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IL GRANDE SOGNO

Pubblicato da rossanocrotti il 13 dicembre 2006

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IL SOGNO


      


 La villetta  era bassa e delimitata da un giardino ben curato. Era situata in una zona tranquilla della prima periferia della città. Poco distante, il bar gelateria era affollato di gente, come consuetudine nei primi giorni di primavera. E in quei giorni di primavera, Valeriana decise di prendere in affitto quella casa. Era fiera e orgogliosa di ciò che stava facendo, fiera e orgogliosa senza rimorsi né pentimenti, nonostante sia una giovane ragazza madre con parecchie porte chiuse in faccia nel suo passato. Valeriana sapeva essere fredda come una notte d’inverno, pungente e profonda  con i suoi occhi scuri. Con la presunzione e la certezza di chi non deve imparare più niente da nessuno. Perchè ciò che voleva era lei a cercarselo. Ora la sua vita e le sue speranze erano nella sua piccola bambina. Arrivò col camioncino dei traslochi verso mezzogiorno. I mobili in esso contenuti erano veramente pochi per una casa così grande. Scese e respirò profondamente. Era un’ aria densa di tranquillità e lei se la meritava tutta. Si guardò attorno e notò che tutto era pulito . Sembrava strano, ma persino le strade sembrava non fossero usate.


L’autista del camioncino era di colore, parlava con un accento straniero e aveva in testa un cappello da marinaio. Era comunque gentile e sorrideva dopo ogni frase con denti grandi come le pedine del domino. Le disse che andava “a consumare il pasto del mezzogiorno”. E Valeriana rimase sola, a scrutare la sua nuova villetta, in quel alone strano e ovattato in una sensazione di sottile benessere che mai prima aveva provato. Le siepi erano in fiore, i fiori a cui lei era allergica, ma non sentì nessun odore. E nessun rumore. Solo se lei voleva, se ci faceva caso. Udì da lontano delle voci, nella palazzina accanto alla sua villetta. Le voci venivano da dietro di essa, e lei riuscì ad intravedere solo un barbecue davanti alla finestra dell’appartamento pianoterra che dà sul cortile. Erano comunque le voci di una coppia che stava litigando, in tono pacato. Sentì nettamente la voce di lui che diceva di


“lavorare dalla mattina alla sera”. Fu felice di sentire che la zona era abitata da altri esseri umani, oltre a lei. Cosa che non le era parso prima. Valeriana era su un marciapiede di marmo lucido come un specchio e davanti a lei una ragazza che stava mangiando un gelato la guardava negli occhi. Una goccia di gelato le cadde sulla maglietta all’altezza del seno. Con un dito  asciugò la goccia, la leccò e le indicò il locale che era dietro di loro. Quando era arrivata le sembrava più distante. Il camioncino del trasloco era ancora lì e l’uomo coi denti larghi era sparito. Le piante si muovevano senza vento. Come in un ballo esotico per salutarla. Erano piante alte almeno trenta metri. Faceva caldo e la strada di marmo era lucida. Le case erano bianche e tutte con un giardino ben curato. Dalla finestra di una di queste usciva una musica che Valeriana aveva già sentito e il profumo del pranzo le ricordava quando era bambina ed abitava con sua madre in un vecchio condominio in teoria non molto distante da li. I suoi occhi le davano un’ impressione sfocata e contorta del locale davanti a lei, forse per il caldo, ma dopo due passi riuscì a distinguere la porta d’ingresso. O meglio il buco, perché di porte non ne vedeva. L’ ambiente era tranquillo e a fare rumore solo l’elica che pendeva dal soffitto. Le persone anziane sedute nelle sedie contro la parete erano immobili, nella distesa estiva dietro la vetrina giovani scherzavano e una ragazza con una tunica bianca la guardava mentre spazzolava un cavallo. Si sentì osservata, pensò che in un quartiere piccolo e così ben curato è normale squadrare un forestiero. Riconobbe le voci della coppia che stava litigando ma non riuscì a vederli in faccia. Dietro il bancone le sorrise un ragazzo che le sembrò di avere già visto. Ordinò. Aveva caldo ma nessuno sudava. Solo l’elica penzolante a muovere l’aria. Andò verso la porta  con il bicchiere in mano socchiudendo gli occhi, guardò verso il sole. Ma non lo trovò. Si accorse solo ora che tutto era illuminato da un alone attorno ai suoi occhi, le cose erano come le vedeva lei, le sentiva, le toccava, le voleva lei. Si girò verso la porta per rientrare nel bar quando sentì una voce che la chiamava da dietro le sue spalle. Non ebbe neppure il tempo di girarsi che il sogno finì. E Valeriana si svegliò di colpo nel suo letto. Era sudata. Si guardò un attimo attorno nel buio della sua stanza e starnutì. (…)


 


LA   SCOMPARSA


 


Giovanni mi telefonò alle dodici e trenta di un martedì senza senso: ossia in quella zona franca della settimana dove ancora tutto può succedere. La finanza non si era vista. Il Gero con occhio pallato faceva finta di controllare delle carte. Gli operai smettevano di lavorare. Ivan aveva telefonato dicendo che si era perso in provincia di Vicenza.


La voce del Giò mi colpì per il tono più stupito che preoccupato: Ennio era scomparso.


“ Dove? ”chiesi subito, facendo chiaramente trasparire la mia sorpresa….ci fu un attimo di silenzio e senza nulla aggiungere volai a casa di Giovanni. “E’ una settimana che la casa è vuota, nessuno immagina dove possa essere andato” mi disse appena arrivai. Accese una sigaretta e mi guardò in faccia. “ Non per trovarlo…, ma sai …sono suo vicino…, almeno possiamo dire alla ex  moglie che lo abbiamo cercato ”….sono amico di tutti e due…( Va bene). Aveva un’ idea.


La Uno alzò molta polvere percorrendo la stradina che deviava dalla provinciale e parallelamente percorreva fra le vecchie case in direzione est. Il cielo davanti a noi era una scenografia di John Carpenter, con le nubi nere e grosse ma lontane, soffiate verso sud da un debole vento caldo. Le montagne erano al loro posto. Ennio no. La primavera si poteva respirare a pieni polmoni, le piante ormai in fiore creavano giochi di luce appena fastidiosi e io dovevo ancora mangiare. Cercavamo, in quel piccolo borgo di case  neanche tanto distante dal centro del paese, il numero diciotto di via Bassa. Le serrande dei negozi stavano chiudendo. Le indicazioni approssimative di Giovanni richiedevano una guida attenta e il mio stomaco ululava.


Arrivati. La strada finisce. Le case si chiudono a U e già dalle finestre si vedono occhi curiosi che scrutano persino la ruota di scorta nel baule della Uno color oliva sbiadito. Il cortile non asfaltato dava un riflesso bianco dappertutto e nel campanello del numero diciotto era infilato un cartoncino col nome sbiadito dalla pioggia. Si suona. Non risponde nessuno. Giovanni inizia a spiegare che qui abitava una ex probabile amante di Ennio, ed in seguito ad un probabile nuovo ritorno di fiamma, i due si erano rimessi insieme. Chiacchiere da bar. Un bar. Un panino. La mortadella. (Avevo fame) .


Arriva un simpatico signore sulla settantina con una bicicletta arrugginita più grande di lui e la borsa della spesa penzolante dal manubrio (intravedo una confezione di affettato sottovuoto) e declama : “…o nonsentemìcca…avete provato di dietro? “ Ringraziamo facendo capire che la cosa non è importante e il simpatico e anziano avventizio locale balza sulla bicicletta e si allontana parlando da solo. Aspettammo nel bar dalla cui vetrina si vedeva l’entrata del sospetto rifugio di Ennio. Il simpatico amico arrivò circa mezz’ ora dopo. Ci salutò con un’espressione sorpresa e imbarazzata (tipo quelle sui giornali quando arrestano qualcuno) e conscio del fatto che ci eravamo preoccupati per lui ci offrì un nocino. “Questo paesino è bellissimo” disse con gli occhi spiritati, “ la sera si fanno canti e danze, giochi di società…, mi sento come un feto in una gigantesca pancia. Un feto che sta iniziando una nuova vita .”


“Va bè, il feto….ma hai moglie e due figlie , Ennio….” disse il Giovanni.


“Staranno benissimo anche da sole, poi lei ha un’ altro, no?”


“Ho capito, ma almeno dovresti stare vicino a loro, per la separazione, le bambine sono ancora piccole …” ribattè Giò sempre più nel pallone e ormai rimbambito dalla birra media e dal nocino assorbiti solo da un tramezzino.


“Ho scoperto una nuova dimensione di vita, ragazzi: qui non ci sono le scale che facevo per arrivare al terzo piano portando la spesa e litigando tutte le volte con mia moglie .


I prodotti dietetici che non mangiava, poi scaduti li dava al gatto….., la maionese che metteva anche nel ragù degli spaghetti, gli orrendi centrini di pizzo di sua zia morta…”. Qui tutte le case sono basse, a pianterreno, si sta meglio , si fa meno fatica. La casa è di Cristina. (Anzi, della zia di lei che non fa centrini ma è piena di soldi), pensò Giovanni che conosceva la tresca.


E costei era la ex amante clandestina e neo amante -convivente di Ennio.


“Ci vogliamo bene”, disse facendoci vedere la foto che teneva nel portafoglio, ed era veramente bella. (Pensai cosa ci potesse trovare in lui una qualsiasi donna di buon senso). Continuò, “ora abbiamo qualche problema, lei vive ancora col suo ex, ed io le pago l’ affitto per questa casa, ma mi ha promesso che appena le cose si sistemeranno ci metteremo insieme”. Tutto mi fu più chiaro. Io e Giovanni ci lanciammo un’occhiata d’intesa. “Nocino!” ordinò tutto contento Ennio. Era il secondo giro ed io pensavo a tutte le curve che dovevo fare per tornare a casa. Erano quasi le due e il sole illuminava quasi di traverso il piccolo bar con arredamento scuro. Il Giò era quasi ubriaco. Ennio non sapeva più cosa dire. Io stavo zitto da molto tempo. “Auguri” ( tanto per dir qualcosa) e mi rispose alzando il bicchierino vuoto. Giò aveva il bianco degli occhi pieno di venuzze rosse. Pensai fosse meglio andare. Ci salutammo e lasciammo Ennio seduto all’angolo di quello sperduto bar di provincia, aspettando, fra qualche anno, di vederlo sempre così allegro ma magari un po’ meno fesso. All’uscita del bar, gli occhi locali  guardavano dalle finestre. Erano occhi anziani, distaccati, e guardavano con curiosità e timore qualsiasi cosa venisse a disturbare la quiete di quel piccolo borgo di case. La Uno color verde oliva sbiadito  sollevò molta polvere schizzando verso la civiltà  e ormai era ora di riprendere il lavoro.


Rientrando in ditta vidi il Gero coi piedi sulla scrivania che guardava con un occhio da sopra il giornale aperto. Lui non si era mai sposato, aveva evitato tutti i problemi di Ennio. Ma forse Ennio a suo tempo è stato più felice. E sicuramente più soddisfatto di Ruggero.


Il lavoro in quella settimana procedette ad un ritmo forsennato di produzione. Alle soglie del controproducente. Ai clienti che ordinavano cento pezzi gliene si mandava centotrenta  nella speranza li tenessero. Ivan consegnava ovunque col furgone da vergogna. Ruggero doveva far bella figura col padre. Andò persino ad una televisione locale per una televendita. E la sua bella faccia di plastica con i capelli unti di gel e raggruppati da un pietoso codino si diffuse nell’ etere di una sera di marzo.


In quella sera , sintonizzato su quel canale, Ennio sdraiato sul divano della sua nuova casa – rifugio, pensava all’arredamento nuovo. Che avrebbe comprato una volta che la sua amante avesse lasciato il suo ex .


“TOZZI ARREDAMENTI…proposte furbe, non dementi…ah ah..ah..ah “ il faccione di Ruggero sembrava esplodere dal ventotto pollici di Ennio.


La fattura di quella telepromozione sparì misteriosamente. (…)


 


 


W  IL  25  APRILE


 


Il venticinque Aprile di quell’anno, cadeva nella settimana di esposizione alla zona fiera. Ruggero era agitato come un ragazzino mentre cercava di organizzare il tutto con falsa competenza. Il trasporto era la cosa più facile. Gli accordi per il posto stand pure. Il difficile era trovare la persona che, agli occhi del pubblico potesse dare una bella impressione nonché un briciolo di credibilità dell’azienda. E Ruggero non aveva voglia di affaticarsi più di tanto .


Sopralluogo nel campo della zona fiera. Le bandiere sventolavano mosse da un deciso vento di inizio primavera, e quelle bandiere, pensa, avevano un significato molto più importante cinquant’anni prima, quando questa strada non era percorsa da me e Ruggero col Mercedes CE mentre trillava il telefonino. Ora sventolano ignorate solo per fare da cornice ad una bella giornata di sole in modo che la gente possa uscire e comprare, fare il ponte ed andare due o tre giorni in vacanza. Magari andare al mare per il primo sole dell’ anno col canotto attaccato dietro la macchina, il cane, la nonna, i figli, i thermos e i panini fatti in casa da mangiare sulla corsia di emergenza dell’ autostrada mentre il cane fa pipì. Allora tutte quelle foto di gente che urlava con la gioia che gli sprizzava dagli occhi sfilando per strada e abbracciandosi cosa significavano? Quelle case distrutte e quegli ammassi di macerie che si vedevano ritratti, certo non erano fonte di felicità,  ma era finita la guerra, pensai, ed era un motivo ben più che sufficiente per vedere ritratta gente allegra. Erano foto che mia nonna mi faceva vedere da bambino e in un qualche modo mi insegnarono un profondo rispetto per la generazione di quel tempo. E mi fecero riflettere . Più di ogni cosa. Il Gero di fianco a me stava parlando al cellulare mentre guidava e il suo modo di parlare mentre pensavo a queste cose, mi dava fastidio. Mi dava fastidio essere in quella macchina,  il modo in cui guidava, come prendeva le curve, in sottosterzo, come se la strada fosse sua. Sotto quelle bandiere. Con lui non potevo imbastire nessun discorso di quel tipo, ma il desiderio di capire il vero significato di quella ricorrenza (non solo dal punto di vista storico) si faceva in me sempre più grande. Credevo fosse stata un’ingiustizia, ero convinto che celebrazioni di quel tipo erano diventate solo delle scuse, come ormai il Natale, cosicché la gente che si credeva furba se ne potesse approfittare. E tutti noi eravamo diventati sempre più  inconsapevoli del vero significato di quella data. Buona solo per stare a casa dal lavoro. E la felicità di quei sorrisi nelle foto si riduceva a tristi bandiere penzolanti dai fili elettrici e alla banda che suonava in piazza, sfilando davanti a qualche vecchio signore vestito a festa che senz’altro di ricordi ne aveva,  ma non sapeva a chi raccontarli .  


Io e la mia guida spirituale del  “come non diventare” incarnata in Ruggero, arrivammo sul posto. La pioggia dei giorni precedenti aveva lasciato parecchio pantano per terra. Questo oltre a rallentare i lavori, mi fece ricordare quelle vecchie foto. La campagna, vasta e spoglia, disseminata di buche. La zona fiera sarebbe stata ripristinata in poco tempo per permettere l’afflusso degli espositori che già dal giorno successivo dovevano prendere posto. Ci mettemmo in prima fila per parlare con gli organizzatori. Vicino all’entrata già sorgevano i primi stand. E a due giorni dal venticinque Aprile, i camion scaricavano instancabili tubi di ferro e assi di legno, gli uomini della sicurezza sbracciavano e davano indicazioni e sulla facciata dello stabile sede degli uffici, a fianco della bandiera italiana, sventolava presuntuosa la bandiera dello sponsor. Le due bandiere si toccavano, si strusciavano l’una contro l’altra, si coprivano sbattute dal vento. Pareva che ognuna volesse il proprio spazio. E immaginavo cosa poteva importare tutto questo a quel  signore che guardava sfilare la banda. Con lo sguardo profondo e orgoglioso  di chi non parla perchè le sue parole sono nella storia, la saggezza nei suoi anni, il suo spirito nel giusto. 


Il sole pareva volesse esplodere da dietro le nubi ed un’aria calda spettinò le piante che delimitavano il grande cortile. Mi trovavo al centro fra gente in giacca e cravatta che rideva e rispondeva al cellulare e operai che sudavano e scaricavano. Mi sentivo al centro dell’universo. Le cose giuste (dice mia nonna ), stanno sempre nel mezzo. Passai un’ora in compagnia di un palo della luce e quando il sole spense i riflessi e le ombre pian piano si allungarono, la Mercedes CE partì velocemente sotto un tramonto che prometteva per l’ indomani una buona giornata . Mentre Ruggero si lisciava i capelli  e spingeva sull’acceleratore, con una fretta inspiegabile  ci dirigemmo  verso il mobilificio.


Il giorno dopo la festa stava passo passo diventando reale, la struttura della mostra era ormai comprensibile ed il sole aveva asciugato le pozzanghere. Ai lati del perimetro erano comparsi gli immancabili pensionati  che puntualmente, ogni costruzione, davano il loro ausilio tecnico. Erano persone di ogni ceto sociale e di età sommaria comunque non inferiore ai sessanta, sessantacinque anni. Raggiungevano la zona fiera  a piedi o in bicicletta e con una sicurezza che non tradiva la totale estraneità al palinsesto, arrivavano persino dai manovali che stavano preparando i prefabbricati dando istruzioni su come era meglio fare. Loro, divertiti, stavano al gioco rispettosi per l’età e garantivano la messa in opera dei suggerimenti. E così, viva il venticinque Aprile, passato fra l’odore di salsiccia ai ferri, gnocco fritto e salumi a volontà. Assaggi, depliant, chi più ne ha più ne metta. Fra tanta gente che passava in rassegna i vari stand (fra i quali anche il mio), la maggior parte aveva le rughe pesanti in faccia, il maglione tinta unita sulle spalle ed un sorriso garbatamente perplesso, fra tanta abbondanza . Ruggero aveva noleggiato per quel giorno due ragazze pon-pon mezze nude che distribuivano volantini con su stampati mobili che parevano sin troppo belli. In mezzo al prato, splendevano le auto in esposizione della concessionaria, nello stand di fianco al mio si svendevano i capi invernali e i bambini giocavano rotolandosi per terra. I nonni passavano in rassegna. I papà compravano i gelati nello stand del bar. Le mamme rincorrevano i bambini. L’odore pesante composto da salsiccia, strutto, carne, patatine, avvolgeva tutti e tutto. E questo  rimarrà l’ unico ricordo della mostra per chi, a casa, si toglierà i vestiti e li metterà nell’armadio . Era mezzanotte e la baraonda di gente (fra cui una signora che si era seduta sul divano in esposizione perchè era stanca), cedette il passo al silenzio. Piano piano le insegne si spegnevano. Gli addetti ripulivano per terra con grossi spazzoloni. Il fresco della sera si faceva intenso. E anche la solitudine che aleggiava intorno a me. Ero rimasto solo (mi doveva passare a prendere  il Gero). Solo, incravattato come un pinguino, a far da guardia ad una cucina, tre mobili e un divano. Mi incamminai verso lo stand del bar, con le mani in tasca, calciando bicchieri di carta e pacchetti di sigarette vuoti . Attraversai il campo davanti a me, con l’ erba tagliata di fresco bagnata dalla brina. Presi un caffé. Le poche anime rimaste mi guardavano in modo strano, ma io mi sentivo fra il pirla e il padrone del mondo. Avevo la bocca impastata. Nessuno sapeva che stavo aspettando da due ore quello stronzo del mio principale. Alzando gli occhi al cielo vidi le stelle al loro posto. Andai in paranoia e mi chiesi se qualsiasi altro essere umano al mondo vedeva quello che stavo vedendo io. Se qualche altra persona in quel preciso momento vedeva quelle stelle così brillanti. Due persone a migliaia di chilometri di distanza ai quali occhi si presentava lo stesso spettacolo. Magari non solo due, ma tre, dieci, cento, mille… chiunque guardasse il cielo, e solo quello in quel preciso istante. Altro che Internet.  Possiamo essere così tutti uguali. Sotto lo stesso cielo. Vedere le stesse stelle, io qui sul prato come chi alza gli occhi dalla sua fattoria nel Texas, sentendo lontano l’ urlo del coyote. Io sentii due colpi di clacson. Lo stronzo era arrivato.


Ore una e trentacinque.


Ennio era sdraiato al buio nel suo letto e non riusciva a dormire. Doveva decidere quando troncare con Cristina. Sapeva che era una doppiogiochista e che era già separata dal marito, ma non immaginava che quella sera era andata a letto con Tozzi Ruggero, titolare dell’omonimo mobilificio e che per colpa sua un cretino aveva aspettato tre ore davanti ad uno stand. I due si erano conosciuti al bar dove il Gero passava le sue mattine. ……….


 


 


 


…………………….L’INCONTRO


 


Due settimane dopo, in una tranquilla mattina a giugno, la mitica non partì e necessitando della visita dal meccanico per una settimana usai il furgone da vergogna della ditta. Di nuovo aveva soltanto le scritte, “ TOZZI ARREDAMENTI” , appiccicate sulle fiancate e grandi come le scritte dell’Alitalia sugli aerei. All’interno odore di muffa e polvere. Era comunque un mezzo e a caval donato non si guarda in bocca. Quella mattina il Gero in ditta non si vide, trovai un biglietto al mio posto di lavoro scritto da lui dove mi diceva di uscire per una consegna piccola e urgente, quindi, da solo. Già dall’inizio, era una mattina particolare.


Le nuvole in cielo sembravano grossi pezzi di cotone ma il sole già forte a quell’ora dava per certo una bella giornata. Il vecchio furgone si mise in moto esitante ed io guardai la destinazione sulla bolla. Bologna, centro. Presi l’autostrada. Mi sembrava di guidare un velivolo della seconda guerra mondiale e spensi la radio, primo perchè il rumore del motore era insopportabile, secondo per star più attento ai pezzi che si potevano staccare. Sessantacinque km/h. Più di un’ora di viaggio.


Il centro di Bologna aveva il suo fascino, era anche quella mattina il cuore della piccola grande metropoli emiliana, tanto simile ma tanto esasperata rispetto al mio piccolo paese in provincia di Reggio Emilia.


Arrivai all’indirizzo della consegna e mi aprì la porta una ragazza. Aveva i capelli neri, lunghi e mossi, gli occhi scuri e vestiva una camicia lunga e bianca che le arrivava sino alle ginocchia. Il suo sorriso era radioso e le gote dolcemente andavano ad alzarsi sostenute dalle labbra carnose ma  aggraziate che si aprivano su una marea di denti bianchissimi e ordinati. La sua mano (attaccata al corpo da un polso asciutto e assai affascinante) era ancora appoggiata alla porta e la pelle ambrata dei polpacci risaltava sul parquet chiaro, terminando nei calzini bianchi e corti alla caviglia dove lei teneva i piedi. Dio esiste. E quando vuole, le cose fatte bene vengono fuori. Lei mi guardava, e la sua espressione stupita ma, cordiale ma, sicura ma, forte ed innocente, ebbe su di me un effetto ipnotico e non riuscii a comunicare normalmente se non con un sorriso affannato accompagnato da una cospicua sudorazione. (E le gocce di sudore sul parquet lucido fanno veramente schifo).


Non so quanto tempo sia passato, ma quegli istanti me li sarei ricordati per parecchio tempo. La stessa luce che emanava quella ragazza era particolare, o forse era solamente la finestra dietro di lei che era rivolta ad est.


“Tozzi, sono ….avrei lo sportello..i mobili da Reggio Emilia…..” dissi io (per fortuna mi aspettava) e appena girò lo sguardo mi asciugai con un fazzoletto la fronte madida di sudore. Mi fece accomodare sul divano e si mise un cerchietto raggruppando i capelli all’indietro lasciando libero soltanto un ciuffettino sulla fronte. Avevo sicuramente una faccia da pirla. Lei era andata a telefonare a sua madre. Mi guardai allo specchio, stavo sorridendo. Guardo la sala. Famiglia benestante. Cattolica. Medio borghese. Medio alto, forse. Sul tavolino di cristallo ci sono le chiavi di una macchina e dei portaritratti con lei che fa la comunione, la madre (bella donna),  il padre vestito da sciatore e il gatto. Tutto a posto. Gentilmente mi offre il caffé. Spengo il cellulare.


Non sto assolutamente pensando di saltarle addosso, ho paura di essermi innamorato. Vorrei fermare il tempo, vorrei che ciò che sto vivendo diventi per me una cosa normale, ho paura che fra cinque minuti, come sicuramente sarà, tutto finisca. E saremo a sessanta chilometri  di distanza, percorrendo strade e vite diverse. Il tempo di un caffé. Per cinque minuti in questo angolo di mondo ci siamo conosciuti.


La ragazza tornò ed era veramente carina,  io cercai di essere il più naturale e interessante possibile  nonostante il mio impaccio . 


E’ lei a togliermi da ogni imbarazzo, parlandomi di lei, della  scuola, la famiglia, le amiche, i Nirvana, Bologna di sera ….quest’estate … (dove sarai…) e io vado un attimo in bagno approfittando per mettermi a posto anche i peli del naso .


Il furgone da vergogna è ancora davanti al portone, con le quattro frecce, il cassone aperto  e due multe sul parabrezza. Sarebbe bello rivederci, giusto per quel concerto….. ti compro i biglietti. Il mondo fuori non esiste più, ci sei solo tu. Siamo tutti e due sul divano, fianco a fianco a prendere il caffé. Mentre allunga il braccio per prendere lo zucchero, la sua ascella passa a pochi centimetri dalla mia faccia. Posso nettamente distinguere l’odore della sua pelle. E scorgere alcuni piccoli peli. 


Ma come ti chiami….Valeriana. ( Roberto e Valeriana, pensai … suona bene). 


“Giovanotto, ma lo sa che i suoi tecnici hanno sbagliato tutto……”. Così esordì la madre (più vecchia di dieci anni dalla foto), entrando dalla porta d’ingresso dietro di me e facendomi letteralmente schizzare sull’attenti.


La coccolai come nessun ruffiano al mondo poteva fare di meglio, smontandogli e rimontandogli quel cazzo di sportello e prendendogli tutte le misure che voleva.


Ore mezzogiorno e quaranta. Ruggero mi avrebbe urlato in faccia per un mese. La signora divenne affabile. Mi invitarono a pranzo, desistetti per gentilezza, poi accettai.


Scesi in fretta le scale, parcheggiai il furgone e diedi quattro martellate alla marmitta che cadde per terra sbriciolandosi. Accesi il cellulare e spiegai il problema al Gero che sentii inaspettatamente calmo tanto da sembrare imbambolato. Il meccanico più vicino apriva alle due e mezzo, col tempo per la riparazione sarei rientrato nel tardo pomeriggio. Il Gero assentì ed io avevo l’alibi per quell’inaspettato contrattempo . 


Mangiai con Valeriana e sua madre nel modo più composto della mia vita, controllando ogni possibile rumore che potesse per disgrazia fuoriuscire da qualsiasi parte del mio. Ero impacciato come non mai. Mangiai le verdurine al forno con i pomodorini e sopra la besciamella  ad una temperatura ustionante senza emettere il minimo lamento. E col mio bel sorriso di plastica  stampato in faccia. Ogni tanto, per una frazione di secondo, buttavo l’occhio su di lei, a fianco a me, mentre stavo attento a tutte le stronzate che mi raccontava la madre. Era bellissima. Era l’insieme di tutti gli aggettivi che esprimessero positività esistenti a questo mondo ed io mentalmente cercavo frasi adatte per il commiato che sottintendessero anche un imminente arrivederci. Lei scherzava con lo sguardo e con gli occhi mi parlava, mi seduceva. Non era complice di nessuno ed io desideravo solo il suo bene, quella bontà che traspariva dai suoi occhi  (e dalla sua camicetta appena slacciata). Quei due occhioni grandi e marroni che così belli non gli avevo mai visti.


Alla fine del pranzo mi ero conquistato anche la simpatia della madre (mi sembrava di sognare) e per questo ci lasciò soli sul terrazzo a prendere il caffé . 


“Ci rivediamo….quando vuoi ti vengo a trovare…( anche perchè mi ero lavorato ben bene la mamma che mi aveva promesso l’ordine di quattro sedie e una scarpiera). Quest’anno aveva la maturità e quindi visti gli esami imminenti per due o tre settimane non poteva fare programmi. Il dopo, tutto da decidere. Anche perchè su “quelle sciocchine delle mie amiche” , non ci faceva affidamento. (Punto a mio favore).


Anche se mi sembrava prematuro programmare le vacanze con una ragazza conosciuta la mattina stessa, nulla mi vietava di sognare, perdendomi nei suoi sguardi  e fantasticare su un futuro insieme. Era tardi ormai ed era giunta l’ora che io prendessi la porta. La madre mi salutò dalla cucina, in pantofole e con i guanti per lavare i piatti, promettendomi di chiamare per il prossimo ordine. Ed io ero sulla porta, come la mattina stessa , con la luce che entrava dalla parte opposta e la sua mano dolcemente appoggiata alla maniglia, mentre i nostri occhi erano  dritti gli uni dentro gli altri. Mi veniva da piangere. Lei aveva la stessa espressione della mattina. Ci promettemmo di risentirci. Scesi le scale scoppiando di una gioia mai provata prima, alzai gli occhi al cielo ed ero convinto di essere uscito con qualcosa in più da quel palazzo (a parte quello che avevo mangiato), qualcosa di cui non avevo ben definito l’entità, ma ero sicuro che prima mi mancava ed ora non volevo più perderla. Era Valeriana. Una timida ragazzetta bolognese con una larga camicia bianca e due occhi grandi e scuri. ……..


 


 


 


 


…….Ruggero chiuse gli occhi, non si era mai sentito tanto stanco come in quel momento.


Gli sembrava di essere arrivato ad un immaginario capolinea della sua vita.


Aveva l’impressione di vedere una linea sottile che divideva il suo passato dal suo prossimo futuro. Quel futuro che era molto difficile costruire. Doveva iniziare da zero.


La sensazione di sconforto si impadronì di lui. Ruggero non aveva un carattere forte. Ruggero in quel momento si sentiva in pericolo, come riteneva in pericolo tutte le persone che lo circondavano, tutti quelli che la mattina si svegliano incazzati, tutti quelli che  si ritengono superiori agli altri , tutti quelli che escono la sera e la mattina dopo non sanno con chi sono usciti, tutti quelli che parlano sempre a voce alta, tutti quelli che sono convinti di avere un’ idea politica, tutti quelli che non si guardano mai dentro, tutti quelli che non hanno mai dato importanza alle piccole cose, tutti quelli che ti salutano senza guardarti in faccia, tutti quelli che ti guardano in faccia e non ti salutano, tutti quelli che sono amici in cinque minuti, tutti quelli che parlano sempre  con una maschera davanti al viso, tutti quelli che sorridono troppo, tutti quelli che criticano gli altri, tutti quelli che non sanno che c’è stata una storia  e non sanno da dove vengono, tutti quelli che dicono che non s’innamoreranno mai, tutti quelli che dicono che la famiglia…., si,…è una cosa normale .., tutti quelli che confondono amicizia e interesse, tutti quelli che si confondono, tutti quelli che stanno alzati a scrivere fino a tardi, tutti quelli che non sanno che hanno anche un prossimo, tutti quelli che ogni Sabato vanno al centro commerciale e non comprano un cazzo,  tutti quelli che in vacanza cambiano, tutti quelli che con la macchina giusta sono altre persone, tutti quelli che si sentono più furbi, tutti quelli che manifestano in piazza e non sanno neanche il perchè, tutti quelli hanno la maglietta del “Che” perchè è una moda, tutti quelli che sono invidiosi e non sanno di esserlo, tutti quelli che sono falsi e sanno di esserlo, tutti quelli che non riescono a fermarsi , tutti quelli che non si pongono dei dubbi, tutti quelli che sognano……ma non dicono niente a nessuno, tutti quelli che non hanno il coraggio delle proprie azioni, tutti quelli che non sanno di essere ipocriti, tutti quelli che sanno di essere ipocriti, tutti quelli che per metà della loro vita hanno leccato il culo e per l’altra metà l’ hanno presa nel culo, tutti quelli che vogliono sembrare di più di quello che sono, tutti quelli che non vogliono sporcarsi le mani, tutti quelli che vogliono fare finta di lavorare, tutti quelli che si lasciano condizionare, tutti quelli che se non sono le cinque del mattino non si sono divertiti, tutti quelli che non scrivono più  lettere, ma telefonano, telefonano……, tutti quelli che non leggono più, ma guardano solo le foto dei quotidiani, tutti quelli che parlano troppo di calcio  e non sanno di dire sempre le stesse cose, tutti quelli  che buttano via la roba che è passata di moda, tutti quelli che parlano inglese anche se non lo sanno, tutti quelli che dicono che chi ruba fa bene, tutti quelli che dicono che in Italia non si può andare avanti così, tutti quelli che non sanno dov’è la verità, che non sanno che basta poco, basta quel poco che abbiamo abbandonato, perchè non sappiamo più essere noi stessi, non sappiamo più dare spazio alle nostre emozioni, non sappiamo più fare del bene agli altri …………. e fare del bene a noi stessi. Non sappiamo più amare. Ruggero non aveva mai amato. Ruggero si guardava le mani.


Ruggero si voleva ammazzare, ma non aveva il coraggio. Ruggero aveva capito, almeno, quello che non aveva mai fatto. Non aveva mai  cercato di guadagnarsi la stima delle altre persone, non si era mai accorto di  essere soltanto un burattino e mai un’ uomo su cui gli altri potevano contare.


Ruggero si alzò, con gli occhi gonfi e barcollando entrò nel portone della casa, dietro il mobilificio. La madre rimase insensibile ai rumori.


Ruggero raggiunse la finestra del solaio e la spalancò. Il vento entrò nel sottotetto e fece volare alcune carte impilate contro la parete. Ruggero  guardò in basso e valutò l’altezza. Avrebbe dovuto gettarsi a destra per evitare i rami del vecchio albero che cresceva di fianco alla casa. Ruggero singhiozzò, si coprì gli occhi e si gettò nel vuoto.


L’ambulanza arrivò dopo pochi minuti e i medici dichiararono subito Ruggero non in pericolo di vita. Aveva una profonda ferita all’addome (causata da un ramo dell’ albero)  che forse aveva attutito la caduta. Ruggero se l’era cavata, si era rotto tutto ma non aveva lesioni gravi. E sicuramente mai più avrebbe tentato il suicidio. La corsa dell’ambulanza dal piccolo paese all’ospedale della città fu a sirene spiegate con all’interno Ruggero in stato di incoscienza e la madre che piangeva.


Il ramo mezzo spezzato della vecchia pianta cadde per terra mosso dal vento, la finestra ancora aperta sbatté e il giorno dopo la notizia di Ruggero che si lesse sul quotidiano locale aveva più del comico che del drammatico :


“ MOBILIERE SCIVOLA DAL TERZO PIANO, SALVATO DA UNA PIANTA” .    …………….


 


 


 


 


……………. E Roberto senza replicare nulla  montò in sella. I due pedalavano e parlavano, ridevano e scherzavano. Roberto la guardava negli occhi. Poi si fermarono, di fianco alla fontanella, nella piazzetta della cooperativa. La ragazza abitava li vicino. Quella sera il tramonto era  rosso, ma grosse nubi all’orizzonte stavano per avvicinarsi. Roberto non ci pensò, le prese le mani, la portò verso di se. Si avvicinò a lei e la baciò.


Era l’otto settembre. Scappavano tutti. I tedeschi sparavano. Gli aerei passavano. Alla casa di Ginone  qualcuno diede fuoco. Non si scoprì mai il colpevole. Ed il povero Gino quella notte rimase a vedere le fiamme che lentamente divoravano la sua casa.


A Roberto tutto questo ruotava attorno, ma l’ unico mondo che voleva vedere era dentro gli occhi di quella ragazza.


Poco più di cinquant’anni dopo Roberto morì, in un letto d’ ospedale. Mentre il nipote (che si chiamava come lui ) rientrava a casa dalla bottega del padre.


Ai funerali, in disparte e lontano da tutti, qualcuno vide una vecchietta che nessuno conosceva. Era minuta  e ricurva su un bastone. Era vestita di nero, in un’ abito ricamato di merletti. Aveva un fare semplice e molto educato.


Arrivò, sfiorò le mani del defunto e se ne andò. …………..


 


 


 


…………………..Valeriana rimase sola, nella sua dimensione. Rimase nell’ immaginario collettivo di chiunque cerca il valore vero e concreto di una vita da costruire. ………..( continua)…….


 


 


 

2 Commenti a “IL GRANDE SOGNO”

  1. Andrea dice:

    Ciao Rossano, grazie per avercelo fatto leggere. Molto interessante il modo in cui hai intessuto le storie dei diversi personaggi. Suggestiva la descrizione del comportamento di Roberto di fronte a Valeriana.
    Lo sfogo finale di Ruggero poi (“tutti quelli che…”) vale da solo tutto il racconto :)

  2. fabio dice:

    Rossano, a me è piacito tantissimo l’ncontro tra Roberto e Valeriana. Ammetto che ho avuto qualche difficoltà nel seguire le varie storie che si intrecciano, magari se lo avessi letto tutto insieme…
    Mi è piaciuto, attendo il seguito.

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