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APRILE

Pubblicato da rossanocrotti il 16 maggio 2007

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APRILE


 


Venne il mese di aprile, e con esso la fioritura, il risveglio dei sensi, la voglia di cambiamenti. E per me, giovane e aitante promessa di qualcosa nel futuro, la voglia di cambiamenti c’era . Dovevo solo capire cosa cambiare, perchè apparentemente mi andava bene tutto al momento, ma ero sicuro che di lì a poco le mie esigenze sarebbero cambiate. Presi la macchina, anzi, la Uno color oliva sbiadito, e andai . Dove, non lo sapevo .


“L’ importante è sentire che vai”, come dice un noto cantante locale. Era Domenica mattina, e visto che non avevo voglia di fare niente, raggruppai tutti i miei pensieri, li caricai in macchina e partii. Alla volta della prima periferia di quel piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, cercando di capire fra la natura  finalmente risvegliata che scorreva dal mio finestrino, quella sottile leggerezza dell’essere che si può trovare ascoltando un pezzo degli Atlanta Rythm Section o mangiando una scodella di fragole fresche con sopra la panna. Tutto cambiava modo di essere, le esigenze, i desideri, in aprile era tutto diverso rispetto ai mesi precedenti. Era diversa la luce, le nuvole in cielo. Respirai dal finestrino e l’aria era più rarefatta da come l’inverno mi aveva abituato . Stavo percorrendo senza motivo una strada secondaria che dalla provinciale si allaccia alla via Emilia. La strada era una continua curva in mezzo alla campagna. L’ odore di letame era chiaro, ma non sgradevole . Rallentai per cercare di vedere le persone che in una villetta a sinistra della strada giocavano a pallone. Avevo il sole negli occhi e tutto intorno a me era verde. Nella casa successiva, allestita con piscina gonfiabile e tavolo da giardino prontamente risistemati all’uscita del primo sole, una famiglia preparava il pranzo sul barbecue. Di fianco alla casa, una donna stendeva panni. Quell’aria di spensieratezza mi pervase e mi dispiaceva il fatto che dopo quella serie di case comodamente distribuite per ettari di campagna  iniziava la trafficata via Emilia, le sue insegne, il suo caos. Sembrava un altro mondo. L’odore di letame era sparito. E così quella sensazione di tranquillità. Davanti a me la strada, le auto, i grandi cartelli della tangenziale. La percorsi velocemente, rispetto alla mia abitudine, e dall’ autoradio usciva una storica “So in to you” live. Pensai a poco prima, ai  pochi chilometri che distinguevano in modo così netto due modi di vivere e di abitare così diversi. Pensai alla felicità. A quella vera. Capii che era così semplice essere felice che per il modo di vivere di molte persone era impossibile esserlo. Felicità è desiderare le cose che si hanno. Felicità è dare più tempo a se stessi. Raggiungere quel famoso equilibrio in base a cui una persona ottiene il suo ideale di vita nonostante l’ avversità degli agenti esterni. Quei due chilometri di campagna mi avevano rappresentato l’essenza della felicità. Nel modo più semplice, e ormai sempre più raro. Uscii dalla tangenziale e con i piedi per terra e i miei pensieri in tasca tornai a casa, fra un campanile che sembrava far festa a tutti (dalle macchine bardate coi fiocchi bianchi, capii che era un matrimonio) e i negozi tutti chiusi. Nel deserto, nessuno a condividere la mia gioia e miei dubbi, salvo qualche bar e un pensionato in bicicletta che andava verso casa col giornale in tasca, barcollando. Evitandolo, procedendo a bassa velocità, mi fermai notando l’ insegna di un bar-tabacchi-sali-totocalcio-profumeria. Avevo deciso di festeggiare da solo quella bella mattina di sole, alla faccia di chi era a letto, rincoglionito dal Sabato sera precedente, con la bocca impastata e voglia di non fare un cazzo. Chiesi un Campari (facendo il brillante) e il barista col panciotto quasi slacciato e la barba di due o tre giorni me lo servì come se non esistessi. Per ripicca pretesi la fettina d’arancia (il tuo mestiere lo hai scelto tu, cretino) e il sopradescritto che era anche pelato e i pochi capelli erano lunghi e in disordine, fece orecchie da mercante. Sorseggiai il Campari e feci cenno più volte allo stronzo per pagare, mentre pensionati urlavano con a mano la Gazzetta dello Sport, ma in quel marasma domenicale da bar di quarta categoria, venni considerato come il posacenere di plastica che era rovesciato per terra. Misi tremila lire dentro il bicchiere vuoto e uscii. E la mia Uno color oliva sbiadito mi condusse a casa. Era una Domenica di mezza stagione (anche se si dice che le mezze stagioni non esistono più ).


Ruggero era nella sua casa di fianco al mobilificio e le Domeniche come queste amplificavano la sua solitudine, seduto in cucina mangiando uno yogurt e guardando sua madre lavare i piatti . 


Ennio provò per la prima volta un sentimento a lui sconosciuto, una specie di rimorso per aver puntato tutta la sua vita su un istinto che lo aveva portato ad un tormento psichico e alle soglie del ricovero. Era uno straccio. La sua ragazza quella Domenica si vedeva col suo ex marito. Lui stava in casa. La casa della zia di lei. E lui pagava l’affitto. Capì che la sua felicità stava in quel che aveva prima, che era tutta colpa sua, la moglie si era rassegnata a quel lato oscuro, egoista, spregiudicato, incosciente e anche un po’ pirla dell’ ex marito .


Duecento metri in linea d’ aria da Ennio seduto in pantofole sul divano ,  nella palazzina da otto appartamenti  circondata da un prato verde, Carlo e sua moglie decisero per il pomeriggio di andare al parco. Si era appena placata la discussione sul nuovo lavoro della moglie, Carmela, che essendo diplomata al liceo linguistico aveva una proposta di lavoro che le permetteva di lasciare l’attuale impiego precario di donna delle pulizie part / time .


“Cerca di capire il mio imbarazzo, guadagneresti più di me, e io già non guadagno male” sbuffò Carlo mentre ciondolava per casa in camicia a mezze maniche, pantaloni del pigiama e ciabatte da mare.


“ Non ti interessa avere più soldi in casa.” Disse lei.


“Soldi? E io dove vado dalla mattina alla sera…… Su di un camion!!  Il lavoro per guadagnare dei soldi lo faccio già io!   Il tuo compito in famiglia è quello di pensare ai figli” . Ribattè il Carlo, agitando l’indice .


“E poi è solo un’idea, è chiaro che in queste condizioni non mi prenderebbero da nessuna parte. Ma è un’opportunità per il futuro che non voglio perdere”. Carmela era appoggiata al frigorifero e i suoi occhi fissavano un punto indefinito sotto il mobile davanti a lei . Di quegli argomenti non avevano mai parlato prima .


“ Senti cara, continuò Carlo, lavorare vuol dire faticare dalla mattina alla sera, sudare, bestemmiare e adattarsi a ritmi indecenti. Guadagnare più di me per stare otto ore in un ufficio mi fa pensare che quel posto nasconda qualcosa. E ho detto tutto”. Carlo cercava di capire e di convincersi per quel che stava dicendo, ma in sostanza era in parte geloso e in parte orgoglioso di mantenere lui la famiglia. Per ultimo nutriva un pizzico d’invidia per la moglie che aveva sicuramente più di lui la possibilità di far carriera. E l’idea di pensare alla sua giovane congiunta in tailleur mentre risponde al telefono in un ufficio con moquette e piante di ficus mentre lui si scarica il suo camion, non gli andava a genio. No, meglio saperla china nell’androne di quell’ufficio a pulir per terra, perchè lavorare vuol dire sudare e far fatica. Non c’è altro modo. Carmela si era rattristata  conoscendo questo lato possessivo e stupido di suo marito. Decise di rimandare la discussione a dopo la gravidanza. I due continuarono la giornata tranquillamente, ma non incrociarono mai gli sguardi. Il parco pareva più silenzioso del solito.


Giovanni quella giornata decise di dedicarla alle pulizie e impiegò parecchio tempo tentando di scrostare diverse padelle che aveva accumulato nel lavandino. E’ comunque un passatempo che dà soddisfazione e non è di spesa. Ormai gli ultimi raggi di sole filtravano dalle piante davanti alla finestra e Giovanni nel silenzio rotto dall’acqua del lavandino e nella solitudine della sua cucina fu preso come da uno stato d’ansia che l’opprimeva da tempo. Gli tornavano in mente i pensieri che faceva quindici anni prima, quando andava ancora a scuola e immaginava il futuro. Steso sul  divano con gli occhi aperti, vedeva come in un flash il suo lavoro, la sua ragazza ideale, tutto senza fretta e senza contrattempi. In una giornata ideale di primavera, con un’aria buona leggera leggera. Erano quei pensieri in cui  tutti noi, da piccoli, pensavamo che il mondo fosse giusto, che tutte le mattine ci saremmo svegliati col sorriso. Che il male non ci avrebbe mai toccati e che i morti e le disgrazie li avremmo visti solo in TV o sui giornali. Forse Giovanni, se la sua ragazza non fosse morta, non avrebbe neppure scelto il lavoro di rappresentante che, a distanza di più di un anno dalla disgrazia, lo mantiene sempre impegnato e lontano dai ricordi. Ora gli rimanevano gli amici, pochi ma buoni, chilometri da macinare con la macchina piena di cataloghi e le spese del suo appartamento  preso in affitto, a cui era attento come alle note della sua tromba quando suonava il jazz .


 

Un commento a “APRILE”

  1. nihil dice:

    Avevo già letto altrove questo racconto, che mantiene la sua freschezza un poco melanconica, come uno sguardo affettuoso alle famose persone “comuni”. Comuni come tutti noi, piccoli umani impegnati a vivere cercando almeno la serenità. N.

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