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LA CRISI

Pubblicato da rossanocrotti il 3 settembre 2007

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LA  CRISI


 


Era ormai maggio inoltrato, e sui viali di periferia cominciavano a spuntare i chioschetti prefabbricati dove alla sera venivano tagliati grossi cocomeri. Scesi le scale dell’ ospedale fra la gente che sbuffava chi per la fretta, chi per il caldo. Ero consapevole che la mia uno color oliva sbiadito parcheggiata al sole sarebbe stata di una temperatura cocente. Quella mattina avevo chiesto al Gero un permesso per assentarmi un paio d’ore. Il mio posto lo avrebbe preso il cugino Ivan, con danni irreversibili all’immagine della ditta. All’ospedale, nel reparto neurologia era stato ricoverato la notte prima il Giovanni. La sorpresa, per me, era stata tanta, quando lo stesso Giò mi telefonò quella mattina mentre stavo facendo colazione. Motivo del ricovero: crisi epilettica nel sonno, denominata nel suo specifico caso “episodio accessuale morfeico”,  scoperto grazie alla vicina di casa (la portinaia) che sentendo dei lamenti,  entrò con la doppia chiave e  trovò il nostro amico che si dimenava sbavando sul divano.


Ore mezzanotte e venti.


Così quella mattina salii spaesato al quinto piano dell’ospedale maggiore e trovai un Giovanni  sconsolato e preoccupato come se avesse fatto del male a qualcuno. La crisi, col seguito di una perdita di coscienza, era durata una decina di minuti. La vicina chiamò subito l’ambulanza e il Giò si risvegliò su una lettiga, nell’androne del pronto soccorso con tre infermieri che lo guardavano in faccia e gli chiedevano  “come stai, mi senti?…”. Quegli attimi furono i più lunghi e i più strani della sua vita, e fino all’ultimo tutto sembrava uno stupido sogno. Già, dissi io,  “come la vita”….non sapendo di aver detto una grande cosa. Un sogno, pensai. Se quello fosse realmente stato un sogno, Giovanni non sarebbe stato lì, ed io nemmeno. Se la vicina non avesse sentito niente, nessuno si sarebbe reso conto di niente, nemmeno lui. La realtà, dipende da piccoli particolari, da piccole sfumature. E tanto piccola è la linea che divide i sogni da essa.


Questo mi veniva da pensare mentre aspettavo che finisse la visita di entrata, seduto nell’ androne assieme a quattro persone di cui due in pigiama. A spezzare il silenzio solo il campanellino dell’ascensore. Presi un caffé dalla macchina automatica mentre nel corridoio continuava il viavai di infermieri. Appena vidi il Giò mi diede l’impressione di uno straccio strizzato con forza da una corpulenta massaia, ma il suo umore non era cattivo. Gli portai “La settimana enigmistica” e rimasi una buona mezz’ora . Fino all’arrivo del primario, il Dottor Prof . Santropè.


Arrivò circondato da un seguito di dottori, procedendo con passo  fermo e deciso, con una vistosa cravatta sotto il camice bianchissimo. Il luminare aveva un’età indefinita, tale comunque per dargli un’aria di autorevolezza e farlo apparire sotto una luce quasi divina per chiunque si rivolgesse lui. Giovanni era steso sul letto dentro uno striminzito pigiama, mentre dalla finestra che dava sull’entrata la vita e il traffico scorreva normalmente ignorando tutto quello che succedeva in quell’ambiente ovattato. A quindici chilometri di distanza Ruggero aveva fame. Salì in macchina e col cellulare telefonò alla pizzeria al taglio. Telefonava per farsi scaldare un panzerotto. Non voleva aspettare. Entrò nel piccolo locale con gli occhiali da sole poggiati sulla fronte e con la mano fece il segno del telefono (per far capire che aveva chiamato lui) . Prontamente venne servito (e compatito) senza parlare. E uscì col ticchettio delle sue scarpette di corame. Il dottor Santropè aveva visitato Giovanni e lo aveva tranquillizzato sull’entità del fatto, asserendo che il suo era stato un’episodio dovuto a stress, ipertensione, sovraccarico di lavoro, ecc. ecc.., cosa di cui chi ne soffre non se ne rende conto. “ Il male oscuro del duemila”.., sentenziò con voce cavernosa l’austero primario, che nel suo camice lindo e fresco di bucato, si congedò con Giovanni dandogli una pacca sulla spalla e apostrofandogli un “sù con la vita, ragazzo!”. Commiato usato con tutte le persone di qualsiasi ceto sociale che avessero meno di quarant’anni. Era il primario di neurologia, e col cervello non si scherza. Il mio amico nei tre giorni di osservazione in ospedale ebbe modo di pensare e riflettere. E di sognare. Mi raccontò che prima di addormentarsi pensava ancora a quei rumori. Non li sentiva, ma li pensava come qualcosa di forte e già esistito. Erano i rumori di un pic-nic sull’erba,  le risate di bambini, il rumore della chiusura dei thermos e dei frigo portatili, le lattine …. e in sottofondo un fiume scorreva e il suo lieve rumore univa quest’atmosfera di leggera spensieratezza. La madre del Giò, che era appena arrivata in ospedale da Rimini  dove abita, mi confidò che a tre anni il suo bimbo durante un pic-nic, cadde e batté la testa. Rimase dodici ore in coma. Da allora  Giovanni, quando non sogna il pic nic, sente nettamente quei rumori. Da sveglio, in mezzo alla gente, mentre sta parlando. E la sua mente si isola, riaffiora solo quel ricordo. Forse la  lotta inconscia contro la morte in quelle maledette dodici ore. Qualcosa dentro di lui che è ancora consapevole di aver passato quel pericolo, e nei suoi più profondi pensieri rimane bene impresso.


“La vita è una ruota che gira, speriamo che il Signore ci dia la salute, non ci sono più le mezze stagioni , si stava meglio quando si stava peggio”, queste e un’altra sequela di luoghi comuni sparati a raffica dalla vicina di casa, tennero inchiodato il Giò per più di mezz’ora e lo portarono sull’orlo di una nuova crisi.


A parte questi inconvenienti da ospedale e cinque scatole di biscotti assortiti confezione regalo che non verranno mai mangiate, Giovanni uscì bene da quell’improvviso ed insolito episodio che agì come un freno a mano nella sua frenetica vita senza senso. Osservò come era triste avere a che fare con centinaia di persone durante il giorno e la sera ritrovarsi solo ad ascoltare in segreteria telefonica l’unico messaggio lasciato dalla madre. Giò voleva dare una svolta alla sua vita, voleva ribaltare le parti e spendere le sue buone energie per se stesso, per la sua vita privata, non per gente che ti considera perchè occupi quel posto di lavoro e appena sparisci non sa più chi sei. Giò era solo. Una solitudine radicata e scelta la sua, da quando la sua ragazza morì nell’incidente. E dopo quella sera maledetta fra le sirene dell’ambulanza e i lampeggianti dei carabinieri di cui  si è voluto dimenticare, per lui il suo amico diventò il divano. Da questo momento decise di aprirsi, cercò di riflettere e di trarre insegnamento da quella crisi  che aveva spezzato la sua anonima e piatta vita di agente di commercio. Fortuna e impegno nella vita vanno di pari passo, la sua vicina non aveva poi tutti i torti, quindi il nostro amico pensò bene di impegnarsi affinché la fortuna girasse dalla parte sua. Ottimismo. Il momento buio era finito. Giovanni voleva cambiare, e ci avrebbe messo l’anima .


Il padre di Ruggero, quella mattina, doveva rientrare in ospedale per dei controlli. Fu il figlio stesso ad accompagnarlo e arrivando, dopo aver parcheggiato il Mercedes CE nel posto per gli handicappati, salirono al piano con l’ascensore che prese anche Ennio che andava a trovare Giovanni. Era ancora vestito a festa con la cravatta e le maniche arrotolate, la camicia bianca inzuppata di sudore e il giornale degli annunci sotto al braccio. Da due giorni le giornate erano diventata afose e la temperatura superava nelle ore più calde i trenta gradi.


Ennio aveva fatto un paio di colloqui di lavoro e lasciato il suo nominativo a direttori del  personale che mentre parlavano con lui camminavano e salutavano altre persone.


Giò domani sarebbe tornato a casa, io andai a comprare le paste  per fargli una sorpresa. Ruggero prendeva del cretino da suo padre che gli diceva era un buono a nulla (aveva tutta la mia stima) e lo incolpava di averlo messo nei guai con la finanza (il Maresciallo Catania) nonché di farsi furbo e trovare qualcuno che investisse capitali freschi e si caricasse di un po’ di responsabilità (…..chi?…..).


Dopo l’ennesimo giramento di testa, Carlo accompagnò in ospedale sua moglie per una visita di controllo. I due aspettando l’ascensore videro uscire dall’androne un signore anziano accompagnato da un giovane grosso con la giacca e i capelli unti. Gli sembrava di averlo già visto. Le porte dell’ascensore si aprirono e uscì un ragazzo con gli occhiali tutto sudato. I nostri quattro amici, a loro insaputa, stavano iniziando ad avere qualcosa in comune. E in quella giornata afosa e senza apparente importanza, per ciascuno di loro  iniziava una svolta nella propria vita. Il medico visitò e tranquillizzò Carmela. Avranno un’altra bambina. Fantastico. Sarà alla fine dell’estate. Ruggero litigò seriamente col padre che stava per ritornare presente nella sua vita, Ennio spostava sempre più di frequente i suoi pensieri sulla ex moglie e si vergognava addirittura di essere stato con Cristina (e dei soldi che per lei aveva buttato via).


Il Mecedes CE arrivò e girò dietro la ditta, fermandosi davanti all’entrata dell’abitazione. Gero e suo padre non potevano durare a lungo insieme. Il vecchio Tozzi ce la metteva tutta per aiutare il figlio che ormai era in uno stato confusionale totale e non sapeva più cosa fare. Si sentiva un fallito, sapeva di avere avuto tutte le possibilità e di non essere  stato capace di sfruttarle. Ma forse non le voleva nemmeno, perchè a sedici anni si sentiva già figlio di papà, e mai avrebbe lavorato col padre, mai avrebbe accettato tutti questi vantaggi che gli offriva la sua famiglia benestante. A sedici anni Ruggero già con la moto nuova e se non studiava era lo stesso, perchè il lavoro e i soldi per il suo domani  c’erano già. Come si sentiva diverso dai suoi amici, quasi in colpa, con tutto dovuto e niente da guadagnarsi. Il lavoro, Ruggero, non l’avrebbe mai conosciuto. Gli faceva comodo, ma gli dava fastidio. Cosa fare? Le chances paterne gli pesavano parecchio, ed  erano alleggerite soltanto dalla voglia di non fare un cazzo che nel nostro amico è ufficialmente riconosciuta. Ruggero per tutta la vita, come un coccodrillo, prima approfitta della situazione, poi se ne pente e per orgoglio vorrebbe tornare indietro e rifare tutto da solo. Da prendere a sberle. L’animata discussione dei signori Tozzi era udibile sino alla mostra interna del mobilificio e certo, per i clienti che si trovavano lì, non era un bel sentire. Quando uscii, Ruggero era in pantaloncini nel grosso cassone dei rifiuti alla ricerca di un orologio buttato via per sbaglio.


Giovanni era per due settimane a casa in malattia, che passò prevalentemente sul divano guardandosi videocassette di fantascienza. Lo vidi cambiato, almeno un po’ e in meglio. Mi disse che aveva l’impressione di non avere più padronanza nella sua vita, era come se qualcuno gli avesse rubato il tempo, come se gli anni lo avessero trapassato duri e veloci come pallottole. E lui non aveva potuto farci niente. A volte il Giò era strano, ma lo capivo. Era convinto di quello che diceva e aveva una bella cera. La sera prima si era fatto una frittata con la cipolla. Stava pensando di cambiare lavoro. Magari tornarsene a Rimini. E fanculo la vita indipendente, fanculo tutto. (Me ne sarebbe dispiaciuto). Parlava calmo, calmo e sereno come non mai, complice la carbamazepina in pillole (il medicinale che prendeva tre volte al giorno). “O adesso o mai più”, disse. In futuro non avrebbe più avuto tempo per ripensamenti, pensava preoccupato. Preoccupato in quei trentun’anni arrivati a tradimento e segnati nel calendario della sua vita come età di bilancio. Età di arrivo della giovinezza. Poteva sfruttare questo periodo di riposo per crearsi un’opportunità e cucirsi addosso, nel limite del possibile, una vita adatta a lui. E cercarsi una ragazza. Avrebbe smesso col suo ruolo da lupo solitario in cui si crogiolava fra videocassette di fantascienza, il divano, la frittata della sera prima riscaldata e nessun messaggio in segreteria. Troppo distratto dal lavoro, troppo stanco, troppo stress, troppo stupido Giovanni. Cambiare, adesso o mai. Andammo a berci una birra e parlammo di tutt’altro per non appesantire la serata .


Carlo e Carmela andavano a prendere il gelato respirando quell’aria fresca che hanno le serate d’estate dopo che l’afa del giorno si era diradata. I due sorridevano e sprizzavano felicità visibile da chilometri di distanza , mentre dai balconcini dei condomini si vedevano pensionati in canottiera con sopra le bretelle che guardavano la televisione a volume altissimo. Atmosfere d’estate in un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia. E dalle finestre aperte esce l’odore della cena leggera e dei dopobarba all’eucalipto. Su una panchina davanti alla gelateria, una grossa signora vestita a festa si fa vento con un giornale. Scooter e motorini le schizzano davanti con sopra ragazzini che urlano e si mandano a cagare  (la poesia del momento finisce qui).


Ennio e la  ex moglie si rividero per la prima volta dalla separazione. Lei confessò che non aveva avuto nessun amante straniero ma voleva semplicemente allontanarsi per un po’ da un marito che riteneva idiota allo scopo di farlo crescere  (ci sarà riuscita?).


Tutti  avevano un passo lento e ritmato in quella sera d’estate, con  un leggero vento caldo sottile e piacevole. E persino la mia Uno color oliva sbiadito sembrava più bella.


 

Un commento a “LA CRISI”

  1. marilety dice:

    mi ci rispecchio tantissimo è un bel racconto

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