Senso e Rivelazione – Novella in 5 parti – Seconda Parte
Pubblicato da maelstrom il 7 dicembre 2007
Senso e Rivelazione – Parte Seconda
Il sangue non è una sostanza e la sua missione non è segreta. Il sangue è una situazione in cui ti trovi quando le cornacchie nere fanno la ronda in tondo al tuo silenzio. Esattamente è quel momento in cui un albero cade tagliato stramazzando al suolo con gran fragore, quel momento di silenzio orrifico durante la triste caduta della quale non si può prevedere la direzione.
M.B.
Parte Seconda
Percezione dell’evento
«La decalcomania, irritante e avvincente, campeggia al margine della targa, me ne avvedo mentre vengo superato da un Hexagon dall’insopportabile colore blu metallizato. La sua vernice blu ricorda spiccatamente i tentativi infantili di riprodurre il colore del mare mischiando paste di tempera fra di loro e ricorda vividamente, altresì, il fallimento nauseante allorquando, credendo di essersi appropinquati al colore esatto, per migliorare ulteriormente il risultato, si ottiene dunque un blu che vira orribilmente al violaceo. (L’ottimo è nemico del buono) (rintuzza una voce impertinente, benché ragionevole. Ragionevole te lo concedo) (grazie, ben gentile)
È indubitabilmente ottobre, il 21 di ottobre del 2007 per l’esattezza, (non lo dimenticherò) quando di buon mattino e invitato da un’esplosione di caldo improvvisa – rigurgito dell’estate appena sfarinatasi e chiusa – inforco la fusoliera agile della moto e seguo un odore affettato. Lo seguo con impeto, ad occhi chiusi si potrebbe quasi credere.
Da su, dalla montagna che gradatamente ed inesorabilmente si eleva verso un’altezza ed una possanza gargantuesche a ridosso del lato nord della solatia e ventosa città di Catanzaro, scende mellifluo un profumo di ginestre tanto flebile – eppure inconfondibile e distinto nell’aria pesante e calda che di tanto in tanto opprime l’ottobre – che mi adula come un richiamo.
Ogni volta che desideriamo qualcosa, vuol dire che siamo inquieti e se lo siamo, inquieti intendo, vuol dire che qualcosa ci manca, oppure che crediamo di poter migliorare la situazione con un’aggiunta a quello che già abbiamo. (Migliorare…) (oddio! ancora le voci interiori, temo che oggi non mi lasceranno in pace) Migliorare… ed io dove sono dunque in stato d’inquietudine? In che cosa e dove posso migliorare? Dentro o fuori di me, dal momento che dall’alto il monte depone nel mio desiderio il profumo della ginestra con i suoi fumi immaginifici?
Non è forse “il dentro”, l’interiore quello che, vuoto dapprima, in seguito gradatamente ed inesorabilmente (si riempie di quelle cose che erano fuori) (zitta maledetta voce! non sono semplicemente “cose”. Cazzo, non mi fare dire ‘ste parole approssimate ai giudici oppure cadrà la mia posa costruita di pazzo ben compito e acuto nelle sue dichiarazioni studiate e mi sgameranno come savio) si riempie della realtà che era stata fuori dalla coscienza fino a quel momento inebriandosene o disperandosene? E quindi il dentro e il fuori sono vasi comunicanti il cui fattore livellante sono i cinque sensi. (“Seghe mentali” Leandro!) (dico a me stesso chiamandomi per nome, o era la voce? Chissà!)
Ora il senso mi ghermisce, mi proietta con le braccia a cingere il serbatoio ed afferrare il manubrio della ducati che già borbotta da qualche minuto(non posso partire senza che il motore sia caldo almeno un po’) (la rispetti molto eh? Vedrai che ti combina!) e a calcare col mio didietro la sella ansiosa di avvicinarsi e allontanarsi dall’asfalto in una danza indiavolata, in una danza del ventre.
Dimentico del mio appuntamento domenicale con la Messa, ovvero ignorandolo, parto diretto verso la zona dell’altopiano della Sila che amo di più, il lago Ampollino. Le ginestre le incontrerò in viaggio più in basso, all’altitudine della meta non crescono più. (Dio! come sono disgustosamente misurato, come un pazzo che finge di essere savio. Poi i giudici se ne accorgono e gli danno lo sconto della pena perché capiscono che è pazzo dalla sua patetica finzione, poveraccio) (le tue montagne) (ora mi piace quello che dici)
Lascio che la moto, con le sue poderose vibrazioni e le sferzate del motore in accelerazione, mi massaggi energicamente tutto il corpo infuocandolo di adrenalina mentre, al sollievo fresco, provvede l’aria che impatta ampiamente – e nei tratti ombrosi diventa impietosa – su collo, torace, e gambe.
Spavaldo, a cagione del caldo inatteso, non indosso che una Lacoste celeste a mezze maniche ed uno zaino marrone e, quando solco sui 70 all’ora una pozza d’acqua specchiata – residuo delle piogge dei giorni precedenti, vedo riflessa una macchia variolata di colori che mi piace molto, vedo pennellate di celeste e marrone scuro sul rosso corallo.
Quelle cromie! Sono rappresentazione della velocità e della libertà, sono il riflesso indistinguibile di me e della moto che sguscia liscia sull’acqua e il tutto mi ricorda “Flying Curve, Differential Manifold” un dipinto dell’americana Kristin Baker (cazzo, Kristin è più piccola di me ed espone a Venezia) sul quale mi sono incantato per poco meno di mezz’ora a Palazzo Grassi a Venezia in agosto. Le curve veloci di colore si riflettevano sul pavimento della sala del museo, trovando estensione e perpetuazione, si riflettevano sul pavimento lucido. Un effetto ricercato e voluto.
Mi viene in mente anche il migliore Duchamp Tu del 1918. Altro grande artista!
(Ah, la velocità! Non valore né numeri né chilometri orari, l’unica cosa con cui si può misurare la velocità è l’adrenalina, la paura che più ne hai più sei veloce, ti ricordi nei vicoli?) (sì che mi ricordo, stavamo volando io e te quando la lancetta del tachimetro segnava un numero che in autostrada avrebbe fatto ridere e tu mi dicevi ”ancora un chilometro all’ora in più, uno solo!” ed eravamo già al massimo, bastava quell’uno in più per finire dritti dritti nel portoncino della signora che abitava nel basso fatiscente)
Quei placidi 70 all’ora non sono certo velocità, ma ora la velocità arriverà, eccome se arriverà, fra qualche curva si parerà davanti a me la casa cantoniera col suo rosso mattone: eccola, rispetto al tragitto, è come un giro di boa quell’edificio per i motociclisti della domenica, viene fuori come un fungo da un’aiuola verde su quel bivio della statale 109 che separa la strada vecchia dalla strada nuova. Ovviamente si va a sinistra, per la via nuova, inizia il misto veloce, le curve a largo raggio, e lì inizierà la velocità, quella vera. (Ovviamente) (Ovviamente)
Aveva prorio ragione Michael Jackson nella sua vecchia “Speed Demon” che inneggiava con musica e parole alla velocità deplorandola come un demone, come una psicosi dove il mondo irreale è rappresentato dalla volontà di raggiungere il futuro prima degli altri. Un vero demone cattivo che si è impossessato di me fin da quando ero piccolo ed avevo ancora un fratello maggiore che adesso è sposato e vive a Milano, ormai distratto come un amico maggiore più che altro, più lontano di un amico. (Forse sì, o forse no)
Eravamo in due, i due fratelli, Leandro io, il piccolo e Mariano lui, il grande.
Mi passava 6 anni e, quando io ne avevo appena 12, lui prese la patente B per l’automobile. Immaginatevi, (Signori della Corte), a quella età “veloce” cosa rappresentasse per me, che vanto! specialmente rispetto ai miei compagni di liceo, avere un fratello maggiore che poteva portarci in giro con l’auto quando noi non avevamo nemmeno il motorino e divoravamo riviste di auto come “Quattroruote” e “Gente Motori” sbavando per parole e numeri fascinosi come 75, 280 E, abarth, 520, coupé, quadrifoglio, carrera e gto.
E cosa ti scopro alla prima uscita con la assonnata, ma non pigra Fiat da impiegato che mio padre lasciava guidare a Mariano? (Eh…) Cosa ti scopro? Che Mariano ama la prudenza, (ha paura) e, dopo essermi gloriato abbondantemente d’essere fratello di questa specie di eroe decorato, (capirai quale gloriosa medaglia al valore sia la patente! Ce l’ha anche Gino figuriamoci…) di questo guerriero più alto di noi di due spanne, con le spalle più larghe delle nostre e con quattro ruote scalpitanti sotto il culo, (il che mi proteggeva e mi aiutava nella popolarità a scuola) (‘sta volta hai dato tu l’impressione di mandare al diavolo il mondo con il turpiloquio, i giudici non crederanno alla tua immagine di pazzo costruita… le parolacce, il culo… ma va va!) (l’ho fatto apposta) dopotutto mi ritrovo sul muretto dell’adunata, all’uscita del liceo lunedì mattina, ad essere deriso da tutti per la lentezza con cui sabato sera siamo arrivati al mare per la nostra prima cena da ragazzini fuori città senza genitori.
L’hanno saputo anche quelli che non c’erano.
“Mariano tartaruga”, “Leandro lumaca” questo era l’adagio.
Candidato a tal carica (lumaca, lumaca, lumacaaa! ahahahah), benché fosse presto per me per guidare, ho conservato la nomea di lumaca fino a prova contraria. (lumaca solo potenziale, bastardi e bastarda anche tu, voce, che me lo ricordi!) Ed io volevo darla quella prova contraria ed il tarlo della velocità mi ha divorato fino all’età della patente quando ho scoperto che non è poi così facile guidare veloce senza correre rischi, ma ogni giorno che passa, anche ora dopo 16 anni di patente, voglio raggiungere il futuro prima degli altri e girarmi indietro a vedere le tartarughe strascicarsi. È un demone, un demone cattivo la velocità che canticchia “Leandro lumaca” e non la smetterà mai. E tanto più canticchierà, tanto più io fuggirò veloce per non sentirlo, per non farmi raggiungere dalle note beffarde su quel muretto vicino il Liceo, sopra la scalinata. Certo, certo è cattivo, pernicioso lo spirito della velocità, avete dubbi?
Eppure lui – la tartaruga (tuo fratello) mio fratello – è sposato, ben posizionato economicamente, felice ed obbiettivamente lontano da qui, dal sud Italia dove io sono rimasto solo, traviato, sbandato, spiantato e senza una lira, anzi senza un euro. (ci dobbiamo aggiornare) (chi va piano va sano e va lontano) (la voce sottovoce. Ma “va va”, vacci tu adesso. Poi be’ lontano… Milano…)
Infilo la via nuova a sinistra della casa cantoniera dal fumante comignolo rosso mattone e inizio a disegnare delle belle curve (grattapedane) con la ducati che asseconda di buon grado, ruggisce, da una fucilata alla schiena all’uscita di ogni curva e ti catapulta a più di 150 sui brevi rettilinei.
Più su, su strada, incontro nuovamente i retaggi dei temporali che hanno contratto tutto il mondo (postbellico) post-estivo. Ahimé si rallenta, se non si vuol scivolare sul bagnato.
Incontro una nuova pozza che allaga l’asfalto, rallento di gran lena perché desidero che quella macchia di colore, vista a Palazzo Grassi nonché nell’acqua poco fa, duri di più, si faccia ammirare più a lungo della prima, inondi con più efficacia il mio dentro, la mia coscienza poiché si trova ancora fuori di me. Non dico che debba durare mezz’ora come il quadro, ma insomma…
(Quindi, fammi capire, le cose – e non mi dire che non si chiamano cose – esistono o non esistono fuori di te? Io che sono la voce, come mi chiami tu, esisto oppure è entrato qualcosa in te attraverso le 5 porte, i sensi, e si è trasformato in voce per l’ardente contatto con il tuo dentro? Ed io chissà com’ero e cosa ero fuori di te! Ora, invece, forse assomiglio al tuo dentro, forse ad una voce.
E così come io sono entrata e ho finito per assomigliare a te, tutto ciò che entra dalle cinque porte gli occhi, il naso, la bocca, la pelle, le orecchie finisce per assomigliare al tuo dentro. A te.
Non saprai mai, pertanto, se tutto ciò che sai e ricordi, vedi, senti, annusi sia mai esistito, non saprai mai se è entrato in te o è uscito da te) (zitta, piantagrane)
Passando piano piano, invece, vedo un’immagine riflessa, non curve volanti, distinguo i particolari di me e del mostro ferrato, non vedo quello splendore della macchia indefinita di prima. (L’ottimo è nemico del buono) (ripete la voce sempre pronta a canzonare brontolando)
Qualcosa di buono lo ottengo lo stesso: il motore, scendendo gentile di giri, disasconde all’udito un nuovo piacere. Prima la musica totalizzante degli scarichi fuorilegge in carbonio che rendono stentorea la voce del motore allo stesso modo in cui un teatro lirico, ben progettato, rende alta e squillante la voce di un soprano; adesso odo il chiacchiericcio sommesso della ghiandaia che, improvvisamente, diventa un urlo. È una cantante lirica e la sua arena è la propaggine più bassa dello sconfinato bosco di abeti che ammanta il massiccio della Sila o Silva (selva) come la definì Plinio il Vecchio. (sei patetico fai le citazioni ai giudici per sembrare più pazzo?) (shh!) Mi fermo. L’opera lirica cambia movimento, l’allegro del motore furibondo cede il passo ad un minuetto cantabile. Grida la ghiandaia, disturbata dall’uomo, (disturbata dal mio passaggio. Uomo io?) e la sua forza s’insinua in me come un fluido, dalle orecchie discende fino alle viscere facendomi vibrare. Non so se sia il residuo delle vibrazioni della moto – da appena sceso – o se siano le endorfine attivate in misura di bordata da quello strillo selvaggio in cui mi riconosco, ma sto tremando, questo lo so.
Tace, è pacificata la moto in silenzio ed io di conseguenza sono del tutto abbottonato. Distraggo tutti i miei sensi fuorché l’udito e… parla il bosco frusciando con la voce della grande madre terra. Sono in montagna, a bordo lago. Sono a metà tragitto, è il “Lago Passante”. La madre terra, che sa coprire tutte le ottave gorgheggiando, in alta quota esprime al meglio i suoi acuti. Vento e fronde il rumor meraviglioso, vera voce del silenzio. Obnubilamento e pace.
La ghiandaia – ho ascoltato così tanto il suo canto che le ho dato un nome, Betty – decide di sfondare la mia e la sua pace (i tuoi timpani) e grida di nuovo.
È tardi, dovrei ripartire e solo allora rammento il vero motivo (la genesi) della mia evasione domenicale. Le ginestre… Il lago Passante è circolettato da una strada sterrata che costeggia tutte le sue sponde e sulla quale mi incammino. L’odore dolciastro e sfrontato della ginestra stordisce un po’. A dire il vero non mi piace molto, ma è stato proprio quell’odore a convocarmi in cotanta beatitudine ed io, riconoscente, principio a raccogliere i fiori gialli. (vuole essere catturato) Ne infioro un bel mazzo allorché Betty protesta di nuovo riportando la mia coscienza dal regime dei sensi a quello della ragione: be’ sulla motocicletta non posso certo portare fiori ingombranti dallo stelo nodoso e lungo. Così, malvolentieri, cedo alla riva del lago – fanciulla vanitosa – il fascio di fiori e il suo azzurro si ingemma di giallo alla deriva. Ora sarà lei, la fanciulla del lago (chissà se anch’ella ha un nome) (certo che ce l’ha, poi lo dico anche alla corte, aspetta) a viaggiare in India fra i profumi di ambra e incenso che la ginestra invoca.
L’ora è giunta della fame, (della famaccia) come avviene sempre in montagna. Liberatomi dei rami forcuti della ginestra, inforco di nuovo la moto e salgo ancora per qualche chilometro. (missione colazione)
Affamato e stuzzicato da un’immagine, mi fermo al “Semaforo” per degli assaggi di gastronomia, una tappa fissa per i catanzaresi che dirigono fiaccamente verso la Sila piccola. L’immagine è un rivolo di resina odorosa che sanguina da un pino sfoltito di recente dalla guardia forestale, il collegamento mentale è il miele che, ambrato come la resina, potrà intrigare il sapore del formaggio silano, un pecorino leggermente piccante che riecheggia, nel gusto, le erbe aromatiche di cui si nutrono gli armenti alla radura.
Satollo e deliziato, mi concedo un caffé, il bar è alla porta accanto la degustazione. Serve a ridarmi la carica, a farmi tornare la voglia di esplorare, dopo l’appagamento del cibo che pasce i sensi tutti. (la carica del caffè? fai ridere, dillo che è un vizio piacevole, compensativo, per te che non fumi ormai più)
Prima di insellarmi nuovamente per domare il mostro ferrato che si imbizzarrisce quando rimane legato sotto un albero troppo tempo ad annoiarsi, indulgo in un pensiero audace incoraggiato dal cibo e dal buon vino che sedimentano nel mio stomaco e si inerpicano pesanti fino alla mia mente: è la dottrina che le percezioni fisiche siano il veicolo diretto del piacere. È stata una mattinata ricca di stimoli sensori, meravigliosa e quella leggera pace che il buon formaggio duettando con un vino Cirò rosso, cupo e barricato ha lasciato in me mi rende languido, concupiscente. Penso alla fanciulla del lago ed immagino che ella, essendone lo spirito di nome Èlide, sgorghi dalla pista da ballo – l’acqua calmissima nel momento di stasi pomeridiana – e si pari discinta (nuda) e azzurra davanti al fortunato e immeritevole visitatore (saresti tu? meno male che te lo dici da solo immeritevole) per ringraziarlo dei fiori. Il suo corpo, fatto d’acqua e forme voluttuose, ha una consistenza eterea rispetto a quella del corpo umano, ma al tatto la delizia è sublime, infondo – penso – quando l’intimità dell’amore si lascia accarezzare, è la voglia di immergersi che domina (dici pure di penetrare! immergersi è un eufemismo) (quanto sei volgare!) e quel corpo inafferrabile si lascia attraversare un po’ tonico, un po’ viscido come il fondo limaccioso del lago. (sarei io volgare?)
L’equivalenza è dunque fatta: senso uguale piacere.
Non l’avessi mai pensata! (E non l’avessi mai pensata!) (Vedrai che ti combina !) (Chi?)
Ridesto dalla fantasia baccante, (dici pure oscena, indecente che non sei altro) (baccante, bestia priva di sapere) delirio di quel poco di vino ancora da smaltire per essere in condizione di rimettersi alla guida, riparto e il cavallo sferragliante mi porta al villaggio dei padri ardorini lassù, sulle sponde dell’altro lago – l’Ampollino. Ascolto la Messa disertata al mattino (sei un pentito) e poi, ricevuta la benedizione, (ahahahah un ateo come te, magari anche l’eucarestia dirai adesso) (non ti ascolto più, cosa ne vuoi sapere tu del mio spirito?) (perché ne hai uno?) alla sinistra della chiesa una strada sterrata mi guida, a piedi, fino alle rovine di un antico monastero basiliano. Ivi faccio razzia di suppellettili d’arte liturgica di oltre 800 anni fa scovati sotto un muro crollato (lo zaino marrone serviva a questo, era premeditato lo ammetto). Del resto quegli oggetti d’arte è meglio che stiano a casa mia dove vengono amati, venerati come li venerava il monaco basiliano all’altare e ammirati come un’attrice dalle gambe lisce e invitanti come un gelato (sarei io volgare?) (fa parte della farsa che propino alla corte, come ne fa parte la questione dei furti di oggetti d’arte, o mi credi davvero capace di una cosa del genere?) (in effetti, no) piuttosto che in un museo dove i pullman-elefanti portano orde di scolari in gita a vedere cocci di ceramica che li annoiano da morire. (Forse non sono pullman-elefanti, forse sono cavalli di troia e gli scolaretti sono i guerrieri che uccideranno la cultura con la loro indifferenza)
Insomma, metto tutto nel mio zaino – casa, museo e pure l’abate se preferite – e faccio delle fotografie entusiasmanti ad un piccolissimo pino, dal tronco robusto, che sbuca (come la fiamma ricurva di un candelabro d’argento ebraico) da una roccia immensa la quale dà l’impressione di essere stata, un tempo, uno scoglio marino per via dei fossili che vi scopro incastonati. Poi ci salgo sopra quella roccia e mi fermo in atteggiamento di ricezione: ascolto antichi canti in latino di monaci che rivivono nelle rovine. (perché non dici ai giudici che hai anche visto spuntare un cappuccio bianco da dietro la rocca, così è certo che ti rinchiudono in un nosocomio) (semplicemente perché l’ho visto davvero) (ops… semplicemente perché devo sembrare un pazzo lucido che non ha fatto niente di poi così grave e non un visionario come te)
Soggiunge il crepuscolo e l’urgenza di ridiscendere in città è alta, (altissima, tua madre ti spezza le ossa non le hai nemmeno telefonato per dire dove sei da tutto il giorno) non mi accorgevo di quanto fosse tardi, stordito dalla bellezza che consola.
Il ritmo della discesa è andante con brio, la ducati corre, ma – compiaciuta della giornata e con i cilindri un po’ stanchi (c’è dell’altro, di’ la verità) – non fugge come all’andata. Nel mesto dondolio fra le curve, tristi per il rientro nella civiltà, l’Hexagon, lo scooter blu metallizato, mi supera spavaldo. In quel frangente non ci bado, ma, dopo qualche chilometro, mi ritrovo a pensare ossessivamente a quel bollino giallo e rosso appiccicato alla sua targa. Voglio sapere cos’è, devo (assolutissimamente!) saperlo. Mi precipito all’inseguimento di quel diabolico adesivo bicolore, di quel parassita maledetto che infesta lo scooter già deturpato dal colore della verniciatura. Il ritmo di marcia diventa forsennato. Di quanto mi precederà? Minuti? Forse di più, tuttavia, prima che il fuggiasco arrivi al primo bivio dove non potrei più orientarmi per seguirlo, devo (devo, per forza, necessariamente o impazzisco!) riguadagnarlo. Corre la ducati e corrono veloci a ritroso i profumi della resina e dei fiori gialli, il canto di Betty riprodotto al contrario come in quei 33 giri satanici degli anni ’60. (e infatti la velocità è un demone, IMBRIGLIALO! sei in tempo)
Non sento niente, fuori di me non c’è niente.
Ho in testa solo quel malevolo bollino, quando a un tratto il verde diffuso e invariabile degli alberi si tinge a sorpresa di rosso. (ah, il rosso!)
L’ho raggiunto, ancora non vedo cosa sia, accelero gli sono a ridosso, si sposta pensando che io lo voglia superare, freno energicamente, mi accodo a lui, (frena te ne prego! Ci siamo dentro insieme) cerco di avvicinarmi con la ruota alla sua targa per decifrare il simbolo, lui accelera, pensa che io voglia sfidarlo, (tu rallenta Leandro non fare lo sciocco) vuole farmi vedere chi è, vuol infliggermi una lezione da castigamatti, mi distacca guidando con destrezza, accelero, (acceleri) la ruota posteriore perde un po’ aderenza sull’asfalto consumato, atterrisco, (hai visto? Falla finita non c’è da dimostrare niente vuoi farmi morire?) raddrizzo, sono ancora in corsa, (sei ancora vivo) freno, respiro, mi gusto il sollievo, (fermati) inseguo, avvicino la ruota alla sua targa, ho preso confidenza con quell’asfalto viscido, (confidenza fa rima con imprudenza) non lo temo più, padroneggio le forze delle curve, (altro che forze centrifughe e centripete, le forze del demone padroneggiano te) non può sfuggirmi, il poderoso motore fa il suo dovere, domina, le gomme aderiscono, non ho più paura, posso vederlo, (tu così permaloso e sempre piccato dai miei richiami ora nemmeno mi ascolti, non ribatti?) manca poco, quel dannato bollino è alla mia portata, posso quasi afferrarlo, manca una spanna, non lo vedo per pochissimo, l’ultimo colpo di acceleratore poi frenerò bruscamente, non mi interessa ingaggiare una gara, (frena ora dolcemente, fallo per me) devo (devo assolutissimamente!) vederlo, lo vedo.
Non mi piace. Era meglio nella mia immaginazione, prima che lo scoprissi. L’ottimo è nemico del… (del buono, ma ormai a cosa serve?)»
9 dicembre 2007 alle 10:25 am
Devo dire che questo è molto diverso dagli altri tuoi che hai messo su questo sito. Più onirico, più visionario, forse però anche meno coinvolgente, più difficile da leggere. Molto ben riusciti i colloqui con la seconda voce
Resto in attesa del seguito.