L’ARMONIA VIOLATA di Ubaldina Mascia
Pubblicato da novilunio il 8 aprile 2008
Il freddo mi avvolgeva come un doloroso involucro di ghiaccio e solo nel momento in cui le mie spoglie vennero tumulate nella fossa del cimitero, cominciai a provare un lieve e crescente tepore.
Il mio spirito continuava a sentire attraverso il corpo che io credevo morto per sempre. Vissi la decomposizione della carne senza raccapriccio o ribrezzo, ma con inaspettata meraviglia; non c’era dolore, bensì calore e fermento: le piccole creature, nutrendosi di me, si prendevano anche una minuscola parte della mia anima e, in questo scambio di morte che perpetuava la vita, sentivo solamente tanta riconoscenza nei confronti dei microrganismi che impedivano al mio esistere di finire definitivamente con la sepoltura, e andavo comprendendo cosa fosse l’immortalità. Quando infine anche l’ultima particella di me fu usata, svanì con lei la mia coscienza e in quell’istante compresi la pienezza della vita.
Diventai nuovamente cosciente quando ogni particella della mia anima si ricongiunse per procreare un uomo.
Lo spirito, di nuovo in possesso della consapevolezza, ripercorse tutti i singoli passaggi di ogni parte di me: da uomo a verme della terra, a filo d’erba di un prato, a fiore di un giardino, a cellula di una pianta ed infine a cellula umana.
Rivissi l’incontro con un’altra cellula umana e riconobbi un mio spicchio di anima; nell’istante in cui ci identificammo, una potente spirale cosmica attirò a sè tutte le parti dello spirito sparso nell’universo, risvegliando la mia coscienza e permettendomi di vivere ancora una volta nel mio insieme.
Mi pervase una grande gioia, perchè sapevo che era il modo più completo di esistere: corpo ed anima, pensiero e coscienza, quasi la perfezione.
Impegnato a tenere unita la mia anima per permettere all’embrione di svilupparsi, andavo gradatamente perdendo le percezioni appena rinnovate; non cercai di trattenerle, sapevo che poi sarebbero tornate: il ciclo era sempre lo stesso.
Senza alcun preavviso mi sentii avvolgere dal freddo glaciale che aveva caratterizzato la mia morte umana precedente, compresi che la gioia di vivere ancora nel mio insieme era stata interrotta e prima di provare qualsiasi altra sensazione, avvertii tanto dolore e piansi. Piansi in attesa che il lieve tepore mi accogliesse come la volta precedente a lenire la sofferenza, ma non accadde, non mi accolse la terra, bensì un contenitore di vetro che venne rinchiuso in una cella frigorifera, impedendo così la naturale decomposizione del piccolo embrione.
E rimasi lì, con l’anima ed il corpo congelati, in pieno possesso della mia consapevolezza, prigioniero della morte.
E mentre tutto intorno a me era doloroso e freddo, le vecchie percezioni cominciarono a riaffiorare ed una triste nostalgia mi pervase. Pensai al piccolo verme che, nutrendosi del mio corpo, si era preso anche una piccola porzione del mio spirito; pensai a tutto quel brulicare che, prendendosi ciò che io donavo con la morte, poi se ne andava a nutrire e prodigare alla terra, in uno scambio continuo e generoso. Pensai, pensai… ma a nulla serviva il mio pensiero, perchè mi era successo un fatto che esulava dalle cose naturali.
Rinchiuso nel gelido laboratorio, con il potenziale di vita prigioniero, mi sentivo come se fossi stato messo in attesa, come se il mio eventuale esistere dipendesse da eventi futuri e fuori dalla mia portata.
C’ero sempre stato… in un modo o nell’altro: tenero filo d’erba o essere completo e cosciente. Ero andato e venuto in un lento evolversi che, una volta raggiunto l’apice dell’insieme conscio, si sparpagliava per poi tornare nuovamente a riunirsi. Ciò che mi stava accadendo non era comprensibile nonostante la mia immortalità e più attendevo più soffrivo.
Il mio spirito, non potendosi frantumare, era costretto a crescere nella gelida solitudine in cui si trovava.
Sognavo immensi deserti di sabbia, oceani profondi e cieli infiniti nei quali avrei potuto dimorare, ma la realtà in cui mi trovavo produceva in me solo tormento, tanto, infinito tormento e nonostante lo spazio fosse angusto, riusciva a contenerlo tutto, perchè più cresceva più mi si avvolgeva intorno.
Questa tribolazione era nuova per me e non avevo un dio a cui chiedere aiuto.
Dio esisteva fuori da quel contenitore di vetro, non poteva entrarvi, perchè se l’avesse fatto sarebbe stato costretto a revocare il dono della libertà che è parte integrante della creazione, e io ero solo, sempre più solo crescevo di dolore.
Desiderai una mano che potesse liberarmi da quel freddo intenso e da quel vetro sterile, ma chi avrebbe potuto farlo non credeva che quel piccolo embrione potesse aver mai ospitato un’anima.
Quando il contenitore, mia gelida prigione, cadendo sul pavimento si ruppe, nessuno comprese la gravità dell’accaduto. Il grande dolore da accumulato si disperse nel mondo e Dio, che esisteva fuori e che era stato in pena per me, lasciò che la mia anima tramite il corpo si sparpagliasse, ma salvò la mia coscienza, perchè doveva rimettere le cose a posto.
Divenni solo pensiero senza anima e corpo; dove trovavo parte del dolore da me partorito, intervenivo per cercare di riunirlo tutto ed eliminarlo.
Dove c’erano lacrime, io ero presente a lenire le disperazioni.
Ero in grado di comunicare con la mente di chi credeva nel mio aiuto; non potevo soccorrere chiunque, ma solamente coloro che erano investiti dal male da me provato e poi liberato.
Non c’era filo d’erba, animale dolce o repellente, uomo buono o malvagio, aggrediti dal mio dolore ai quali non lenissi patimenti.
Non ero colpevole di quanto era accaduto, ma dovevo fare in modo che il ciclo fosse sempre lo stesso per impedire che la sofferenza prendesse il sopravvento sulla gioia. Non ero il solo ad aver vissuto tale esperienza, l’universo era colmo di pensieri in cerca dei brandelli dolorosi della propria anima, ma la gioia era superiore alle pene, per cui fui felice di adempiere alla mia mansione, perchè nulla era più bello della letizia che il mio continuo intervenire portava.
Una volta asciugata l’ultima lacrima ed in possesso nuovamente del mio spirito, avrei potuto scegliere se tornare nell’ordine materiale o intraprendere il cammino successivo nell’euritema dell’universo, ma prima dovevo ricomporre il mosaico della mia anima. Ad ogni atto di consolazione da me perpetrato mi caricavo dei suoi brandelli sparsi che mi seguivano come due piccole ali luminose che si andavano sempre più ingrandendo.
Gli uomini di ogni credo religioso che riescono a sentirci e che a volte ci vedono, hanno voluto darci un nome.
Ci chiamano Angeli.
8 aprile 2008 alle 15:33
Molto bello anche questo tuo secondo testo Ubaldina. Ben scritto e sopratutto ben descritta la parte “metafisica”.
Grazie a Barbara per la trascrizione
9 aprile 2008 alle 12:23
Ciao Barbara e Ubaldina!
Ha già spiegato tutto a meraviglia Andrea. Non posso che concordare.
Ciao! Al prossimo!