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capitoli “La mandria” e “Ruggero”

Pubblicato da rossanocrotti il 1 aprile 2007

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LA    MANDRIA

 

La MANDRIA era al suo posto, e le cose andavano come dovevano andare: il cosiddetto “popolo della notte” era pronto a risucchiarci, nella calca esterna , infreddolita e urlante di facciottini di gomma che a tirarli contro il muro ti ritornano indietro  e in quella interna  odorante di sudore e gin tonic, composta dalle medesime persone, più i buttafuori. Tutto ciò era bellissimo. In una ventina di minuti ero quasi arrivato al bancone del bar, col montone del peso di dieci chili in mano (il guardaroba era nascosto da una folla spaventosa) e con la mia brava bevanda alcolica e orrendamente dolce cercavo di allacciare un qualsiasi rapporto umano, nonostante il bombardamento musicale che per gli habitué sembrava non esistere. Alla fine, col braccio ormai distrutto e il montone incastrato nella cinta dei pantaloni, mi accontentai di inserirmi con cadenze regolari in qualche discorso inutile che a seconda della posizione dove veniva svolto, acquistava la relativa importanza. Optai per l’angolo destro del bancone del bar, posto semiappartato: discorso quasi filosofico, ovvero, si riusciva bene o male a dialogare con l’interlocutore senza urlare. Giovanni era perso in se stesso ma bene o male riusciva a gestire le sue poche conoscenze e tirare i dialoghi quasi sempre facendosi ripetere le cose due volte. Il buon Giovanni. Non ce la faccio più. Mi stavano roteando talmente veloci le parti basse che pensai di prendere il volo. Zucchero sta urlando più della sua voce dalle gigantesche casse disseminate ovunque. Sempre meglio della techno, pensai. Si era dentro da una buona ventina di minuti, punto della situazione: musica discreta, volume assordante, parte femminile della MANDRIA esigua ma di buona qualità. Con una di esse tentai persino un gancio, ma prima che me ne rendessi conto, la simpatica mi aveva già squadrato dalla testa ai piedi e salutato. Effettivamente era ancora presto. L’orario era del pieno totale, sperai in una selezione automatica col tempo che man mano passava. Nel frattempo io praticamente non esistevo. Ero una statua senza colpa in mezzo a correnti fluttuanti composte da corpi umani in diverse condizioni e diversi stati di ebbrezza. Zucchero aveva finito. Oddio la techno. Carine si strusciavano a me, mi pestavano i piedi, mi rovesciavano i cocktail addosso. Io non esistevo. Era il vestito, pensai. Giovanni in questo momento per me era la terraferma e io ero Colombo, annaspai sino a lui che stava parlando con qualcuno . Aveva le vene del collo grosse ed era sudato come alla fine di una corsa. Gli aliti sapevano di alcool. Le tipe conosciute (in realtà erano parenti della vicina di casa di un suo amico , ma tutto andava bene) erano effettivamente dei cessi in confronto a quelle cose statuarie e luccicanti che si muovevano sui cubi, ma almeno davano soddisfazione. Le luci roteavano e si faceva fatica a tener testa al discorso, del tipo “sai , che il panettiere sotto casa mia , che ha cambiato la macchina, la prossima estate parte in sacco a pelo per la Romania che , cioè, anche dal punto di vista di conoscere, cioè, non le solite cose …” …. accontentiamoci. Io partecipavo intercalando (ero bravissimo) fra il distaccato ed il possibile interessato, il sornione ed il furbescamente smaliziato, ma mi ero già rotto le palle. Spesi un altro cocktail  solo per avere in mano qualcosa: fa tendenza (o faceva ?). Il montone pesava ma ormai non ci pensavo più di tanto. Bevevo. Fumavo. Intercalavo. Tittitì tattattà. Io e Giovanni capimmo che la simpatica compagnia delle due attempate pulzelle poteva essere scaricata, l’ora era tarda e ce ne andammo. Ciascuno per la propria strada. Noi con noi, loro con loro. Erano il raro esempio nel locale (avevano l’età di Giovanni), di quella generazione stressata che preferisce la pizza fra amici alla relazione fissa. Uscimmo e una ventata d’aria fresca mi entrò nelle ossa e mi fece bene, il terreno rimbombava ancora e ci avvicinammo alla macchina. “Bilancio della serata?”, ci chiedemmo. Il buon Giovanni accese una sigaretta, aspirò profondamente e buttò fuori il fumo con un sospiro liberatorio. La nostra macchina viaggiò verso casa tranquilla passando fra i semafori a quell’ora lampeggianti.                                                                                                                      

 

RUGGERO

 

La mattina dopo, un sabato normale di un paese in provincia di Reggio Emilia.

Ruggero, come ogni mattina si risveglia nella sua stanza rimasta negli anni troppo piccola per un responsabile alle vendite di novantacinque chili. Lavorava nella ditta del padre.

La stanza era nella casa del padre. Io lavoravo in quella ditta.

La bocca mi era un po’ asciutta ma gli oggetti intorno a me erano tutti al loro posto.

Era segno che la precedente serata non aveva lasciato segni. Come era giusto.

Ruggero bevve il caffellatte con la solita espressione aggressiva ed insofferente, strano già alla mattina, ma normale per chi odia le sue giornate. Perennemente all’ombra del padre. Il mobilificio lo aspettava e non era qualcosa che si era costruito lui, come sognava, ma la cosa in alternativa rimasta lì per anni e venuta buona dopo alcuni buchi nell’acqua. Era una tranquilla giornata di marzo e tutto sembrava andare per il meglio. Il sole alto in cielo illuminava ogni cosa circostante. A spezzare l’ immobilità e il silenzio delle piante ai confini della città, solo la strada poco trafficata e il rumore delle auto. Tutto pareva più calmo. Camminando, i miei  passi sul pezzo di strada recintata, parevano conquistarsi il terreno. Sentivo sotto i piedi ogni granello di polvere che pestavo . Tutto calmo. Fosse sempre così. Con gli occhi leggermente socchiusi per il chiarore del sole, potevo immaginare di fianco a me qualsiasi panorama, anche molto migliore e non così banale. Ma forse il fascino era proprio la banalità, dove mi trovavo perfettamente a mio agio. Ero lì quella mattina di passaggio, in quanto, più che un dipendente di Ruggero, ero una sorta di barista avventizio, o meglio, il giovane ragazzo che nell’azienda si farà strada, ma intanto gli tocca di lavorare in po’ di più degli altri (retribuito) e finché non si esagerava tutto andava bene. Ma quel che mi toccava era anche  sopportarmi tutte le confidenze e i malumori di un titolare che non era al suo posto. Arrivai dinanzi al cancello e notai le due macchine della finanza . Il Maresciallo Catania pareva molto più simpatico della divisa che portava e abbozzava persino qualche sorriso al mio povero principale che pareva invece gli fosse piombato un carico di letame in testa . Forse Ruggero non sapeva di essere sotto sotto (e per merito di suo padre), una brava persona. Credeva inconsciamente di aver evaso il fisco pur avendo pagato le tasse.

“E Tozzi non si preoccupi,Tozzi. Questo è l’ anno in cui controlliamo le ditte del suo settore e in questa zona è toccato a lei, non c’è nessun secondo fine”. Ma il Tozzi Ruggero, Presidente della ditta qui presa in esame, non era mai stato alle prese con problemini di questa portata, da sempre risolti dal babbo ora all’ospedale con due tubi in gola e quasi mezzo metro d’intestino in meno. E stavolta portare giacca e cravatta non bastava. Io andai a prendere la colazione per tutti (offerta dal Gero, che bravo) mentre il maresciallo si inchiodò davanti alla televisione con le estrazioni del lotto e se ne andò una mezz’ora dopo, promettendo di ritornare il martedì seguente per vedere quello che mancava. Ed il simpatico Maresciallo  partì in sgommata e con un catalogo di divani per sua moglie. Fu proprio quella mattina che Ruggero si presentò a me in una veste insolita e dal tono con cui divagava  non capii se il mio titolare aveva problemi ad essere puntuale con lo stipendio o voleva diventarmi amico. (A me? Perchè?). Il simpatico intraprendente giovanottone in questione con una decina d’anni più di me esordì con una ruffianosissima pacca sulla spalla. Aveva i capelli unti di gel e lunghi quanto bastava per coprire la piccola chierica che aveva dato inizio ad un principio di calvizie. Portava la giacca stirata dalla santa sua madre ed un abbronzatura da lampada tipo spacciatore che nessuno gli aveva detto era passata di moda, aveva un cordoncino portafortuna al polso e un rolex falso che si vede da due chilometri, i camperos a punta  e la fondina per il cellulare nella cinta. I suoi discorsi facevano intendere che in quella ditta io mi potevo muovere senza fare complimenti in quanto avevo acquistato la sua fiducia.

Grazie. ( Chi decide è tuo padre, cretino, lo so benissimo).

“Oggi vedi come va il mondo, Roby (i diminutivi li odio), sai  non è facile, la gente ha un casino di pretese, oggi devi saper anticipare la richiesta di mercato (che cazzo ne sai tu) e acquisire la fiducia del cliente con la serietà, l’onestà, la professionalità e il dinamismo (da dietro la tua scrivania )….. per questo è essenziale andare al passo coi tempi, l’informazione ( la Gazzetta dello sport )…..bravo…bravo. (……). L’impaccio dei due, da parte di uno per non sapere cosa dire e dell’ altro per non aver capito dove colui che ha imbastito questo discorso voleva arrivare, fu rotto dalla marmitta bucata del furgone delle consegne in anticipo. Ti va una pizza? Va bene, (dissi con un tono adatto per la rassegnazione agli eventi). E facciamoci sta’ pizza. La pizza già sapevo sarebbe stato il Ruggero. Alla guida spericolata del furgoncino da vergogna utilizzato per le consegne, c’era il mitico Ivan, cugino di suo cugino e cioè Ruggero. E come Ruggero sta all’ombra del padre, Ivan sta all’ombra di suo cugino. E il cerchio della famiglia si chiude. Bomber nero, pantalone sporco da sempre, Ivan era detto “il terribile, solamente perchè era veramente brutto.

La pizzeria era da provincia e nessuno era vestito bene come Ruggero (e questo lui lo sapeva) quindi poteva pavoneggiarsi come se fosse l’unico uomo sulla terra ad avere una cravatta. Lì ormai era conosciuto e non gli davano peso. Anzi, lo assecondavano. E a differenza di un ristorante di classe della città, nessuno lo guardava male se sbriciolava tutto il pane in tavola prima dell’ arrivo delle minestre. E assecondavano anche il giochino idiota a cui tutte le volte sottoponeva il cameriere al momento dell’ordinazione del vino che voleva “ fermo…ma un po’ frizzante”. E rideva.  Idiota. Si passò la mano sui capelli unti e andò in bagno. Pensai: “io ero il dipendente non più anziano, ma con più preparazione generale, a lui il più simpatico, il pirla da chiamare se c’è bisogno al sabato…suo padre è all’ ospedale, cazzo vuole ?

Tornò con un sorriso di plastica e si buttò il tovagliolo sulle ginocchia. La strana coppia. Io ero normale. I camerieri passavano veloci con vassoi di cozze gratinate e aragoste giganti. Uno di essi si avvicinò e gentilmente ci diede i menù. Scelto . Ordinato. Giochino idiota del vino. Mangiato il primo. Buono. I clienti attorno a noi mangiavano con gusto. Era gente alla buona, del posto, che scherzava e faceva i complimenti alla signora che uscì dalla cucina con il grembiule e gli zoccoli ai piedi. Guardai sul bancone dove c’erano piante finte e foto di famiglia. In alto bottiglie di liquori ormai inesistenti. Si udivano risate grasse di signori col naso paonazzo e il cappello della festa. E con lo stecchino in bocca. Era gente semplice e mi sentivo più uno di loro che l’invitato di Ruggero, che si lisciava con le dita il pizzetto che portava da quando aveva visto Abatantouono in “Mediterraneo”. Tuttavia non mi sentivo in imbarazzo, anche perché il Gero fece di tutto per mettermi a mio agio parlandomi della sua vita di poco più lunga della mia, ma già con esperienza ed inquadrata con un posto al sole nel settore artigiano dove la sua ditta navigava come un sottomarino nella tempesta della crisi che si diceva ci fosse ( “gli anni 80 ce la faranno pagare”)…boh . 

“ Vuoi essere mio socio ? Vuoi partecipare attivamente all’ andamento dell’ azienda ?”

Poi mi disse che avrei guidato il suo Mercedes CE con le gomme larghe e gli interni in pelle, mi sarei seduto alla scrivania, avrei preso le telefonate…….ci penserò.

E arrivò il caffè. Il suo sorriso bonario e amichevole,  poteva nascondere dietro qualsiasi secondo fine. Dovevo saper leggere fra le righe. Nel silenzio che si era costruito volutamente al nostro tavolo vedevo in un sogno ad occhi aperti un mio possibile o improbabile futuro come un qualcosa di cui non avevo ben capito il senso, ma comunque alla guida di un Mercedes CE o dietro una scrivania. E a dire di Ruggero con guadagni sicuri. All’uscita del ristorante mi aspettava la mia Uno color oliva sbiadito e ritornai coi piedi per terra. Su una cosa riflettei: Ruggero aveva la stessa età di Giovanni. L’età di non ritorno, l’età dei bilanci e tuttavia di una presunta maturità. Punto d’ arrivo, di partenza, di sviluppo. Ma non ero uno psicologo quindi accesi il motore e partii.  Il volante era appiccicoso e io sapevo di fritto ma era Sabato e avevo il pomeriggio a disposizione per pianificare la serata.

 

Un commento a “capitoli “La mandria” e “Ruggero””

  1. fabio dice:

    Il titolo “LA MANDRIA” rende proprio l’idea della folla presente in discoteca, mi è piaciuto. Spero proprio che il protagonista non accetti la proposta di RUGGERO, c’è qualcosa sotto… ne sono sicuro. :)

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