Il Rancore.
Pubblicato da maelstrom il 25 dicembre 2009
Collana Racconti Gotici
MIMMO BURZACHECHI
IL RANCORE
Ad Alexandre Dumas padre,
che bene ha illustrato
il sentimento spontaneo del rancore
senza intendere vendetta.
«Serbare rancore è una partita persa. Per sempre.»
Lewis B. Smede
(I)
Rancore. Ah beh, il rancore ha una vita tutta sua, non fa parte della vita umana. Dice: «Ti hanno fatto del male, vendicati.» Non dice: «mi hanno fatto del male, mi devo vendicare.», no, non dice così.
«Ti hanno fatto del male, ti devi vendicare.», è la voce di un’altra vita dentro di sé. Punto. Questo è. Così capita.
Alcuni uomini, addirittura, danno anche un nome al rancore che li abita come un inquilino. Tanto è insistente la voce del rancore dentro la loro testa e tanto è costante nel tempo che, per non rischiare di confondere quella voce con la propria, quei consigli con i propri, si dà un nome. Semplicemente si dà un nome a quell’ospite inquieto.
Carlo chiama la voce del rancore che lo perseguita, Orchidea. Eh sì, dà un nome femminile al suo rancore, perché Carlo è un po’ maschilista e in qualche modo pensa che il rancore sia una cosa negativa. Come le donne lo sono per lui. O almeno lo sono diventate. E poi diciamo la verità Carlo è un intenditore. Orchidea. Vediamo, Orchidea è un nome un po’ frivolo ed un po’ profumato. È un nome che non si sente tutti i giorni, ed appartiene a una “tipa” un pochino vanitosa. Sì è così anche se non la conosci, basta sentirlo. Ed il rancore di Carlo così è. Un po’ vanitoso, un po’ pericoloso. E Carlo lo sa. Carlo ha imparato che le donne sono belle e a volte anche pericolose. Ed è per questo che il rancore si chiama Orchidea. È bello, lo fa sentire forte e poi in pericolo. Non sa se ascoltarlo o no. Il rancore è come quella bella ragazza che porta il pane ai dirimpettai del vicolo dove abita. Non sa se avvicinarsi o no dopo quello che è successo. E ma…. Questo è un altro conto, se avvicinarsi o no. Che sia bella e che gli si mostri bella è una cosa naturale. Come, d’altro canto, è naturale che il rancore lo faccia sentire bene. Per l’esattezza si sente speranzoso Carlo. Orchidea lo lusinga con l’idea che tutto possa tornare presto a posto. Non come prima, ma a posto. E che vuol dire a posto? Che l’energia che gli hanno tolto Carlo se la ripiglia. Si tratta un po’ di scegliere se riprendersela con l’aiuto di Orchidea o se ricaricare le batterie con le proprie forze, dopo che le batterie hanno reso l’anima qualche mese fa. Bel dilemma. Vabbé che importa adesso, si dice Carlo, Orchidea c’è ed è questo l’importante. Lei lavora, io alla fine decido se seguire il suo piano o no, dice Carlo fra sé, una via d’uscita c’è, se serve la inforco altrimenti lascio perdere. Carlo lo sa che Orchidea è un po’ insensibile, ma non la reputa cattiva. Orchidea mica è stata educata a perdonare. E nemmeno è tanto umana per capire che se fa alcune cose che non vorrebbe si facessero a lei altra gente può soffrire. È come uno spiritello balzano, ma infondo buono che combina guai senza rendersene conto. Quando ti hanno fatto del male questo devi fare: affidarti ad una bella ragazza capricciosa e piena di potenzialità a cui non saprebbe dire “di no” nemmeno un fraticello del convento a ovest della città. Questo devi fare, affidare la cosa al tuo migliore avvocato e poco importa che metodi usa, l’interessante è vincere la causa, la professione è la sua. Il mandato è il suo. Tu paghi il tuo tributo di tormento e hai fatto la tua parte. Certo il dubbio che il rancore possa usare dei metodi poco leciti, che tu non useresti mai viene. Ma che devi fare del resto? Le leggi civili e dello Stato non ti tutelano mica. Tutti sembrano proprio liberi di farti del male e di farlo impunemente perché non ci sono leggi per ogni cosa. Anzi alcune leggi sembrano quasi premiare chi ti ha fatto del male. Ma dove siamo finiti esclama Carlo fra sé mentre fiuta il pane fresco e ancora tiepido e buono buono che transita, come ogni giorno, dall’altro lato della strada. Sembra quasi che se uccidi qualcuno, che poi voglio dire soffre per un secondo se lo uccidi, sei il più grande criminale della storia, invece se fai soffrire qualcuno per mesi mesi e mesi, lo torturi per anni, lo porti a desiderare lui di morire invece non sei un criminale, così medita Carlo fra sé. Eh, così succede, così. Anzi, sai che ti dico, biascica Carlo nella sua testa che chi tortura il suo prossimo per benino, lo cuoce e rigira in un supplizio lento e in una fornace allegramente rosata è considerato un eroe o un eroina. Emancipati li chiamano. Emancipati un corno, mia cara Orchidea, esclama Carlo ora ad alta voce. Poi si preoccupa Carlo, si dice che parlare da soli si il preludio della follia, ma lui parla con Orchidea, diamine, non da solo, dunque può star tranquillo, non è la follia che si affaccia alla sua coscienza, è solo un po’ di rabbia, un po’ di rancore. E però, però…
Però Orchidea ha ragione. Diciamoci la verità, la colpa è un po’ della legge, ma la legge è fatta dagli uomini, dal loro senso comune. La colpa è degli altri, di questo Carlo è profondamente convinto. E questo è già un passo avanti per Carlo rispetto a quando lui pensava che fosse colpa sua. Un passo avanti che ha compiuto Carlo, sì, ma un merito di Orchidea, è innegabile. Eh sì, perché finché non c’era il rancore Carlo era convinto di essere il colpevole, l’inadeguato, il reietto.
E poi, poi è arrivata lei, Orchidea. È arrivata come un sentimento mellifluo, come una bella donna unta d’olio profumato che scivola fra le braccia di Carlo e un po’ si fa abbracciare, un po’ sfugge. Arriva Orchidea e insegna a Carlo a dividere le responsabilità. Questo fa il rancore. Mette equilibrio sui piatti della bilancia. Distribuisce le colpe. Magari, all’inizio, sembra che metta troppa colpa sul piatto degli altri, ma diamine è comprensibile, così sussurra Orchidea a Carlo. C’era tanto peso sul tuo piatto delle colpe, Carlo, che ho dovuto mettere una bella asta di ferro sul piatto degli altri. Quello è sceso vertiginosamente per il peso che gli ho deposto sopra. Ma proprio velocissimo. È naturale che il tuo piatto sia volato un po’ in alto come alleggerito. Poi si assesteranno allo stesso livello. Io peso bene colpe e pene.
Non pensare a questo adesso però, goditi il volo Carlo, goditi la leggerezza. Quanto peso avevano messo gli altri sul tuo piatto, nella bilancia. È anche giusto che per un po’ tu te ne stia su, in alto. E loro giù all’inferno.
Così dice il rancore a Carlo e questa teoria leggera, profuma come un fiore. Ecco un altro motivo per cui il rancore si chiama Orchidea.
Il rancore non fa male a nessuno, il rancore equilibra le cose. Eh sì, dice Carlo, io ero andato troppo giù, adesso devo andare su. Ha ragione.
E siccome siamo collegati io e quegli altri che mi hanno fatto del male, non posso andare su io da solo senza che loro vadano giù.
È una cosa naturale, è ovvio. Siamo collegati. Braccia di ottone, contrappesi, catenelle, piatti, aste di ottone. Tutto, tutto ci collega, non possiamo staccarci. Siamo sullo stesso macchinario e il nostro destino è legato. Punto e basta, non ci sono altri sofismi per definire la cosa. Siamo legati. E quindi io vado giù e loro vanno su. Se io voglio andare su devono scendere loro. Ha ragione, ha ragione basta, non c’è altro da aggiungere.
E poi. La bilancia è una cosa. L’altalena è un’altra. Sull’altalena, pensa Carlo, non si sta mai in equilibrio. Sempre uno sale e l’altro scende, sempre. E poi si inverte la questione. Ma è un’altra storia. Qua si tratta di risalire perché mi hanno fatto del male. Del male. Lo dice ad alta voce Carlo che ormai è un vecchio magistrato solo e amareggiato.
Oh no, di nuovo. L’ho fatto di nuovo ho parlato ad alta voce ed ero da solo.
Carlo si corica. È la prima volta in vita sua che prova un sentimento come questo. Rancore. Eh sì, rancore. È da stamattina che gli batte in testa come un picchio su un albero. E poi gli ha dato il nome Orchidea. Adesso dorme Carlo, prima di addormentarsi un po’ di lacrime gli hanno attraversato la faccia sul lato che non era poggiato sul cuscino. Non sogna niente Carlo, non sogna niente, dorme ma sa che le ore passano veloci. Lo sa anche nel sonno. Anzi ha fretta che passino, Orchidea gli ha stimolato tante idee, tanti propositi, tanti entusiasmi. Carlo vuole fare, vuole agire, non vuole stare fermo come ha fatto negli ultimi mesi.
Vuole vedere gente, vuole costruire delle cose, vuole spendere dei soldi. E non vede l’ora che la notte passi per andare a fare tutto con Orchidea nella testa. Vuole uscire e sbuffare vapore caldo che diventa nuvola a contatto con l’aria fredda di dicembre nelle strade sature di gas di Milano.
Passa notte, passa veloce. Prendi il tuo tempo, ma passa veloce. Ho da fare, dice Carlo. Devo vedere dove sono loro. Cosa fanno. Se esistono ancora. Se sono felici. Devo vedere se il male che mi hanno fatto ha un colore o un suono. E li devo studiare. Me lo ha detto Orchidea. Mi ha detto così Orchidea: studiali, impara le loro mosse, i loro luoghi, i loro orari, le loro vite. E poi metti quello che hai scoperto in una cassetta di sicurezza. La chiave la tengo io.
La tiene lei, Orchidea. Ed io? Devo aspettare che decide lei se aprire la cassetta? E se poi soffro ancora a vedere il colore e ad ascoltare il suono del male che loro mi hanno fatto? Orchidea ha ragione, ma a volte, non so mi sembra un po’ superficiale. Si fa presto a dire osserva, scopri, conserva e dammi la chiave. E ma lo devo fare io, dice Carlo. Io sono debole.
Ed è in quel momento che Carlo si sveglia con una nausea atroce e sconosciuta. Orchidea è davanti a lui, non più nella sua testa. E gli dice che lui è debole perché la caccia. Ha gli occhi fiammeggianti Orchidea. E dice. Finché tu mi continui a cacciare rimarrai sempre debole e malato. Carlo le chiede perdono, è spaventato.
Piega la fronte poggiando il mento al petto e le offre la testa per rientrare. Gli occhi di Carlo sono fiammeggianti. Fa una doccia e torna al letto. All’indomani andrà a vedere, a scrutare, a scoprire, a prendere nota. È una promessa che Carlo si fa. Mai più debolezze. Mai più.
(II)
Rancore. Ah beh, dopo i dubbi della sera e dopo che lo ha covato al caldo, sotto le coperte tutta la notte, il rancore non va più via. Ormai ha messo radici, pensa Carlo. E del resto io non sono il tipo che dopo avere dormito con qualcuno mando via questo qualcuno. Orchidea non è proprio “qualcuno”, lei è il rancore. Ma ho sempre dormito con lei, pensa Carlo che vuole a tutti i costi trovare un appiglio, sebbene flebile, per non mandare via il suo conforto che sono quella rabbia e quella nuova energia che sembrano dargli linfa, linfa perduta, linfa insperata. Un po’ di grinta.
Viene il mattino e Carlo è ancora tutto carico e vibrante di proponimenti.
Questa mattina, per lui, niente musica classica al terzo canale della filodiffusione, niente melanconici programmi sui retaggi della guerra o su Benedetto Croce. Stamattina si esce, ci si mischia alla vita come il succo di frutta nell’acqua. C’è un bel sole. Fra freddo, ma c’è un bel sole. Va a piedi. La macchina non sa nemmeno se parte dopo tanti mesi di romitaggio in casa. Ma non gli importa nemmeno considera l’idea. Per il lavoro che Orchidea gli ha commissionato, la macchina sarebbe solo un ostacolo. Deve avere la massima mobilità Carlo deve pedinare, tampinare, mimetizzarsi, nascondersi velocemente se necessario. Imbocca Via del Mare e fa colazione a Via Spezia. Cappuccino e croissant alla marmellata. Ah da quanto tempo. Che fragranza, che calore, che bontà. Del tutto simile al pane caldo e inafferrabile che gli scorre sotto casa ogni mattina. Poi, ben pasciuto, Viale Liguria, Viale Tibaldi, Viale Toscana e infine… oddio, ha un tuffo al cuore. Corso Lodi. Fra pochi passi, all’incrocio con Porta Romana c’è il suo ufficio. Dove non mette piede da mesi.
Pazzesco. Io il fondatore e il proprietario che mi devo sentire come un visitatore al mio ufficio. Così dice Carlo ad alta voce mentre un passante che riconosce appena gli dice buon giorno architetto, parla da solo stamattina? E sorride e se ne va sornione, come se fosse naturale che l’architetto parlasse ormai da solo, come se chissà cosa si dicesse in giro dell’architetto. E chi poteva saperlo.
Sì, sì parlo da solo gli grida dietro Carlo. Buon Natale comunque, buon Natale architetto risponde quello un po’ vergognoso per non avere fatto gli auguri per primo, visto il periodo.
Al diavolo pensa Carlo e prosegue, Porta Romana lo attende. Ma adesso deve iniziare a fare attenzione. La zona è calda ci potrebbero essere loro. Carlo sente la voce di Orchidea nella sua testa. Loro, gli sibila con cattiveria. Loro. Maledetti loro. E non ti azzardare a chiamarli per nome sai. Nemmeno una telefonata in tre mesi. Maledetti mangiapane a tradimento. Vermi famelici, ansiosi di divorare la tua carne Carlo. Ah beh, ti farò risalire Carlo, vedrai come andranno giù loro. Vedranno se era meglio così oppure come dicevi tu. Squali, Carlo. Sono squali non te ne sei accorto? E ma adesso si accorgeranno loro di che pasta sei fatto tu.
Guarda! È l’architetto Grisoni, quello della Residenziale Grisoni. Lo speculatore. Sta andando sicuramente da loro. Non è che ci volesse poi tanto a convincerli in tua assenza, ma insomma vederlo passeggiare qui, calpestare il tuo cadavere Carlo, i resti della tua civiltà sconfitta a me sinceramente fa scattare un impulso che non ti posso raccontare. Altrimenti non sarei io. Ma se fossi in te, come minimo, e dico come minimo del rancore ce l’avrei anche verso di lui.
Comunque, non è lui il nostro obbiettivo per il momento. Devi beccare loro. E poi raccontarmi tutto. Adesso tocca a te. Io me sto qui. Buona. Scopri, insegui, vedi e capisci. Una cosa già l’hai scoperta. Ma chiediti anche se Grisoni sia qui solo per il progetto di Porta Sempione. Non è che per caso vuole fare anche il Natale con loro? Lo sai che io sono il rancore, e che il sospetto è mio fratello? Mi piaci Carlo, vai così che vai forte. Non stare più a commiserarti come hai fatto fino a ieri sera, sbava tutto il tuo rancore. Vai che sei un grande.
Sì. Sì. Sì! Sono io. Finalmente. Gli faccio vedere io a loro. Gli faccio vedere io!
Grisoni, prega anche tu che ricordi il tuo nome, perché se lo dimentico, come ho dimenticato i loro nomi troppo dolorosi per me, allora anche tu dovrai precipitare nel baratro del piatto della bilancia che scende. Prega che non dimentichi anche il tuo nome, così rimugina Carlo nella sua testa troppo affollata di voci e pensieri.
E vede Camilla, sua moglie, uscire dal portone del centro direzionale di Porta Romana a braccetto con Grisoni. Impunita, pensa Carlo di getto senza scomporsi più di tanto. E poco dopo le sue figlie raggiungono la coppia e afferrano il braccetto l’una della mamma, l’altra di Grisoni.
Impuniti, pensa di nuovo Carlo, per nulla scomposto. Hai visto? Seguili dice Orchidea. Accidenti, non c’è bisogno che tu me lo dica, li seguo eccome!
La cosa strana, sai Orchidea, è che non provo odio. Voglio solo vedere dove vanno, voglio studiarli, voglio darti abbastanza informazioni perché tu li butti giù dal piatto della bilancia. Perché tu li rovesci dalle loro patinate odiose vite.
Ma Orchidea non ha promesso questo a Carlo. Gli ha solo promesso che farà risalire il suo piatto della bilancia e che quelli scenderanno. Gli ha promesso equilibrio, non vendetta.
Il rancore è una cosa, la vendetta è la sorella cattiva.
Entrano nell’atelier Audemars Piguet. Carlo è vestito in modo così sciatto e dimesso, che anche se li segue a breve distanza, non può essere riconosciuto.
Mentre la commessa, vestita tutta di rosso con vistosi orecchini bianchi forse in avorio, fa vedere il nuovo modello di orologio ad ottagono alla moglie di Carlo e al resto della compagnia, lui ripensa triste al motivo della rottura con la sua famiglia ed il suo ufficio.
Grisoni vuole a tutti i costi costruire un palazzo a 13 piani a Porta Sempione.
Carlo non vuole deturpare quello che già esiste nella sua Milano. I permessi ci sono per demolire e ricostruire, ma diamine è una questione affettiva, non di guadagna, dannazione. Un po’ di romanticismo, che cazzo.
Sua moglie e le sue figlie, sono d’accordo con Grisoni. Che sarà mai demolire un vecchio stabile per costruire una meraviglia dell’architettura e del progresso? E poi legare il nome dello studio ed il nome della famiglia all’opera porterà profitti economici e di prestigio, immenso lustro nella Milano che conta. Così dicono la moglie e le figlie di Carlo.
Carlo protesta un poco e rimane inascoltato. Lascia lo studio, non risponde al telefono, non risponde alle lettere. Soffre, il suo mondo è crollato. Il suo cuore è pugnalato.
Sua moglie e le sue figlie, Grisoni escono tutti allegramente con un bellissimo pacco della gioielleria. Hanno comprato l’orologio Audemars. Almeno sedicimila euro. È per Grisoni, Carlo lo sente.
(III)
Il rancore
Rancore. Ah beh, non ci sono più dubbi Carlo. Non ce ne sono più. Il dubbio, sai, equivale alla speranza. Anche se lo chiami sospetto, hai sempre la speranza che il sospetto muoia. Infatti i miei fratelli muoiono presto, poi rinascono tante volte. Ma io non muoio, Carlo. Il rancore non muore. Muore anche mia sorella, la vendetta, ma non muoio io.
Io sono l’abitante più antico del mondo. Ma vedi come sono bella? Le vedi le mie forme? Vedi come è liscia la mia pelle? Io sono il rancore. Io sono l’orchidea dei sentimenti. Io sono vecchia, ma non invecchio. Abito nel cuore dell’uomo dalla notte dei tempi e mai più lo lascerò.
Quando muore il dubbio, quando muore il sospetto, quando muore la speranza, quando muore l’entusiasmo, quando muore il coraggio, quando muore il coraggio e quando infine neanche la vendetta ti dà più soddisfazione, sorgo io l’immortale, il rancore. Orchidea.
Io sorgo come la prima stella della sera, la più luminosa. E sto per sempre sul capo chino degli uomini. Gli uomini strisciano col ventre al terreno sotto la mia luce vespertina e vengono a me penitenti.
Ne vengono di tutte le razze, di tutti i colori. Ne vengono dai giovani torti subiti e anche dalle ingiustizie incancrenite. Vengono, capelli al vento e cuori all’aria.
I più numerosi dei miei striscianti umani, sono quelli che si sono già vendicati. Mia sorella, la vendetta, li ha sedotti e poi abbandonati. Puff! L’esaltazione di un attimo e poi li ripiomba nella autocommiserazione.
Ti sei vendicato? E che hai ottenuto? Hai riavuto nulla? No! Mia sorella vendetta è ingannevole e un po’ civetta. Va con tutti e poi li abbandona.
Io no invece. In ogni caso non ti lascio mai, mai. Mai. Mai, dice Orchidea nella testa di Carlo, mentre le ore passano, passano e i fiori crescono, crescono.
Non ci sono più dubbi Carlo. Spalanca il tuo cuore accoglimi per sempre. Io sono la tua migliore compagna, la più affidabile. Io sono il rancore.
Io sono qui per farti compagnia e per rassicurarti. Io sono qui per farti sentire che non è inutile la tua vita. Le vite inutili sono quelle degli altri e tu devi mettere benzina sul mio sacro fuoco. Odiali.
Fa in modo che loro siano il tuo chiodo fisso ed il tuo tormento pernicioso. Falli annidare nelle tue vene e nei tuoi ventricoli come demoni. Fa in modo che quelli che ti hanno fatto male e si sono presi tutto quello che avevi, continuino a tormentarti anche nei sogni.
Il mio fuoco è sacro e beve benzina e beve dolore. Ma Carlo, è il prezzo del calore.Vuoi stare al calduccio? Vuoi avere una intimità domestica? Vuoi un po’ di atmosfera? O vuoi vivere all’ombra gelata del rinnegamento di quegli sconfessati che si godono le tue ricchezze, il frutto del tuo lavoro. Il frutto del tuo affetto. Il frutto del tuo altruismo.
È questo che vuoi? No davvero, per cui non ti rimane altra soluzione che alimentare il rancore.
Io sono fuoco sacro. Dammi benzina.
E non ti deluderò.
Non ti deluderò.
(IV)
Rancore. Ah beh, è una grande invenzione. Sembra che la natura abbia voluto quasi provvedere alle lacune della legge.
Eh sì, si dice Carlo fra sé e sé. Perché la legge non punisce quella stronza che si è apparentata con Grisoni. Si è messa con lui perché suo marito, cioè io, con le sue stupide crisi di coscienza non speculativa la faceva incassare di meno. Mah, un grattacielo moderno a Porta Sempione. Inaudito. Le mie figlie poi, le streghette americane… Quelle poi sono meglio della madre. Almeno la madre non ha il mio sangue. Loro due invece sì, sciocche ninfette.
È proprio vero, la natura ha voluto creare il rancore per sopperire alle carenze della legge.
Se mi avessero ammazzato, tanto per dire, non mi avrebbero fatto soffrire così tanto. Un bel complotto fra le mie tre ragazze e quell’aguzzino di Grisoni e via. Avrei chiuso gli occhi per sempre dice Carlo. E pace. Punto.
Tre metri sotto terra, e pace. E questo Natale me lo sarei passato bello sereno.
Però, però. Però… Poi se li avessero beccati i benpensanti. Ah, anatema, sacrilegio. La vita è sacra avrebbe sentenziato qualche imbecille di procuratore esponendo il suo impianto accusatorio contro di loro.
La vita è sacra. E li avrebbe condannati.
Io, invece, li avrei odiati di meno. Ma se sapessero cosa sto passando, deh, forse tornerebbero indietro a uccidermi. Pietosi.
Pietosi, ripete Carlo meditabondo. Pietosi, pietosi, pietosi.
Deh! E invece in questi casi la legge che fa? Niente. Un cavolo. Una palla di neve e te la tira addosso beffarda. Ride, ti gira le spalle e se ne va. Fra i suoi fumi, fra i suoi odori. Ti lascia l’amaro di quello che hai perso e non ti aiuta in nulla. Ride, ride la meretrice e se ne va.
Mica esiste una legge che punisce chi ti mortifica al punto da lasciare il tuo ufficio e la tua famiglia. Mica esiste una legge che punisce chi non ha il romanticismo. Non esiste neppure una legge che imponga alle figlie di amare il proprio padre. E non esiste legge che leghi la moglie, cui hai fatto tanto bene, a te per sempre. Non esiste una legge che faccia vedere la bellezza del rispetto a chi non ce l’ha. E non si può imporre il rispetto per legge. E non si può imporre di amare una immaginata passata più del denaro. Non si può, non si può. Non c’è legge. Non c’è giustizia.
Ecco allora mamma natura che ci pensa lei.
Ci penso io, dice Orchidea nella testa di Carlo.
Mamma natura, prosegue Carlo, ha inventato il rancore per mandare un messaggio alle vittime. Non siete inascoltate, mie piccole vittime, non siete sole. Se provate rancore, vuol dire che avete la giustizia dentro di voi.
E viene la notte. E Carlo dorme dondolato dal dolce sbattere del rancore sulla sua coscienza. Avanti e indietro, come un’onda. E sogna Carlo, questa notte sogna.
Nel sonno vede materializzarsi le sue figlie dai fumi della nebbia del mattino di Natale. Nel sogno le sue figlie annunciano al padre buono che si sposeranno presto, nello stesso giorno, entrambi. E che il loro desiderio sarebbe quello che il loro padre buono le perdonasse e intervenisse al matrimonio.
Nel sogno Carlo vede materializzarsi dai fumi della memoria una tomba solitaria e sporca. C’è scritto Grisoni e qualcos’altro. È il giorno di Natale e nessuno va a trovare Grisoni. Finalmente un bambino arriva e si inginocchia sulla tomba abbandonata. È affetto da amelia. Ha solo le gambe, per di più corte, le braccia non le ha proprio.
Carlo si avvicina al bambino e gli chiede se conoscesse l’uomo della tomba, Grisoni. Ed il bambino gli risponde che è suo nonno.
Carlo gli chiede come è morto. Ha avuto un infarto risponde il piccolo. Gli racconta di un affare andato male, di un grattacielo che non si è potuto costruire dopo che suo nonno aveva speso tutti i suoi soldi per la progettazione e i permessi. Aveva dato anche delle “mazzette” dice il bambino a Carlo, ma non c’è stato verso.
Quando hanno bocciato definitivamente il progetto, il nonno è morto.
Non era proprio il nonno, dice il bambino, era il compagno della nonna. Il nonno non lo conosco. Però mi dispiace che nessuno venga a trovare questo altro nonno nemmeno il giorno di Natale e così ogni anno mi faccio accompagnare da mamma qui al cimitero. Lei mi aspetta in macchina con il suo nuovo compagno.
E il bambino se ne va.
Il sogno di Carlo prosegue. Si trova in banca, sta chiedendo al direttore di vendere tutte le azioni del suo studio di architettura. Vuole la liquidazione del 71 per cento che è il suo.
Le azioni dello studio crollano. Carlo ha accettato di “vendere” le sue azioni a un prezzo talmente basso, che il restante pacchetto azionario vale ormai una inezia.
Carlo ha ricavato un bel gruzzolo dalla vendita delle azioni. Con quei soldi organizza una manifestazione per difendere il vecchio panificio di Porta Sempione. Paga la gente per essere lì.
Paga un impiegato del Comune che deve decidere per trovare qualsiasi cavillo per bloccare i lavori. L’impiegato ha uno stipendio che a Milano non gli consente nemmeno di arrivare a fine mese. Studia giorno e notte. Trova dei riferimenti a una probabile presenza archeologica sotto Porta Sempione. Fine della storia i lavori sono bloccati per sempre.
Il sogno prosegue. Adesso Carlo è al matrimonio delle figlie. Ha detto che non vuole avere mai più niente a che fare con loro, ma che al matrimonio acconsente ad esserci. La più grandina è incinta, ma l’abito da sposa le dona moltissimo ugualmente. La piccola non è incinta. Carlo sa che la figlia piccola non può avere figli. Lo sa da quando era bambina. Prende lo sposo da parte e si presenta.
Dice allo sposo che gli è molto grato di avere accettato di sposare sua figlia pur sapendo che non può avere figli.
Lo sposo, fa una scenata e scappa.
L’altro matrimonio si deve celebrare lo stesso. In fondo l’uomo fuggito non era un granché.
Dopo le nozze Carlo brinda con la sua figlia maggiore che sta, però, per avere una crisi di nervi. Ha anche nausea.
Un po’ dipende dalla gravidanza e dalle sue alterazioni, un po’ si sente in colpa per essersi sposata nel giorno del dolore di sua sorella.
Carlo le offre un tranquillante. Lui da quando non ha più una famiglia, ne fa un uso metodico.
La figlia maggiore, soprattutto come per esprimere un segno di riconciliazione col padre, accetta il tranquillante. In fondo anche lei li usa.
Carlo le propina una farmaco alla talidomide. È un vecchio rimedio, ma lui è un uomo all’antica, di vecchio lignaggio. Il principio attivo della talidomide è un sedativo ed anche un rimedio per la nausea.
Prendilo, dice Carlo che sa bene che la talidomide può portare deformazioni del feto facendolo nascere con amelia o focomelia.
Al battesimo del bambino senza braccia, Carlo si presenta con la nuova compagna. Ha ricoperto d’oro la la ragazza della panetteria che la sua ex moglie e le sue figlie dileggiavano con condiscendenza finché stavano tutti insieme, quando lei passava sotto casa loro con il grembiule sporco di farina.
Carlo si sveglia. Per fortuna non è vero nulla. Il rancore, la maledetta Orchidea. È stata lei a farmi fare questi orribili sogni. Voglio scappare a confessarmi, oggi è Natale ricorda Carlo d’improvviso.
Squilla il campanello. Carlo si infila la sua vestaglia rossa e scozzese ed apre.
Non fa in tempo a vedere bene i loro volti, gli occhi gli si colmano di calde lacrime mentre le figlie lo abbracciano e la moglie lo bacia sulle labbra.
Al seguito c’è Grisoni con il pacchetto dell’atelier Audemars Piguet.
È lui a consegnare l’orologio a Carlo. Un biglietto rosso e lucido recita: Papà, Carlo, amico mio. Abbiamo sbagliato accetta le nostre scuse contrite e pentite. Buon Natale.
Carlo è felice.
(V)
Il rancore
Non ti libererai mai di me, Carlo. Io sono il rancore. Ricordi quello che ti ho detto prima? Non muoio mai.
Adesso sei commosso, se animato dai migliori propositi, sei spaventato da quello che hai rischiato di perdere e sei spaventato ancora di più dalla vendetta che hai rischiato di attuare sospinto da me.
Goditi questo momento di grazia, perché presto scoprirai che il tradimento che hai subito non svanisce come i tarallucci nel vino. Non si scioglie.
Se non fosse accaduto, non avresti sofferto tanto. La sofferenza ti ha provato Carlo. Non sarà mai più come prima che succedesse. Ma è successo.
Non ti libererai mai di me.
FINE
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31 dicembre 2009 alle 1:43 pm
Ciao Mimmo,
molto bello, come tuo solito.
Scrittura impeccabile. Forse un po’ troppo estremo l’espediente del talidomide, che (a mio parere) toglie un po’ di verosimiglianza al resto.
Comunque una lettura piacevolissima.
Grazie per avercelo fatto leggere!
17 febbraio 2015 alle 1:34 pm
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5 luglio 2015 alle 5:54 am
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