitto intendo, lascia che il sole irradi di giustizia il luogo e le menti e che i piedi siano scalzi per intiepidirsi miti al tepore confortante della moralità che qui aleggia.
Ma lasciate che io ritorni sui chilometri della velocità, fuori dal cortile, all’aria aperta, fuori dall’ora d’aria (ancora? Ma sei fuori di testa, altro che fuori dal cortile, siamo in un’aula a discutere se devi pagare la sanzione di duemila euro o te la puoi evitare, cosa farnetichi?) (sì) (speriamo) e dunque, ritornando alle pertinenze del discorso “velocità”, ciò che inseguivo non era il bollino giallo e rosso attaccato alla targa del veicolo che mi precedeva, (il malefico, malevolo e diabolico, orripilante adesivo. Possa sciogliersi come cera d’api al sole, carogna!) bensì inseguivo il sollievo. Sì Signori, proprio così, il sollievo. Infatti, era domenica pomeriggio e l’ora di riprendere la noiosa e faticosa settimana, lontano dai monti ed impossibilitato a raggiungerli, era un’ora vicinissima, mordace, flagrante; era un’ora atroce, (addio monti sorgenti dalle acque) (erano ginestre fluttuanti sulle acque) (…pascenti, addio) era un’ora ombrosa, semibuia, lunga, lunghissima e l’ora, ancora di più, molto di più si sarebbe allungata verso est divenendo interminabile e feroce, se io avessi percorso la strada arancione al tramonto ad andatura troppo lenta.
Sì inseguivo il sollievo di arrivare subito a casa e di consolarmi con un film su Hannibal Lecter che torna in Lituania dopo essermi pasciuto con altro buon cibo e un buon bagno caldo e ozioso di mezz’ora. (…pascenti, addio) E questa liturgia di cibo, bagno caldo e bagno di sangue al plasma, cioè sulla mia TV al plasma, mi avrebbe presto sussurrato di non preoccuparmi, che i monti sarebbero tornati, ma che intanto la mia casa avrebbe saputo cullarmi come i bei monti. (addio monti …pascenti addio) Quindi si può asserire che correvo (infrangevo ogni ragionevole prescrizione del codice della strada) verso la rassegnazione della casa, buia già alle diciannove in ottobre e che, prima mi rassegnavo, prima smetteva di piangere l’addio.
Ho detto anche che fuggivo da qualcosa ed anche questo è vero, devo dire,  dimostra che il mio folle volo, (folle corsa) (sì) la mia folle corsa nulla ebbe a che vedere con il veicolo, il pilota o l’adesivo (bastardo adesivo) che mi precedevano. Inseguivo la mia consolante casa, volevo che arrivasse veloce e rassicurante; al contempo ero inseguito dal richiamo, conteso fra due fuochi. Ricordate? con un impulso ero asceso al monte che elargiva l’odore delle ginestre simile alle donne-sirena le quali, dagli scogli in mezzo al mare aperto, spandono ingannatore il loro canto. (sì, immagino che lo ricordino non attenderò risposta) Bene, il richiamo, mentre discendevo a valle verso Catanzaro, proseguiva e, come colla per topi, impediva alla ducati di fuggire verso il ricovero della casa. (corre, ma non fugge come all’andata) Il richiamo bloccava ed inseguiva e di più incalzava. Ed io, come il topo che si dimena, acceleravo e, libero finalmente dalla colla, seppure con le zampe ancora imbrattate che rallentano, fuggivo verso la tana. (il formaggio invitante rimanga pure sulla colla, ho penato già abbastanza)
Scappavo e inseguivo, ero come ero. Ero come il raiser di un arco da tiro che si trova fra la corda inumana e la freccia frangente, come il centro di un elastico quando tutta la fettuccia scatta dopo la tensione massima e il suo centro implode sotto le sferzate delle due estremità che si fronteggiano e si scontrano.
(Ora sì che sembri veramente pazzo, ora stai andando bene. Prima inseguivi il bollino, ora sei tu quello braccato. Da matti. Furiosi per di più. Benissimo, crederanno che sei un pazzo che si arrabatta per sembrare savio. Vedrai per compassione ti chiederanno di prendere qualche cura di farmaci e i duemila euro di ammenda che ti spetterebbero si dimezzeranno o si azzereranno. Sei un diavoletto) (mi hai insegnato tu)
Dopo lo scatto l’elastico si rilassa, si abbandona e, prima di adagiarsi a terra pacifico come una piuma per il meritato riposo, vola. Esattamente! Vola, plana se preferite.
Allo stesso modo io, in quello stato di quasi catatonia dopo lo sbotto elastico, planavo (volavo) a centocinquanta sulla breve diga del Lago Passante e l’acqua che lambiva quasi il piano strada alla mia destra (sono contento che il livello dell’acqua sia alto) e la vallata dei lupi che precipitava aspra alla mia sinistra, mi davano l’impressione biunivoca di navigare e volare.
La fuga dal piacere, la ritirata ignominiosa dalla felicità, sembrava nonostante tutto troppo lenta, alle mie spalle la bellezza continuava a vibrare, a chiamare. Bisognava accelerare ancora e mettere, dietro le spalle, dei muri che mi separassero dalla bellezza.
Se non avessi eretto quei muri, fra me e la bellezza che mi lasciavo alle spalle, allora il rimpianto di perdere la bellezza dei monti sarebbe stato struggente e insopportabile (… pascenti addio).
Così, iniziavo una filiera di sorpassi di automobili e camion che procedevano verso giù più lenti di me. E se qualcuno di essi sembrava veloce, io, pur di ispessire rapidamente il muro anti-rimpianto fra me e la bellezza della montagna che si allontanava, andavo ancor più veloce per mettere dietro di me un altro mattone (un altro veicolo). Devo anche ammettere che i sorpassi danno una certa ebbrezza, sono capricciosi e sono un ulteriore tachimetro per misurare la velocità, oltre l’adrenalina di cui già vi ho riferito Signori. Infatti, senza alcun termine di paragone, la velocità è praticamente nulla, insignificante e l’effetto è che la bellezza del monte ti raggiunge e ti divora, come la sirena Partenope (la sirena Leontine) (adesso anche della sirena divora uomini mi dai? Sono solo una discreta voce interiore) (ma le voci sono dentro o fuori di me dal momento che tutto ciò che è nell’intelletto è stato prima fuori di esso) (bravo mi citi Locke, ma siccome tu intelletto non ne hai, sei stupido, allora per te Locke non vale. ahahah fa lo gnoseologico adesso, idiota!) (allora beccati questa, sirena ammaliatrice che non convincerebbe NESSUNO, Bacone dice che per conoscere l’esterno ci sono autorità, ragione e sensi percettivi, ma che solo questi ultimi permettono un approccio massimale alla verità. Così anche se io sono stupido e ragione non ne ho, come tu dici) (infatti è così) (ho sempre i sensi, perciò la verità la conosco, eccome! NESSUNO sarebbe Ulisse se non l’hai capito. Becca!)
La sirena Partenope (le mie montagne) si innamorò di Ulisse fino all’annullamento di sé, cercò di ammaliarlo col canto (era Betty che cantava, in verità) e Ulisse, per non rinunciare a sentire il canto meraviglioso e nello stesso tempo non diventare il pasto della donna pesce, si fece legare all’albero maestro della nave. In questo modo avrebbe potuto gustare il canto e non cadere nella tela della sirena (ho udito le sirene dell’ambulanza Partenope). Viceversa io non volevo udire il richiamo dei monti perché, ben conscio di non potervi in alcun modo resistere, avrei ceduto e di conseguenza avrei rinunciato per sempre ad Itaca, (a Tara di via col vento) al ritorno alla mia casa ricca di sole. Per sempre.
Quando non si vuole udire un suono o un rumore e le mani sono legate e impossibilitate di tappare le orecchie, qual è l’unica possibilità Signori? Cantare o gridare più forte della sorgente del disturbo uditivo, direi io. Ed io come potevo comportarmi per soverchiare il richiamo della bellezza se non facendo urlare di più il bicilindrico di Borgo Panigale? Cosa potevo fare per mortificare la bellezza (cogli l’attimo) (ero cicala all’andata e formica al ritorno) se non cercare bellezza in una stimolazione maggiore dei sensi? Rumore del motore, freddo del vento vespertino sulla pelle, gusto di tutte le particelle di pollini in sospensione e compresse con forza in bocca dall’aria contraria. Odore di benzina. Visione di curve volanti, di abeti e pini che diventano macchia. (e fanno cinque! Cinque sensi) (cucù settete!) (maledetto)

Un commento a “Senso e Rivelazione – Parte Terza”

  1. Andrea dice:

    I dialoghi con se’ stesso stanno diventando sempre piu’ convincenti, anche se la frequenza aumenta.
    Nel complesso il lungo monologo rende benissimo l’idea di una mente disturbata…

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