IL DANNO
Pubblicato da rossanocrotti il 11 marzo 2008
Il ritorno da quella vacanza mi diede una sensazione liberatoria. Mi ero liberato dei due personaggi più inutili che abbia mai incontrato (Fabiano e Piermaria). Il Giò e il Marino erano a casa e contavano di starci per un paio di settimane nel completo relax nel riacquisto di tutti i comfort che un uomo civilizzato deve avere per un’esistenza decorosa (sintomi “ritorno da vacanza in campeggio”). La desolazione delle strade vuote mi rattristava ed il piccolo paese con le serrande dei negozi abbassate causa il periodo ancora vacanziero sembrava morto. Le colline verdi erano al loro posto, finalmente dopo quindici giorni di tenda avrei dormito in un letto e la Uno color oliva sbiadito aveva la batteria scarica. Telefonai a Valeriana. Il suo tono mi fece cambiare presto di umore. ” E’ meglio che vieni qui da me, ti devo parlare di una cosa importante”. Io, che da ragazzo timido e assai emotivo non sopportavo le cose lasciate a metà, pregai che la ragazza non intendesse per caso troncare il nostro rapporto per stronzate del tipo : “meglio che non ci vediamo per un po’ per capire se veramente abbiamo bisogno l’uno dell’altra “, oppure, ” e’ successo tutto così in fretta, sono confusa”, o ancora:”lasciamoci adesso che siamo felici così avremo dei bei ricordi” (?). Perchè ci dovevamo lasciare, pensai. Il motivo sarà un altro. Magari la madre aveva bisogno di qualcuno per ridipingere casa, o il padre mi voleva conoscere (non c’era mai stata l’occasione). Ma Valeriana aveva un tono strano. Rassegnato, stanco, preoccupato. Mi voleva fare partecipe di un problema. Forse il problema riguardava anche me. La Uno color verde oliva sbiadito partita coi cavi e con l’auto del vicino di casa era solo all’altezza di Modena Nord. Sfrecciava vincente in terza corsia al limite del grippaggio nonostante i quasi duecentomila chilometri. I miei occhi vedevano la linea dell’orizzonte alla quale si sovrapponevano tutti i miei pensieri. Pensieri di ricordi belli, paura e desiderio che questi possano o meno ripetersi. Valeriana mi voleva parlare. Avevo paura. Forse doveva andare via di nuovo coi suoi. Ma non me lo avrebbe detto in quel modo, ormai la conoscevo. Di sicuro riguardava noi due e se eliminiamo le cazzate che usano le donne per troncare un rapporto (vedi sopra), io non ricordo di aver fatto danni. Oddio …veramente.. non ricordo.., da sua zia, quella notte… nella fretta ……?..Bologna Borgo Panigale, Autogrill. Un caffè. Avevo la gola secca ma non riuscivo nemmeno a mandar giù un bicchiere d’acqua. Volevo solo nervosamente fumare. E la Uno ripartì (per fortuna) verso gli ultimi venti minuti di viaggio. Arrivai da lei. Sua madre non c’era. Il suo sorriso era di circostanza, (fa che non sia quello che temo). Mi lasciò un attimo solo. (E se anche fosse? Ho paura per me o per lei ?). Una cosa era sicura, ero sicuro di amarla. E qualsiasi passo avrebbe deciso di compiere, io volevo essere con lei. Avrei deciso con lei.Tornò. Si raccolse i capelli con una molletta, si sedette accanto a me sul divano di pelle bianca. Il padre ci guardava dalla fotografia dove vestiva una tuta da sci. La madre sarebbe tornata di lì a poco con la spesa. Mi accarezzò il viso dopo qualche attimo di silenzio impacciato. “Ho fatto il test di gravidanza”, disse .La piccola appena nata piangeva e strillava. Si calmava solo quando l’infermiera le dava la pappetta.Era una bella bambina ed il parto non fu difficile, almeno non così difficile da come si preannunciava. Rimasi dieci minuti a guardarla mentre nella culla faceva smorfie e agitava le braccine. Potevo capire lo stato d’animo di chi diventava padre. Quella sensazione mi sfiorava, compresi che tutto il resto del mondo attorno poteva sparire senza lasciare traccia che non sarebbe poi stato tanto grave. Il mondo poteva essere racchiuso negli occhi di quella piccola. Forse per questo Valeriana mi portò all’ospedale di Reggio Emilia dove un suo parente mio concittadino a me sconosciuto aveva avuto la seconda figlia.Mi presentò Carlo e Carmela, lui di Reggio, lei di Napoli come la madre di Valeriana. Mancavano due giorni alla riapertura della ditta e Ruggero stava allegramente bevendo vino bianco in compagnia di Cristina, la bottiglia scivolò sul tavolo facendo cadere il ritratto del padre quarant’anni prima fotografato davanti al suo garage dove iniziò il mestiere di falegname. Il vetro del ritratto si ruppe e il vino bagnò la foto. Pochi minuti dopo, all’ ospedale Maggiore di Reggio Emilia, il padre di Ruggero morì. Mentre il figlio spalmava di Nutella il collo di Cristina nella cucina della casa che proprio il padre aveva costruito assieme alla ditta. La madre, al capezzale, vide morire il marito. Il testa di cazzo del figlio, rimpianse tutta la vita di non essere arrivato in tempo. Quel giorno, io ero nello stesso ospedale, ma appresi del decesso solo qualche giorno dopo. Al momento i miei pensieri erano tutti convogliati in una direzione. Cosa fare della mia vita. Quando diventare grande, quando capire se la direzione è giusta, quando assumermi le mie responsabilità, queste famose responsabilità di cui sentivo parlare fin da piccolo. Mi davano l’idea di cose grosse, doveri a cui adempiere contro la volontà. Ma capii che in realtà queste non esistevano, esisteva solo il normale corso della vita, la consapevolezza di far parte della grande macchina dell’umanità e di crearmi una famiglia. Ed era quello che volevo, non era un sacrificio, era un desiderio diventato forte ed essenziale. Valeriana era incinta. Ci saremmo sposati a settembre. I giorni che passarono li passai con lei stando zitti guardandoci negli occhi e sfiorandoci con le mani. La lettera di dimissioni arrivò sulla scrivania di Ruggero, che la aprì appena tornato dai funerali del padre accompagnato da Cristina.
12 marzo 2008 alle 10:09 am
Bellissimo questo racconto! Hai proprio ragione quando dici che le responsabilità altro non sono che parte del corso normale della vita e ne costituiscono e ne arricchiscono il senso…. E’ davvero una bella consapevolezza!