Carnem Levare – racconto di Carnevale
Pubblicato da maelstrom il 23 febbraio 2009
«Il mondo è iniquità: se l’accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice .» Jean-Paul Sartre
Carnem Levare
di Mimmo Burzachechi
1.
È un carnevale, anche quello di quest’anno. Ed ora che non abbiamo più sei anni e nemmeno venti per la verità, qualcuno di noi si chiede che cosa significhi questa curiosa parola che delinea la festa divertente fra quelle dell’anno: Carnevale. Mi chiamo Edward solo perché ho una mamma inglese, Carol, però sono italiano, di Venezia, mio padre si chiama Bruno. La storia che ti voglio raccontare, vissuta da me in prima persona nella mia città un po’ di anni orsono, sembra confermare l’ipotesi che il termine carnevale sia l’unione dei due vocaboli latini, carnem e levare, ossia togliere la carne. Ci sono molte altre teorie sulla parola carnevale, ma alla gente di Venezia non riguardano affatto dopo quello che è successo.
Secondo l’interpretazione del “togliere la carne”, la festa di carnevale precedeva un periodo di penitenza religiosa. La restrizione della dieta al non consumo della carne fino a Pasqua, veniva anticipata con dei bagordi e dei festeggiamenti durante i quali tutto era ammesso, ma proprio tutto. Scherzi, abusi, eccessi, abbuffate e principalmente lussuria prima del periodo di sacrificio e privazione che sarebbe durato tanti giorni. Vi dicono niente le parole Quaresima o Ramadan?
Periodi di astinenza e penitenza si osservano in quasi tutte le parti del mondo, in tutte le culture e le epoche. Nel mondo occidentale, più edonista e disattento rispetto a queste cose, si è pensato di festeggiare alla grande prima della indesiderata quarantena, ossia la Quaresima, i quaranta giorni che precedono la Pasqua cristiana (nonché quella veneziana). E oltre che darsi alla pazza gioia si è pensato che ogni veneziano dovesse indossare una maschera durante questi festeggiamenti. Una maschera per fare ciò che si vuole senza essere riconosciuti? Chissà.
2.
Una maschera di Carnevale, una maschera per coprire il viso serve a nascondere o a far vedere? Ed io? Io sono quello che c’è dietro la maschera oppure io sono la maschera? Dietro la maschera mi nascondo, o devo pensare che fuori dalla maschera mi mostro? Cosa devo pensare, che rendo il mio viso uguale a quello che sono dentro e che il viso che la natura mi ha donato non corrisponde al mio carattere? Inizio a pensare di sì, che sia esattamente così. Inizio a pensare anche che, a Carnevale, nessuno voglia sembrare qualcosa di diverso da ciò che è realmente. Almeno una volta all’anno tutti vogliono esibire la loro potenza, tutti si vogliono spogliare degli obblighi sociali e comportamentali. E l’unico modo di denudarsi da queste cose è vestirsi di carnevale. Ci si traveste per rimanere anonimi nella propria verità? Non saprei se quelli che si travestono vogliano rimanere in incognita perché, magari, non hanno il coraggio di fare un outing di pochi giorni manifestando i colori, il coraggio, la sfacciataggine che gli appartengono, per poi tornare al grigiore del loro impiego in banca già al mercoledì Santo, così presto, ma comunque tutti i commedianti del carnevale che ho incontrato sono le persone più autentiche di sempre.
Sapevo poco di Venezia, mi sono trasferito qui dopo avere passato una intera vita a Brighton nell’East Sassex, nella Inghilterra lenta delle lunghe passeggiate fra i campi e il mare grande. Quando sono arrivato a Venezia, avevo ormai 24 anni. I miei nonni inglesi sono morti nello stesso anno in cui mio padre è andato in pensione. Che motivo avevano mio padre e mia madre di rimanere a Brighton? Solo ricordi e nostalgia, forse avrebbero dovuto pensare che io avevo una ragazza e degli amici lì, un ambiente e che mi sentivo a casa io nato e cresciuto lì. Ma non avevo un lavoro.
Le famiglie pensano che il lavoro sia la vera ancora ad un luogo, l’ormeggio che ti tiene da qualche parte per tutta la vita. Io ho studiato arte, e non ho trovato posto nelle gallerie o alle case d’aste. Così, che altro avrei potuto fare se non seguire i miei in Italia? Ora ne ho 37 di anni e devo dire che ho conosciuto Venezia più in questo ultimo anno che negli anni del master all’università o negli anni dell’infanzia quando, in estate, venivamo a trovare nonna Ada e nonno Giuse.
Sai, bimbo, ero piccolo come te quando venivo qui tanti anni fa ed il sole era più opaco di come è oggi, come una fotografia a colori vecchia e sbiadita, hai presente?
«Sì, come quelle che la mamma tiene calamitate al frigorisero!», rispose Giuseppe piccolo.
Bravo, come quelle. Però adesso non mi guardare in quel modo, birbante, io non sono vecchio come le foto del frigorifero. «Frigorisero si dice!»
No, caro, frigorifero si dice. Te lo faccio vedere sul dizionario di mamma.
«Ed io non fo leggere ancora, quindi non ti credo.»
Sei tremendo. Te lo faccio dire da chiunque che si dice frigorifero. «Ed io non si credo se non lo leggo.»
E bravo, abbiamo uno scettico fra di noi. Ora ti faccio il solletico fino a farti confessare.
«No, ti prego. No no, nooooo, aiuto mamma salvami!»
Va bene ti lascio stare, tanto sei un moccioso, non c’è gusto con te.
«Tanto quando cresco ti fazzo vedere io. Dai finissi di raccontare.»
E tu non sputare come un cammello quando hai in bocca quell’apparecchio. Dove eravamo rimasti? Ah sì. La vecchia Venessia.
«Si dice Venezia, uffa!»
Ah questo lo sai bimbo! E sai anche che Venezia ha tantissimo mare che la attraversa e la cuce e che la fa brillare al sole? In inverno, quando la luce del sole si riflette su Venezia, si presagisce l’estate ed il labirinto d’acqua che scintilla come un filone d’oro solitario e inesplorato sembra godersi gli ultimi avanzi di riposo prima che arrivino i turisti innumerevoli.
E ora silenzio, facciamo una bella sorpresa alla mamma, la sento salire i gradini del portone, arriva, shh. Deve essere allegra i suoi passi tamburellano come le pesanti gocce della pioggia di fuori. Lei scappa dalla pioggia e porta il sole qui dentro, da noi. Deve avere molte buste di cose buonissime, lo intuiamo da come sono energici e briosi, si vede che è ansiosa di vederti nel tuo costume di carnevale e smania all’idea di preparare le chiacchiere con noi infarinarci, friggere e mangiare accompagnati da una buonissima tazza di cioccolata calda. Nascondiamoci, facciamo silenzio e poi, quando lei non ci trova, tu salti fuori, prima la spaventi e poi, e poi… la abbracci.
«Tu vuoi bene alla mamma?»
Che domande!
«E a me vuoi bene come se fossi il mio papà?»
Ma certo! Vieni qui bimbo, lasciati abbracciare. Oh! Sei così tenero quando fai il bravo. Sembri anche più carino, mostriciattolo. Su, bando ai sentimentalismi adesso, nascondiamoci, abbiamo una mamma da terrorizzare con il tuo travestimento.
«Siiiiiiiii. Ma tu non ti nascondere. Fai finza che non mi trovi nemmeno tu. E alla fine io salto fuori.»
Va bene, come vuoi. Allora io resto allo scoperto, tu però fai presto, tua madre sarà quasi alla porta ormai.
Ciao Nicoletta. Com’è andata oggi? Aspetta non dirmi niente, dammi prima il mio bacio.
«Che accoglienza! Penso che ti te lo dovrà meritar un baso ancuo.»
Sì, sì me lo meriterò. Ma hai notato che Giuseppe piccolo è sparito? È sparito! Io non lo trovo da oltre mezz’ora, eh! Chissà dove si sarà cacciato.
«Uh! È sparito? Non avrà a che fare con carnevale tutto ciò? Voi due non me la contate giusta, mica eh! Ora lo trovo mi, non stiamo mica a zogar ale scondariole!»
Se sei brava ti a trovarlo, accomodati pure, io ho cercato in tutta casa. Lo vuoi un mon cheri? Guarda come oscilla davanti ai tuoi occhi Nicoletta, ti vuole, ti cerca. Lo vuoi? E dammi un bacio allora, inutile che protendi il viso per il cioccolatino, prima il bacio.
«Ok, chiudi quegli oci da canagia e beccati sto beso, bastazo de dogana che non sei altro.»
Mi piace sentirti parlare in veneziano, mi intriga. So che ne sei cosciente e lo fai apposta, ma non te la caverai con una cantilena da repubblichina marinara, il bacio me lo devi. Oppure… niente cioccolatino.
«Va bene, va bene, non ci provo più. Su avvicinati, te lo meriti dai, hai tenuto l’Isepe piccolo tutto il giorno, te lo meriti il bacino. Ed io mi merito il cioccolatino.»
Dove vai non scappare, mi hai fregato! Ridammi il cioccolatino allora!
«Prova a prendermi, allora!»
Nicoeta io lo so come funzioni tu, se io non ti inseguo vieni da sola a darmi il bacetto. Vai a cercare Giuseppe, piuttosto. È più di mezz’ora che è sparito. Dai.
«Giuseppe, lo so che sei qui in giro. Quel marameo dell’Edward non ti trova, ma io scovo eh! E se ti fai scovare non mangi le chiacchiere. Se invece esci subito e mi aiuti a preparale, beh, allora le mangiamo insieme a una deliziosa cioccolata calda con cannella e zucchero velo.
Giuseppe, mi hai sentito? Salta fuori su. Giuseppe, dove sei? Ti sei nascosto proprio bene allora! Giuseppe! Isepe! Dove sei?»
3.
«Non lo trovo da nessuna parte, Edward, oddio! Fai qualcosa ti prego, aiutami, fai qualcosa. Il mio Giuseppe. Ti prego».
Cosa? Cosa vuol dire non lo trovi? Stai scherzando vero? Non farmi prendere un colpo, è carnevale, ma non è giustificato.
«Ti sembra che stia scherzando? Dannazione ti sembro seria o no? Il mio Giuseppe.»
Nicoletta! Non adesso. Se è vero che Giuseppe non c’è, non sentirti male adesso. Non è il momento di entrare in una delle tue zone di crisi, tientene fuori ti prego, aiutiamoci.
«E come? O mio Dio ho guardato anche sotto i panni da stirare affestallati in lavanderia dove si nasconde di solito.»
Adesso lo troviamo, coraggio, sarà sceso in strada per farci uno scherzo.
«Edward, come puoi essere così cattivo? Come puoi dirmi che è il mio Giuseppe è sceso in strada nel giorno di carnevale? Ti rendi conto di cosa significherebbe? Chiama la polizia, io non respiro e non parlo, sto morendo.»
È un carnevale anche quello di quest’anno. È sera e per le calle e canali di Venezia si fa baccano, mentre Nicoletta piange ed io con lei mi dispero perché dopo tante ore, l’Isepe come lo chiama lei, non si trova. E la cosa peggiore che sento è il trambusto indifferente di una città che per me è quasi una madre, benché non vi sia nato e cresciuto. Sì farei anche io coì probabilmente. Mi scaraventerei nei badanai più sfrenati del carnevale anche se fosse scomparso il figlio del mio sodale più vicino. Ma, insomma quando capita a te è diverso. Ti rendi conto. Ti rendi conto ahimè. Quanto si possa essere stupidi, è una cosa di cui ti accorgi solo quando perdi qualcuno. Il carnevale, mah, quale festa? Io e Nicoletta siamo due fra i milioni di disgraziati che in questo momento, mentre la laguna gongola felice e leggera, non hanno più luce, non hanno più cuore, non hanno più pace. Siamo due disgraziati in un anno fra milioni di anni che hanno afflitto da tempi antichissimi milioni di anime. E se Nicoletta mi potesse sentirmi ragionare così, ma ho il dubbio che mi senta, mi odierebbe perché invece di pensare alla nostra probabile perdita mi preoccupo del dolore del mondo. Del dolore a carnevale. Che scemenza poi questa… come se quando tutti sono più onesti al dovere, più mesti e tristi, allora si preoccupino del dolore. Ecco questo direi a Nicoletta se mi attaccasse perché penso alla disperazione di tutti, le direi che dopo aver scialato nelle balze del fiume brioso della vita e dopo esserci riposati nel fluire lento alla pianura dell’approdo sentimentale e di quello economico, adesso, senza che ce ne accorgessimo perché guardavamo troppo verso l’alto, verso il sole, il fiume ci ha buttati nel mare. Nel mare eterno della sofferenza. Accidenti, Giuseppe! Fra poco Nicoletta se la prenderà con me, perché non l’ho sorvegliato abbastanza. Ed avrà ragione di farlo. Ah,Giuseppe, Giuseppe mio.
Che uomo sarò per un’intera vita, se sarò il vero responsabile della scomparsa dell’Isepe piccolo o semplicemente crederò di esserlo? Sarò al massimo un pupo di carnevale, che aspetta questa dannata festa colorata per scordare le sue responsabilità?
E forse dovrò scappare da Venezia e anche da Nicoletta. Sì soprattutto da lei.
Addio San Marco e Santa Croce, Cannaregio, Dorsoduro, Castello e Sanpolo; le vostre acque, le fiaccolate, le maschere amaranto dorate nelle vostre vetrine e poi i teatri e i mimi come i gatti e Dario, addio. Spade ispaniche che ancora sembrate tintinnare al sole nelle calle, e nei viottoli, addio. A tutto questo addio.
Addio Nicoletta dai capelli d’ebano e dagli occhi del Canal Grande d’estate. O forse no?
Perso Giuseppe piccolo, ci ritroveremo noi Nicoletta? O forse no? È la cosa più desiderata per me.
Forse mai più.
4.
Della notte carnascialesca ormai rimane qualche strappo di carta colorata e qualche ubriacone per strada. Della nostra notte rimangono silenzi ventosi e ore e ore insonni e il baratro. Non so perché siamo convinti che non lo rivedremo mai più. Non abbiamo il coraggio di dirlo, ma lo pensiamo entrambi.
E ad un mese di distanza, siamo maggiormente convinti che non rivedremo mai più Giuseppe piccolo. Ed i canali brillano di luci ancora un po’ grigie, ma anche un po’ gialle. Luci dell’inverno troppo anziano molto eleganti. Il modo di misurare il tempo, le cadenze, si sa, influiscono sull’umore e sulle convinzioni. I compleanni e i trigesimi, le nascite e le morti, un mese che Giuseppe non c’è, tutto passa per il vaglio del tempo. Io veramente penso che il tempo non esista, almeno non esiste adesso. Io penso che confondiamo le esondazioni delle emozioni con cumuli informi di tempo che passa. Invece è solo il cuore che si ingrossa. È solo l’acqua dei canali di Venezia che non è più acqua ma si modifica in sangue. Nei miei sogni vigili vedo l’acqua i corsi adamantini della Venezia che mi ha accolto quando sono arrivato più di due lustri fa che si tingono del sangue di Giuseppe piccolo e le piccole increspature della superficie prima candida diventare adesso schegge di vetro impietoso e acuminato.
Chissà quanti corpi hanno espresso la loro marcescenza solo la luminescenza delle acque magiche di Venezia. E ormai è tutto sangue. I turisti non lo sanno. Sembra uno di quegli incubi misteriosi dove una forza oscura ti fa veleggiare su prati fioriti e poi ti dirige verso il fuoco o verso la tempesta. I turisti, estatici, scivolano sulle gondole e non sanno che sul fondo dei fossati allagati di Venezia c’è la morte, c’è il sangue. Ah!
Facciamo ormai finta di amarci io e Nicoletta. Ho un’impressione e cioè che il bimbo fuggito, quando c’era, ci distanziasse tenendoci però uniti con le sue mani. Ed ora che non c’è, non ci incolla più.
Dovrò pure tornare a lavoro Nicoletta ed anche tu dovresti pensare di riprendere a…
«Sì, dovrei.»
Non volevo mancare di sensibilità, lo dico per te. Per noi non possiamo impietrirci rispetto alla vita. Se vogliamo vivere ancora. Altrimenti, non ce ne è ragione. Potremmo, sì potremmo.
«La vita continua, piripì piripà, non posso autocommiserarmi per sempre, piripì e piripò, devo reagire, ma che cazzo dici? Mi vuoi rifilare questo cliché di stronzate? Io sono la madre, diamine. E tu come ti senti?»
Io oggi torno in ufficio, e non per questo mi sento bene. Vuoi che ti porti il caffè prima di uscire?
«Sì, grazie.»
4.
Le ho portato il caffè a letto, prima di uscire. Mi ha dato anche un bacio. Ma non mi sembrava un bacio sincero. Sapeva di banana. È sempre stata una ragazza bellissima Nicoletta, ma cinque o sei chili di troppo li ha sempre avuti, senza mai preoccuparsene fra l’altro. Ed a me non è mai importato, anzi, l’ho sempre vista più umana, più fedele. Adesso da quando è sparito Giuseppe piccolo un mese fa, si è messa in testa che deve trovare il peso forma. Fa una strana dieta. La dieta della banana. Prima di colazione, si alza molto presto, e mangia una banana ben matura accompagnata da una tazza di acqua calda, tiepida diciamo. Una di quelle stronzate dei magazine femminili.
La porta dell’ufficio, sembra la porta dell’inferno. Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Ma non è che sia la speranza di essere libero dall’ufficio che devo lasciare. Il ritorno alla vita, di cui l’ufficio ne è esempio, è la perdita della speranza di riavere Giuseppe. “E alla fine io salto fuori”, sono le ultime parole che gli ho sentito dire, io salto fuori. Magari saltasse fuori,magari fosse passato il suo angelo e avesse detto “Amen” in quel momento. Oppure un amen è stato detto ed saltato fuori dalla vicenda della vita. E punto.
Coraggio, devo salire le scale. Spero solo che i colleghi non siano tanto meschini o cafoni e qualunquisti da iniziare con le frasi di circostanza. Meglio l’indifferenza. Non prendo l’ascensore, ho più possibilità di non incontrare qualcuno e di raggiungere la mia stanza senza essere fermato se vado per le scale. E poi voglio godermi il pianoforte composto da tasti di scalini. Ogni scalino una nota amara,ogni scalino un passo verso la morte dentro, ogni scalino un ossicino di Giuseppe piccolo che scricchiola sotto i miei passi colpevoli. Dovrei uccidermi, legarmi un peso e raggiungerlo nel fondo della Laguna. Sono certo che sia lì in preda al freddo. Ma avrei paura di gettarmi nel posto sbagliato, di non affonda affianco a lui, di essere immobile nella morte e di non poterlo raggiungere non avendo più passi, pur sapendo che è lì vicino in canale affianco al mio. Condannato ad essere vicino e separato per l’eternità. Come sono ora. Almeno se ci dicessero che è morto, ci metteremmo l’anima in pace. Invece anche se quel pessimismo che serve a non illudersi ci porta nell’orrore certo di un mondo vuoto senza l’Isepe vivo, da un altro canto l’incertezza ci tiene in bilico in un limbo. Meglio l’inferno ma non il limbo. Meglio sapere la morte è arrivata, che avere paura della sua venuta, di avere il terrore che sia già dietro l’anta dell’armadio di casa tua, o nascosta sotto la catasta dei panni da stirare nel tinello senza che tu non lo sappia o la possa vedere.
Ecco la mia stanza. Meno male, nel corridoio c’è solo Yolanda, la moglie del presidente. Lei è discreta, mi parlerà del lavoro arretrato come se niente fosse. Sì è una donna fredda e altera, ma nella sua apparente insensibilità ha l’educazione morale e pia di non scavare nella ferita.
«Edward, bentornato innanzitutto. Angelina le porterà gli ultimi fascicoli sul caso Piovani in mattinata.»
Tutto come da copione. Eccola, alta e austera, fasciata nella sua chioma castana folta e lunghissima, azzimata e con la pelle d’avorio nonostante i suoi quasi cinquanta anni. I miei colleghi la odiano per la sua severità scostante e sfruttatrice, ma io non posso fare a meno di restarne affascinato. Non so come spiegarmelo, quando sono vicino a lei, in un modo piuttosto casto, percepisco la sua fisicità, uno spirito disinvolto e brioso in lei, una donna con passioni diverse riverse rispetto agli interessi legali ed economici di suo marito. Una donna che, beh a me stesso lo posso dire, con un giovane belloccio e acuto come me una storia se la farebbe, come ultima trasgressione di una età di confine fra il fascino immortale e l’inevitabile appassimento. Si farebbe questa storia, lo sento, certe cose si sentono a pelle, come l’attrazione fisica che ho per lei e che riscopro inaspettata anche adesso nel pieno del mio lutto disperato. Certe cose non muoiono mai. Non che ci siano mai stati segnali in nessuno dei due registri, il mio o il suo, all’infuori di quelli chimici al massimo. Lo sento e basta. Si farebbe questa storia con me, se non temesse di perdere i favori del marito. Donna passionale e viva, trincerata dietro la sua maschera da manager per n on farsi sorprendere dall’antico nemico, la povertà. Vuole mantenere la ricchezza e il privilegio. Il potere e il controllo sugli altri, è viva, ma muore dietro la sua maschera di carnevale.
«Si ricorda della Piovani vero? La donna accusata di avere ucciso il marito per l’assicurazione. Certamente se la ricorda, lei è il migliore dei giovani avvocati dello studio.»
Un complimento premeditato, da becera programmazione neurolinguistica che si usa per motivare i dipendenti lusingandoli. Come se io ci cascassi. Ma il tocco sfuggente delle sue dita sul mio mento poco rasato, quello non è motivazionale. Non lo aveva mai fatto, sento che non si è trattenuta, voleva toccarmi dopo tanto che non mi vedeva e non se ne è nemmeno pentita, ha anche sorriso girando le spalle arrestandosi nel corridoio e facendo dei suoi capelli uno svolazzo incantevole davanti ai suoi sottilissimi occhiali. È una donna così potente che può permetterselo senza essere fraintesa dagli altri. Gli altri, ove mai avessero visto, avrebbero pensato che la donna mi stesse trattando come un bamboccio a cui si tocca il mento come per dire, “coraggio piccolo, obbedisci, un giorno crescerai anche tu”.
Ma io ho sentito qualcosa di diverso.
«Edward, mi dispiace per la sua perdita. Non dovrei dirlo, insomma non vorrei ricordarglielo, come se lei non ci pensasse. Cosa sto dicendo, accidenti. Mi scusi, ma non potevo farne a meno, mi dispiace davvero. Buon lavoro.»
Non si preoccupi, lo apprezzo molto.
E cosa dovevo dirle? Quel momento di fascinazione che avevo subito si è dileguato subito. Non voglio che nessuno parli di Giuseppe, nessuno ne ha il diritto, né ha la bocca abbastanza pulita per riferirsi a quella creatura che ancora non sapeva leggere, senza infangarne il candore.
Vediamo Piovani, è meglio. Se ho deciso di tornare alla vita, ed al lavoro, devo farlo per davvero, sarà meglio.
Non mi convince la tesi che abbia ucciso il marito per l’assicurazione. Non sono ricchi, ma non ci credo lo stesso. Quando ho parlato con lei mi è sembrato che nascondesse qualcosa. Adesso è passato del tempo, acqua sotto i ponti. La Piovani. Non ho pensato a lei per tutto questo mese. Adesso nella mia mente la donna dell’omicidio prende le sembianze facciali e interiori della mia bella Nicoletta. Potrebbe essere che Nicoletta mi uccida perché le ho perso il suo Isepe? Potrebbe sì. E se la Piovani avesse ucciso il marito per passione? Perché quell’industrialotto la tradiva? O perché lei è così giovane e lui che era più grande di lei non le ha mai dato un figlio? Uhmm. E se non lo ha ucciso lei e come dice lei si ucciso da solo? Devo pensarci, devo tornare nella mischia e non mi va. Io vorrei sapere notizie di Giuseppe. I dubbi si accalcano nella mia mente. Fino a poche ore fa, fino a quando tutta la vicenda di Giuseppe era una cosa privata mia e di Nicoletta, ero convinto che Giuseppe fosse annegato. Adesso, l’impatto con il ritorno all’ufficio, con l’acqua gelida della realtà mi fa dubitare. È così evidente che avere una sola ipotesi, quella che ti propina la polizia, è una rassicurazione da una parte, benché agghiacciante. Smettere di cercare e di sperare, infondo, è la scorciatoia per la guarigione dal lutto.
“E alla fine io salto fuori”, aveva detto Giuseppe.
Il signor Piovani non si trovava e poi è saltato fuori il suo cadavere. Martoriato. Che la Piovani, la moglie, sia una specie di strega lo sanno tutti. Ma, insomma, il corpo del marito macellato. Non ci credo. Semmai l’ha aiutata qualcuno, lei non avrebbe avuto nemmeno la forza. Però non mi piace nemmeno l’idea di difenderla. Non è una donna positiva.
“E alla fine io salto fuori”, aveva detto Giuseppe piccolo.
Credo che dovrei chiedere a mia madre di fare un po’ di compagnia a Nicoletta, almeno nelle ore in cui io lavoro.
Pronto, mamma, sono io. Ti disturbo?
5.
«Grazie, Edward tua madre mi sta aiutando moltissimo. I primi giorni, anche se non davo a vederlo, mi dava l’orticaria la sua presenza, ma adesso siamo diventate le amiche che non eravamo mai state. Grazie. Ho deciso che per il momento non torno a lavoro. Voglio ritrovarmi. Voglio ritrovare noi. E non disperarti per la storia che hai avuto con il tuo capo, con Yolanda. Ti ho capito, sai. Forse anche io sarei capitolata con una donna come quella se fossi stato uomo.»
Nicoletta, ti ho privato di un figlio e della fedeltà di marito in poche settimane. Dovrei solo uccidermi.
«Shh. Non sei stato tu. Non pensiamoci più, risorgiamo insieme. Avanti, stringimi la mano»
Nicoletta, io voglio essere perdonato da me, però non voglio cavarmela così a buon mercato. Voglio pagare quello che ho fatto. Siamo in Quaresima fra l’altro. Voglio pagare e soffrire, per averti fatto soffrire. Voglio ricostruire, ma dopo essermi purificato.
«Infatti non ho detto che te la caverai a buon mercato. Io me ne vado con tua madre in Inghilterra per una settimana. E tu te ne starai qui buono.»
Nicoletta io sono pentito davvero.
«Lo so che non mi hai tradito veramente che è stato solo un momento. Ma se non mi preoccupo io, di cosa ti preoccupi tu? Ti amo Edwards anche se non abbiamo più il mio Isepe e anche dopo quello che è successo. E tu mi ami? Voglio sentire solo questo e che tu sia sincero. Non ho bisogno che tu aggiunga altro.»
Ti amo.
«Basta. Non parlare più mi è sufficiente questo. Senti non mi hai più detto niente del caso Piovani? Tutto bene? Ti sta preoccupando?»
Non è che non voglia più parlartene, è che parlarti di lavoro, non so pensavo che richiamasse alla tua mente il mio capo. Il mio capo donna per l’appunto. E non volevo.
«Su abbiamo detto che non ne parliamo più. Io sono la tua famiglia, la tua amica, la tua donna ed il tuo consigliere. Dimmi del caso come hai sempre fatto, chiedimi consigli, ti prego.»
D’accordo. Allora vediamo, da dove come conciare. Credo di avere scoperto delle cose. Ma non ne sono sicuro. Il corpo del povero Piovani è stato massacrato, come sai, ma non secondo uno schema casuale. Un esperto di simboli che ho fatto assoldare dallo studio, ha escluso che si tratti di un omicidio rituale, ma ha il sospetto che sia stato compiuto da gente avvezza agli omicidi rituali. Questo perché sono state tagliate parti del corpo simboliche, anche nessuna appartenente alle mutilazioni di una liturgia. È come se l’omicida o gli omicidi avessero voluto dissimulare l’appartenenza a qualche congrega, ma comunque è come se avessero lasciato il DNA del loro modus operandi. Tipo hanno tirato via reni piuttosto che organi genitali, hanno inciso caratteri latini sul corpo, piuttosto che caratteri molto più antichi. Ma è come se non potevano fare a meno di seguire il loro protocollo.
Questo è quello che mi ha detto l’esperto di simboli, tale Maimone.
Io penso che possa avere ragione. Ed ho elaborato l’idea che chi ha commesso questo crimine possa aver pensato che la vittima non era degna di morire con il rituale liturgico. Finché non trovo chi è stato non ho niente in mano per difendere la moglie di Piovani. Tutto porta a lei. Soprattutto la sua vicinanza agli ambienti esoterici. Sono uscite fuori delle foto mentre lei prendeva parte, ad un sabba. Nuda. Eppure non penso che sia stata lei. Non mi piace l’idea di difendere una donna così, una che beve anche sangue di galli di notte. Ma ancora meno mi piace l’idea che un’innocente paghi un omicidio senza averlo commesso.
«Sembra interessante. Ma come pensi di provare che la donna sia estranea al fatto, anche se trovi i carnefici? Cioè, voglio dire, non sembrerà fin troppo probabile che la signora Piovani sia legata in qualche modo alle persone che hanno ucciso suo marito?»
È vero, infatti questa è la parte più difficile. Preferisco non pensarci, almeno finché non trovo qualche identità probabile per gli esecutori del delitto.
Vorrei farcela, sai Nicoletta? Vorrei risolvere positivamente questo caso e fare assolvere la donna. Per me, per noi, per Giuseppe. Come un riscatto capisci? E poi se tutto dovesse andare bene, guadagnerei tanti soldi da poterti comprare quella villa sul Lago che vorresti tanto.
«Oh, Edward. Senti volevo chiederti una cosa, una opinione più che altro.»
Certo, amore.
«Ecco, non so come dirlo, perciò lo dirò tutto di un fiato, precisando che è una opinione che chiedo, non faccio una domanda. Allora lo dico eh? Pensi che un giorno potremo avere un figlio? Non vuol dire che voglio scordare Giuseppe, è una idea così. Solo una stupida idea, non dovevo nemmeno esprimerla, scusami Edward.»
No, no. Non devi scusarti è un argomento che prima o poi avrei affrontato anche io, forse. Lo decideremo insieme, e potrebbe essere una buona cosa. Non voglio dire altro, sarebbe prematuro. Come mi hai chiesto tu, la mia non è una ipotesi sul futuro è solo una opinione.
«Grazie, Edward sei un brav’uomo, una risposta degna di te. Ti stimo molto.»
Vorrei sorriderti, ma non mi sento io degno di te. Sono un traditore. Sono un verme. E ti prego, non consolarmi, la tua indulgenza di moglie comunque non alleggerisce la mia colpa.
Io vado a dormire, tu che fai?
«Io anche, fra poco. Dammi un po’ di tempo Edward, tornerò a dormire con te. Dammi solo un po’ di tempo.»
Buonanotte amore, grazie per averlo detto.
«Buonanotte.»
6.
Oggi è un giorno importante. Lo è per me, lo è per il mio matrimonio. Se potrò comprare quella casa sul lago, sono sicuro che le cose miglioreranno più velocemente. Ce la stiamo mettendo tutta io e Nicoletta, ma senza Giuseppe e inoltre con la storia del mio tradimento con Yolanda, non è facile. Certamente anche il dono di una villa, non potrà ripagare la mia Nicoletta della fiducia di cui l’ho privata. Ma l’occasione di starcene lontani dalla città, dai luoghi dove, con ogni probabilità, è affogato Giuseppe piccolo, potrebbe essere l’occasione per ripartire, ripartire con la vita. Lo desideriamo, ma ci sembra quasi ingiusto essere di nuovo felici mentre Giuseppe, giace. Sì giace sul fondo della Laguna dico io. Non riesco a togliermi questa idea delirante che sia in uno stato fra la vita e la morte sul fondo della Laguna e che si disperi e mi odi perché non vado a prenderlo. È il mio dolore più grande. Tuttavia, oggi è importante lo stesso. Se riesco a trovare le ultime connessioni e le mie supposizioni sono esatte, saprò chi ha ucciso Piovani.
Ma devo riuscirci oggi a sapere. Oggi è la prima e l’ultima occasione. Il mio amico Bartolo che lavora al porto di Venezia, mi ha detto che oggi partiranno delle grosse casse di legno non registrate a clienti abituali. Sono registrate a nome di una piccola società ittica, che a giudicare dal capitale sociale minimo e dal sostanziale anonimato non deve avere un grosso giro d’affari. Come può permettersi una spedizione così onerosa?
È una occasione unica. Bartolo mi ha detto che la precedente spedizione di questa società risale ad un anno fa. Ammesso che ne ripeta una all’anno, non posso aspettare un anno né per il mio lavoro né per il mio matrimonio.
Devo violare quelle casse oggi. Mi gioco tutto. Libertà, professione, forse anche l’amore. Forse anche la possibilità di diventare padre più avanti. Devo aprire quelle casse, l’istinto mi dice che c’è qualcosa legato all’omicidio Piovani.
L’occasione è unica. Come la cometa Lulin che quest’anno ha incantato i nostri cieli sfilando fra le stelle ammutolite come una regina che per una volta anziché entrare da dietro il trono, entra dal fondo della sala ed incede fra i cortigiani attoniti.
Erano i primi di giorni della separazione da Giuseppe piccolo, ma la vista di quella stella cometa il 24 febbraio mi ha colpito in un modo così acuto da lasciarmi accarezzare la bellezza in un momento di totalizzante orrore. Il suo tono verde azzurro, la sua veste iridescente contro il cielo nero e pulito dalla tramontana, la sua effervescenza che contaminava il prodigio iemale della Laguna solitaria durante le mie disperate ricerche notturne quando tutti dormono.
La cometa Lulin non è mai stata così vicina alla terra come il 24 febbraio ed io non sarò più vicino ad una svolta sul caso Piovani, che sta diventando il caso della mia vita, come lo sarà domani.
7.
Accidenti che fetore. Queste casse sono piene di stoccafisso al sale. Come non detto, penso di avere preso un abbaglio. Del resto nelle casse di una società che tratta pesce essiccato cosa volevo trovarci? A volte ci creiamo delle illusioni così potenti da farle diventare non solo realtà, ma l’intero nostro universo, almeno finché queste non vengono smentite.
Apro la terza ed ultima delle casse solo per scrupolo, ma a giudicare dal puzzo che ne proviene, deve essere altro stoccafisso e nient’altro.
Invece no. Aperta l’ultima cassa con la complicità di Bartolo che sorvegliava l’ingresso della stiva nella notte affinché io non fossi scoperto, ho avvertito un tanfo diverso. Molto più intenso di quello sprigionato dalle prime due casse. Pesce secco, sale, ma anche qualcosa di ripugnante e pungente. Di più terreo.
Scavo in quel pesce deprecabilmente mummificato per le tavole dei cristiani, tutelato solo da banali guanti di lattice e scovo la cosa più raccapricciante e truculenta che abbia mai visto, sognato o immaginato. Un neonato umano in stato di decomposizione avanzato, con il volto coperto di una maschera di cartapesta di carnevale dorata e con partiture musicali.
Un neonato umano usato come una pergamena, che aveva tatuati, su quei pochi fazzoletti di pelle rimasta intonsa a dispetto alla decomposizione, strane formule scritte in latino, in caratteri così fitti e piccoli da farlo sembrare di pelle nera, mentre era bianco. Per poco non svengo. E per altrettanto poco riesco a trattenere un irruento conato di vomito.
Giuseppe!
«Edward!»
Non respiro, bimbo mio. Vieni qui, chiama aiuto. Sei tu? Esisti ancora? Mi sento male, Isepe. Isepe mio.
Non mi hai mai chiamato così, Edward. Ora mi libererai? Sono stati molto cattivi con me gli uomini con le maschere di carnevale. Portami a casa ti prego.
Isepe mio.
«Perché continui a chiamarmi come mi chiama la mamma?»
Isepe mio. Perché anche io sono il tuo papà. Non te lo avevamo mai detto per tanti motivi, ma io sono il tuo papà.
«Io lo sapevo papà, ma siccome tu e mamma mi avete sempre detto di no avevo paura che vi arrabbiavate se lo dicevo di nuovo. Aspettavo solo che tu calassi la maschera. E lo hai fatto. Invece quei fignori che mi hanno preso non si sono mai tolte le maschere.»
Andiamo via, Giuseppe. La mamma ti aspetta.
«Non avete mai smesso di cercarmi? Non avete mai creduto che fossi morto? Oggi mi hanno messo su questa nave, se arrifato in tempo papà. Volevano portarmi via.»
Lo so, lo so Giuseppe. Non abbiamo mai smesso di cercarti e non abbiamo mai pensato che tu fossi morto. Ora scappiamo, lasciamo tutto, e scappiamo a casa. Ti porterò in Inghilterra lontano da qui. Andiamo, è finita.
«Dove andate voi?»
Ci lasci passare, ci siamo persi. Dobbiamo tornare ai piani superiori.
«Non andrete da nessuna parte. Salperete con me domani mattina.»
Un uomo di enormi dimensioni si erge su di me e su Giuseppe, il piccolo ritrovato. Sono così felice di avere riottenuto l’insperabile e nello stesso tempo ero così terrorizzato di perdere tutto di nuovo a causa di quel bieco figuro che stava davanti a noi, che nemmeno ricordo di aver visto il neonato in disfacimento.
«Tu morirai, uomo. Ed il tuo bambino avrà una sorte incerta. Doveva infatti morire il 25 febbraio del 2004, quando è nato nel primo giorno di Quaresima. Ma non siamo riusciti a prenderlo. Finalmente quest’anno lo abbiamo preso. Carnem levare. Prendere la carne, i figli degli uomini per rinnovarci dopo il loro carnevale. Il primo nato, del primo giorno di Quaresima di ogni anno è il prezzo che gli uomini devo pagare agli dei per ottenere il rinnovamento. Questo significa carnem levare. E voi cristiani avete pensato che fosse togliere la carne dalla dieta per quaranta giorni. Sciocchi. Gli dei si placano solo con il sangue vivo, non con il sangue morto. Gli dei vogliono un neonato che rimanga vivo per quaranta giorni e poi ne vogliono le ceneri. Ora non sappiamo che fare con il tuo piccolo Giuseppe. Non è neonato, ma gli dei ne reclamo le carni. Carnem levare. Il suo destino è incerto deciderà il maestro per lui e per gli dei. Ma il tuo di destino, incerto non lo è. Finirai come Piovani, aveva scoperto.»
Bartolo. È la mia unica possibilità di salvezza. Non fremo, per lam ia vita, anzi, il mio unico desiderio è che Giuseppe torni da sua madre. Siamo d’accordo, io e Bartolo, che in caso di emergenza gli faccio uno squillo sul cellulare. Ho il mio apparecchio in tasca già puntato sul suo numero, l’unico in rubrica per non sbagliare. Mi basta mettere una mano in tasca e Giuseppe il piccolo, mio figlio, il bambino con il nome ed il cognome di mio nonno Giuse, sarà salvo. E Nicoletta sarà felice. Non è difficile, ce la posso fare.
Epilogo
Nicoletta, addio. Con questa mia lettera voglio confessarti, quello che dopo averti riportato l’Isepe piccolo. Forse fra qualche anno ci rivedremo, chissà. Per ora non posso vivere con la coscienza grave del più terribile dei crimini. Ogni anno, il primo nato a Venezia del primo giorno di Quaresima continua ad essere prelevato per essere offerto agli dei. Ho dovuto giurare di mantenere il silenzio sull’identità dei sacerdoti di Erode in cambio del rilascio di Giuseppe. Ma non è stato l’unico prezzo che ho dovuto pagare. Per essere sicuri che io non li avrei mai traditi, mi hanno obbligato ad unirmi a loro, in maniera tale che se cadono loro cado anche io.
Sono un vigliacco, lo so, ma se tradisco riprendono Giusppe, non solo me.
Io volevo ridarti tutto quello che avevi perduto a causa mia. E per ridarti tutto, tolgo ad altre mamme ed altri padri. Sono un miserabile che non può nemmeno suicidarsi se non vuole che il suo Isepe venga ripreso. Sono un miserabile.
E forse hanno ragione loro. Gli dei per essere placati hanno bisogno del sangue. I miei dei siete tu, Nicoletta e l’Isepe.
Il sangue di novelle creature Quaresimali, per mantenere e reggere la vostra calma e la vostra felicità.
Per placare gli dei, i miei dei.
Mimmo Burzachechi, Catanzaro 22 febbraio 2009
Visitate anche il sito ufficiale:
23 febbraio 2009 alle 11:32 am
Una storia che fa pensare ai drammi personali che sembrano perdersi nella massa di gente ma forse per questo sono ancora più emozionanti. Questo breve racconto fa sentire tutta l’angoscia dei personaggi e tutti i suoi e odori che completano l’atmosfera. La fine e sorprendente e fa conoscere meglio la natura umana.
23 febbraio 2009 alle 2:03 pm
Ciao Mimmo!
Era da un po’ che latitavi da questo sito, quindi… ribenvenuto!!!!
Ho stampato questo tuo in modo da leggermelo in poltrona, con calma. Di dirò poi cosa ne penso. Ciao!
23 febbraio 2009 alle 7:14 pm
Riciao!
Ho letto il tuo scritto, e devo dire che mi è piaciuto. Hai una scrittura molto ricca e piacevole, e la trama che hai messo in piedi è notevole. Forse, volendo trovare il pelo nell’uovo, ti dilunghi un tantino troppo ogni tanto a livello di descrizioni, ma è veramente una sciocchezzuola…
Ti leggerò ancora volentieri!
Ciao!!!
26 febbraio 2009 alle 9:27 am
Ciao mimmo!
Ho letto e devo farti i miei complimenti.
Il racconto mi è piaciuto molto, innanzi tutto: l’ambientazione veneziana, molto suggestiva. Hai saputo ben rendere un clima liquido e sospeso, in cui nulla è esplicitamente dichiarato ma solo lasciato intuire, come per esempio la relazione tra il protagonista e Yolanda.
Non ho solo ben chiaro il punto in cui il bimbo dice di aver sempre saputo che Edward era il padre, anche se non gli era stato mai detto.
Ma forse è stata una mia disattenzione nella lettura, un po’ veloce e consumata alla fine del turno di lavoro.
In ogni caso, bravo. La lettura mi ha preso, e il tuo modo di scrivere mi è molto congeniale, sia come linguaggio che come scelta dei termini.
Bello anche l’epilogo, davvero conclusivo e un po’ aulico, come piace a me.
A rileggerti presto,
Luca
18 marzo 2014 alle 10:20 pm
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