L’INCONTRO
Pubblicato da rossanocrotti il 17 settembre 2007
L’INCONTRO
Due settimane dopo, in una tranquilla mattina a giugno, la mitica non partì e necessitando della visita dal meccanico per una settimana usai il furgone da vergogna della ditta. Di nuovo aveva soltanto le scritte, “ TOZZI ARREDAMENTI” , appiccicate sulle fiancate e grandi come le scritte dell’Alitalia sugli aerei. All’interno odore di muffa e polvere. Era comunque un mezzo e a caval donato non si guarda in bocca. Quella mattina il Gero in ditta non si vide, trovai un biglietto al mio posto di lavoro scritto da lui dove mi diceva di uscire per una consegna piccola e urgente, quindi, da solo. Già dall’inizio, era una mattina particolare.
Le nuvole in cielo sembravano grossi pezzi di cotone ma il sole già forte a quell’ora dava per certo una bella giornata. Il vecchio furgone si mise in moto esitante ed io guardai la destinazione sulla bolla. Bologna, centro. Presi l’autostrada. Mi sembrava di guidare un velivolo della seconda guerra mondiale e spensi la radio, primo perchè il rumore del motore era insopportabile, secondo per star più attento ai pezzi che si potevano staccare. Sessantacinque km/h. Più di un’ora di viaggio.
Il centro di Bologna aveva il suo fascino, era anche quella mattina il cuore della piccola grande metropoli emiliana, tanto simile ma tanto esasperata rispetto al mio piccolo paese in provincia di Reggio Emilia.
Arrivai all’indirizzo della consegna e mi aprì la porta una ragazza. Aveva i capelli neri, lunghi e mossi, gli occhi scuri e vestiva una camicia lunga e bianca che le arrivava sino alle ginocchia. Il suo sorriso era radioso e le gote dolcemente andavano ad alzarsi sostenute dalle labbra carnose ma aggraziate che si aprivano su una marea di denti bianchissimi e ordinati. La sua mano (attaccata al corpo da un polso asciutto e assai affascinante) era ancora appoggiata alla porta e la pelle ambrata dei polpacci risaltava sul parquet chiaro, terminando nei calzini bianchi e corti alla caviglia dove lei teneva i piedi. Dio esiste. E quando vuole, le cose fatte bene vengono fuori. Lei mi guardava, e la sua espressione stupita ma, cordiale ma, sicura ma, forte ed innocente, ebbe su di me un effetto ipnotico e non riuscii a comunicare normalmente se non con un sorriso affannato accompagnato da una cospicua sudorazione. (E le gocce di sudore sul parquet lucido fanno veramente schifo).
Non so quanto tempo sia passato, ma quegli istanti me li sarei ricordati per parecchio tempo. La stessa luce che emanava quella ragazza era particolare, o forse era solamente la finestra dietro di lei che era rivolta ad est.
“Tozzi, sono ….avrei lo sportello..i mobili da Reggio Emilia…..” dissi io (per fortuna mi aspettava) e appena girò lo sguardo mi asciugai con un fazzoletto la fronte madida di sudore. Mi fece accomodare sul divano e si mise un cerchietto raggruppando i capelli all’indietro lasciando libero soltanto un ciuffettino sulla fronte. Avevo sicuramente una faccia da pirla. Lei era andata a telefonare a sua madre. Mi guardai allo specchio, stavo sorridendo. Guardo la sala. Famiglia benestante. Cattolica. Medio borghese. Medio alto, forse. Sul tavolino di cristallo ci sono le chiavi di una macchina e dei portaritratti con lei che fa la comunione, la madre (bella donna), il padre vestito da sciatore e il gatto. Tutto a posto. Gentilmente mi offre il caffé. Spengo il cellulare.
Non sto assolutamente pensando di saltarle addosso, ho paura di essermi innamorato. Vorrei fermare il tempo, vorrei che ciò che sto vivendo diventi per me una cosa normale, ho paura che fra cinque minuti, come sicuramente sarà, tutto finisca. E saremo a sessanta chilometri di distanza, percorrendo strade e vite diverse. Il tempo di un caffé. Per cinque minuti in questo angolo di mondo ci siamo conosciuti.
La ragazza tornò ed era veramente carina, io cercai di essere il più naturale e interessante possibile nonostante il mio impaccio .
E’ lei a togliermi da ogni imbarazzo, parlandomi di lei, della scuola, la famiglia, le amiche, i Nirvana, Bologna di sera ….quest’estate … (dove sarai…) e io vado un attimo in bagno approfittando per mettermi a posto anche i peli del naso .
Il furgone da vergogna è ancora davanti al portone, con le quattro frecce, il cassone aperto e due multe sul parabrezza. Sarebbe bello rivederci, giusto per quel concerto….. ti compro i biglietti. Il mondo fuori non esiste più, ci sei solo tu. Siamo tutti e due sul divano, fianco a fianco a prendere il caffé. Mentre allunga il braccio per prendere lo zucchero, la sua ascella passa a pochi centimetri dalla mia faccia. Posso nettamente distinguere l’odore della sua pelle. E scorgere alcuni piccoli peli.
Ma come ti chiami….Valeriana. ( Roberto e Valeriana, pensai … suona bene).
“Giovanotto, ma lo sa che i suoi tecnici hanno sbagliato tutto……”. Così esordì la madre (più vecchia di dieci anni dalla foto), entrando dalla porta d’ingresso dietro di me e facendomi letteralmente schizzare sull’attenti.
La coccolai come nessun ruffiano al mondo poteva fare di meglio, smontandogli e rimontandogli quel cazzo di sportello e prendendogli tutte le misure che voleva.
Ore mezzogiorno e quaranta. Ruggero mi avrebbe urlato in faccia per un mese. La signora divenne affabile. Mi invitarono a pranzo, desistetti per gentilezza, poi accettai.
Scesi in fretta le scale, parcheggiai il furgone e diedi quattro martellate alla marmitta che cadde per terra sbriciolandosi. Accesi il cellulare e spiegai il problema al Gero che sentii inaspettatamente calmo tanto da sembrare imbambolato. Il meccanico più vicino apriva alle due e mezzo, col tempo per la riparazione sarei rientrato nel tardo pomeriggio. Il Gero assentì ed io avevo l’alibi per quell’inaspettato contrattempo .
Mangiai con Valeriana e sua madre nel modo più composto della mia vita, controllando ogni possibile rumore che potesse per disgrazia fuoriuscire da qualsiasi parte del mio. Ero impacciato come non mai. Mangiai le verdurine al forno con i pomodorini e sopra la besciamella ad una temperatura ustionante senza emettere il minimo lamento. E col mio bel sorriso di plastica stampato in faccia. Ogni tanto, per una frazione di secondo, buttavo l’occhio su di lei, a fianco a me, mentre stavo attento a tutte le stronzate che mi raccontava la madre. Era bellissima. Era l’insieme di tutti gli aggettivi che esprimessero positività esistenti a questo mondo ed io mentalmente cercavo frasi adatte per il commiato che sottintendessero anche un imminente arrivederci. Lei scherzava con lo sguardo e con gli occhi mi parlava, mi seduceva. Non era complice di nessuno ed io desideravo solo il suo bene, quella bontà che traspariva dai suoi occhi (e dalla sua camicetta appena slacciata). Quei due occhioni grandi e marroni che così belli non gli avevo mai visti.
Alla fine del pranzo mi ero conquistato anche la simpatia della madre (mi sembrava di sognare) e per questo ci lasciò soli sul terrazzo a prendere il caffé .
“Ci rivediamo….quando vuoi ti vengo a trovare…( anche perchè mi ero lavorato ben bene la mamma che mi aveva promesso l’ordine di quattro sedie e una scarpiera). Quest’anno aveva la maturità e quindi visti gli esami imminenti per due o tre settimane non poteva fare programmi. Il dopo, tutto da decidere. Anche perchè su “quelle sciocchine delle mie amiche” , non ci faceva affidamento. (Punto a mio favore).
Anche se mi sembrava prematuro programmare le vacanze con una ragazza conosciuta la mattina stessa, nulla mi vietava di sognare, perdendomi nei suoi sguardi e fantasticare su un futuro insieme. Era tardi ormai ed era giunta l’ora che io prendessi la porta. La madre mi salutò dalla cucina, in pantofole e con i guanti per lavare i piatti, promettendomi di chiamare per il prossimo ordine. Ed io ero sulla porta, come la mattina stessa , con la luce che entrava dalla parte opposta e la sua mano dolcemente appoggiata alla maniglia, mentre i nostri occhi erano dritti gli uni dentro gli altri. Mi veniva da piangere. Lei aveva la stessa espressione della mattina. Ci promettemmo di risentirci. Scesi le scale scoppiando di una gioia mai provata prima, alzai gli occhi al cielo ed ero convinto di essere uscito con qualcosa in più da quel palazzo (a parte quello che avevo mangiato), qualcosa di cui non avevo ben definito l’entità, ma ero sicuro che prima mi mancava ed ora non volevo più perderla. Era Valeriana. Una timida ragazzetta bolognese con una larga camicia bianca e due occhi grandi e scuri.
19 settembre 2007 alle 8:00 am
Niente male come incontro! a questo punto voglio proprio sapere come continua. Sono curioso di sapere se si incontreranno ancora.