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CONSIDERAZIONI SUL FUTURO

Pubblicato da rossanocrotti il 9 giugno 2007

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IL FUTURO


 


“Se l’America l’ha scoperta Colombo, perchè là parlano inglese?” .


Con questa acuta e spassionata riflessione, Ruggero quel mattino entrò in ditta con l’alito pesante, il vestito uguale da una settimana e la Gazzetta dello Sport sotto il braccio. Mi disse che aveva iniziato un corso serale di inglese. Una cosa buona per impegnarsi un po’ di tempo. Il sole debole del mattino illuminava da dietro la sua sagoma mentre si afflosciava nella poltrona presidenziale risucchiandolo e scricchiolando un po’ andando all’ indietro. La poltrona lo avrebbe rilasciato solamente per l’ora del pranzo. Sulle mensole di quell’ufficio c’era parecchia polvere. Il padre era ancora in ospedale dove doveva rimanere ancora parecchio tempo prima di terminare la convalescenza. La prima telefonata a cui rispose fu quella del Maresciallo Catania che gli comunicò le varie irregolarità rilevate presso la ditta. Ruggero annuiva, affermava, non smentiva e non dava per certo, come un bimbo che non si voleva prendere responsabilità. Che non voleva esserci in mezzo. Non riusciva a parlare per bocca sua, ma immaginava come avrebbe risposto suo padre. Suo padre che gli aveva dato un’ opportunità, un posto, un ultimatum. Suo padre non ne poteva più di suo figlio. Ora Ruggero se ne doveva stare muto e rassegnato  in famiglia a mandare avanti l’azienda. E sapeva che per lui era anche troppo. Non era ciò che voleva, ma non aveva scelta. Suo padre l’avrebbe gettato via come l’orologio. Aveva paura. Andò al bar e mi delegò centralinista provvisorio. Quella mattina da solo pensai al futuro. Ruggero non poteva pianificare la sua vita, almeno in parte. Io sì . E per la prima volta sentii che erano passati degli anni. Anni dalla scuola, dal militare, e stavano passando in fretta. E per certe cose stavo diventando vecchio. Godere la vita. Guadagnarsi il benessere, pensai. Pianificare il proprio futuro. Tutto era come un grosso pezzo di creta. Chi era fortunato aveva tutti gli attrezzi per modellarla , le spatole, i colori. E persino le istruzioni. Ma la mano di un artista, una mano onesta e sincera, avrebbe saputo modellare quella creta meglio di chiunque altro. Meglio di coloro che non rispecchiavano se stessi. Coloro che lasciavano quel pezzo di creta si modellasse da solo, lentamente, col tempo, giorno per giorno senza alcuna logica e senza progetti. Il telefono trillava ed io prendevo nota.


Prendevo nota per uno svogliato titolare per caso che alle otto e mezzo di mattino  lasciava tutti i suoi unici problemi in una cartella rossa sopra la scrivania e ciondolando andava al bar di fronte. Immaginavo e pensavo il mio futuro. Fra cinque, dieci anni . Magari in quello stesso giorno dell’anno. Ruggero mi aveva proposto di entrare nella società. Suo padre era d accordo perchè non si fidava del figlio e perchè aveva ormai settant’anni. Immaginavo un futuro degno di me, come io di lui. Dove il momento più bello della giornata era la sera, quando io e la mia donna ci saremmo seduti su un divano di pelle bianca. Guardandoci in faccia stanchi della giornata appena conclusa , grati e soddisfatti l’uno dell’altra, partecipi di una complicità indefinibile ma forte e indistruttibile nel tempo. La sincerità sarebbe stata la base di tutto. Sincerità con gli altri e con se stessi. Non avevo mai pensato che ciò che stavo facendo anche quella mattina, poteva avere riflesso nel mio futuro, come del resto ciò che facevo nel mio presente era il riflesso di scelte passate. Vedevo tutto ciò come una linea storta, che in parte si può piegare e in parte no. Vedevo la vita come una barca sballottata dalle onde. Onde alle quali solo in parte puoi tener testa. Mantenere la rotta non è facile. Già, al destino non ci si può ribellare. Ma ci si può creare attorno una buona corazza per farci trovare meno deboli. Una corazza di valori e di affetti che erano diventati molto importanti , in un mondo che mi circondava sempre più superficiale. Era tremendo. Pensavo al Roberto di dieci anni avanti che guardava me seduto in quel piccolo ufficio. Chissà se sto dando un senso alla mia esistenza. Chissà se sto facendo la cosa giusta . Chissà se il Roberto di trent’ anni è contento di me. Il me stesso medesimo che guardandosi indietro di dieci anni vede proprio me. Vorrei tanto sapere se da lui sto prendendo del coglione, oppure sto andando per la strada giusta. Il futuro, il futuro, cazzo. Era diventata un’ossessione, nessun pensiero era più importante per me. Ero circondato da gente più grande di me, io non facevo testo. Ero caduto in un grosso equivoco. Non c’erano parametri di confronto, ragazzi, io devo ancora fare tutto. Non potete sottintendere niente con me, niente. Mi trovo dove non devo essere. Ho saltato delle tappe importanti, troppo importanti. Almeno per gli altri lo sono state. Ecco, io ho ventitré anni. E molte cose da fare. Ho paura, ho dei dubbi. E voi non me li potete risolvere perchè non ve li ricordate. Siete sposati, avete divorziato, avete la ditta e tutto quel cazzo che vi pare, io non ho niente. La sera torno a casa e mia madre mi fa da mangiare, niente è intestato a me, neppure la Uno color oliva sbiadito. Tutto il mio io è scolpito nel futuro. E sarà scolpito in base a come mi sto muovendo adesso. Ogni cosa io sto facendo e dicendo. Nei momenti di lavoro, perchè il mio capo mi nota e mi offre un’opportunità (non badando che sia il Ruggero ), come nelle pause di riflessione, seduto riposando all’aperto davanti al tramonto, riflettendo, tirando fuori ciò che veramente sono. Quello che ho dentro e che voglio dire agli altri, senza paure, senza  far credere di essere inserito in un sistema ruffiano dove chi sta al gioco va avanti a testa alta e gli altri rotolano. Perchè io non volevo esserne inserito e non lo ero. Al contrario di altri che magari non lo sapevano neppure. Mancata presa di coscienza. Mancata mattina a prendere le telefonate. Ruggero era al ritorno con lo stomaco gonfio di Lemonsoda e tramezzini farciti di brutto. Riuscii a rispondere con lo sguardo ai suoi occhi aguzzi ed insofferenti, poi sorrisi e mi alzai dalla sua poltrona, che scricchiolando riprese la sua posizione originale.


“Tutto a posto”, dissi, “ho preso nota di tutto, niente di importante rispetto al solito”. A parte il mio futuro,  pensai, che da quel giorno mi pareva in bilico ad ogni passo facessi. Sentivo delle urla che mi venivano da dentro, un improvviso bisogno di chiarezza psicologica da parte del mio sistema nervoso che mi garantisse sugli sforzi che oggi sto facendo per diventare grande. Che vadano a buon fine. Che Roberto fra  dieci anni, pensandomi, accenni un malinconico e grato sorriso. Che possa essere fiero di me, nel futuro. Futuro.


Nel presente di stasera c’erano le prove col Giò, Marino, l’ubriaco e forse le vicine di casa di quest’ultimo che portavano le paste. I miei pensieri si sgonfiarono e diventarono a poco a poco insignificanti. Ora erano tutti sulle prove e  sulle vicine di casa del tastierista. Dovevo sfogarmi, e suonando ci riuscivo bene e divertendomi. Aprendo la porta antincendio che divide gli uffici dalla segheria – laboratorio, il rumore delle macchine diventava forte, la polvere fastidiosa e gli sguardi dei miei colleghi  erano strani e pieni di domande. Nella ditta vigeva un sottile senso di anarchia. Ruggero si dava un tono solo quando rispondeva per telefono al Maresciallo Catania. Il padre, in convalescenza ma ormai cosciente e senz’altro più sveglio di suo figlio, aveva già programmato il futuro della ditta. Trillo di campana, pausa pranzo. E la Uno color oliva sbiadito partì verso casa rullando la ghiaia con le gomme, nel parcheggio che da sulla provinciale del piccolo paese in provincia di Reggio Emilia.


Ennio quel giorno lasciò per un attimo l’ eremitaggio della sua casa in affitto per andare da una chiromante . Il futuro, secondo lui si poteva leggere. Non prevedere, ma almeno intuire. Il bello è che il ragazzo (per modo di dire) non pensava minimamente di sforzarsi  per cambiare il suo presente (di merda), ma affidava tutto alle magie occulte di loschi tragattini che operavano come maghi in scantinati con odori di muffa e aceto andato a male. Naturalmente, l’ingenuo Ennio, non si affidava almeno ai maghi che pubblicizzavano il loro operato sui giornali. Al contrario  chiedeva ad amici di amici se conoscevano cartomanti, sensitivi , ecc.. . Da qui, qualcuno, aguzzando le orecchie ed improvvisando una cantinetta con candele e teli colorati si improvvisava cartomante e medium. E il buon Ennio era servito. Il suo futuro, chiaramente, era rosa come un maialino. Anzi, come una scrofa, visto che ad organizzare la truffa era stata Cristina, la sua amante e padrona di casa, che giorno dopo giorno gli succhiava soldi senza che quel povero ebete se ne accorgesse. Ennio era troppo debole per riuscire a prendere le redini della sua vita e svoltare di scatto dalla brutta strada che aveva preso la sua esistenza. Era un perdente, aveva bisogno di una compagna a fianco più forte di lui. E per lui era importante sentirsi dire da qualcuno che per il suo futuro non doveva fare niente, che aveva gli astri a suo favore e che senza batter ciglio da parte sua le cose si aggiusteranno come voleva lui. Comodo. E questo Cristina lo sapeva ed aveva preparato con due suoi amici la truffa del medium. Ennio era contento perchè aveva sentito ciò che voleva sentire e la sua furba amante aveva arrotondato la sua unica fonte di guadagno, ossia l’affitto che pagava lui e le girava la zia.


Ennio quella sera era nel salotto. Sfogliando un album di vecchie foto, aspettava Cristina. Dal cielo, un rimbombo annunciava  pioggia al più presto. Erano foto in bianco e nero, alcune della guerra. Erano foto dei suoi genitori, famiglia solida e tuttavia ancora disposta ad aiutare il figliolo nonostante le sue stronzate. Ennio non aveva amici. Solo il Giò che era stato il suo vicino di casa. Ed io che lo conoscevo di rimbalzo. Pioveva. Ennio doveva mettere degli stracci alle finestre, che erano di legno marcio e con lo stucco secco parzialmente sgretolato.


Un tuono rimbombò e fece vibrare i vetri e le padelle messe nello scolapiatti nell’ appartamento del Giovanni. Lui rimase indifferente con la cuffia in testa ascoltando musica, steso  sul divano, mangiando la cena comprata nella rosticceria cinese e appoggiata sul tavolino stracolmo di giornali e riviste. Il sacco del pattume era appeso alla maniglia della porta. Alle pareti, sulle mensole nere, cassette, libri e oggetti vari, parlavano di lui. Erano lo specchio della sua vita.   


La casa di Carlo, con i nuovi mobili “ Tozzi Arredamenti” era finalmente finita, ed erano finite anche le discussioni fra lui e sua moglie, dopo che il medico gli aveva detto che i neonati sin dal quinto mese di gravidanza, percepiscono ciò che succede nell’ambiente esterno. Ora i due se ne stavano tranquilli a casa, giocando al gioco dell’ oca con la figlia a spolverare e lustrare i nuovi mobili montati da una settimana.


In ditta, l’allarme si mise a suonare da solo;  e un improvvisato Indiana Jones – Ruggero si arrampicò su una montagna di telai per divani (con danni irreparabili) per raggiungere la centralina. Il tutto sotto gli occhi attenti, preoccupati, stanchi della madre che era uscita di casa ed era corsa verso il magazzino con una borsa di plastica in testa.


Giovanni era immerso nel suo sport preferito (catalogare francobolli)  e quando mancò la corrente non ebbe problemi continuando alla luce di una candela.


Ennio sfogliava l’album e aspettava Cristina.


Carlo tirava i dadi.


Ruggero salendo sui telai si strappò la camicia. Pioveva. (Era Aprile )


Giovanni aspettava me.  (Le prove).


E quella sera di fine Aprile fu solo il temporale ad accomunare  queste quattro persone di trent’ anni, con vite completamente diverse, e comunque da esse tutti e quattro assorbiti, mentre io cercavo un ombrello in cantina per uscire dal portone del palazzo e raggiungere il parcheggio. Quattro case, quattro famiglie, quattro modi di vivere, di essere. Quattro modi di essere felici. O di cercare la felicità. Chissà a chi avrebbe assomigliato l’io trentenne che ora saluta la mamma per andare a suonare e zompa come un folletto fra le pozzanghere sotto la pioggia battente per raggiungere la Uno color oliva sbiadito. Di nuovo un tuono, mentre Giovanni aspetta e la candela brucia, Carlo accarezza sua figlia, Ruggero si cambia la camicia e si lava le ascelle, Ennio sta aspettando ormai da due ore in quella casa sperduta e decide di telefonare alla sua ex moglie. Piange. La moglie ride. Poi riflette, e capisce di essere per lui, pover’ uomo, l’unico punto fermo che abbia mai avuto in vita sua. I fari della mia macchina riflettono sulle grosse gocce che cadono a cascata sull’asfalto che ormai è un lago. La pioggia tamburella prepotentemente sui vetri e il tergicristallo a fatica spazza via l’ acqua dal vetro. Giovanni prontamente uscì di casa. Ci dirigemmo verso la sala prove affittata da Marino con la voglia di stare a casa , ma col terrore del rimpianto di una serata persa. Con questo spirito, io e il Giò andammo convinti con l’ intento di far musica. E la Uno color oliva sbiadito procedette con cautela sull’ asfalto della circonvallazione reso viscido e scivoloso dalla pioggia.


 

2 Commenti a “CONSIDERAZIONI SUL FUTURO”

  1. fabio dice:

    Molto belle le quattro storie che verso la fine convergono… sei riuscito benissimo a descrivere gli eventi che accadono contemporaneamente. ^_^

  2. nihil dice:

    storie come tante, ma sono le nostre vite, descritte nei loro intrecci predestinati. N.

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