MORBO
Pubblicato da suddenhush il 23 giugno 2008
MORBO
Il cielo fumava di rosso. I palazzi erano fatiscenze nere, corvi schiantati sullo specchio della città. Le ballerine marcivano sui muri di pietra, mentre la pioggia lapidava i loro sorrisi, facendone colla. Chiuso nel mio paletot, vagabondavo per i vicoli, tenendo le mani nelle tasche, e sfilandole di tanto in tanto per lanciare tozzi di pane ai gatti randagi. Uno di loro, grato o ruffiano, mi si strusciò sulla gamba; affondai le unghie nel suo pelo lercio, poi, disgustato, lo allontanai da me a pedate.Il gelo straordinario di quel primo dicembre aveva murato in casa le famiglie, e sentivo che i padri, al sicuro dietro una finestra, mi indicavano ai propri figli come un pazzo, a cui non importasse di finire assiderato. E, in fondo, quell’idea non mi turbava. Da troppo tempo avevo smarrito la curiosità verso i soli e le lune.Contro ogni suggerimento del buon senso, rallentai il passo, mentre il freddo affilava contro le mie ossa le sue katane. D’un tratto, qualcuno afferrò il mio braccio, attirandomi dietro un portone. Allora non vidi che nero, e prima ancora che potessi aprir bocca, mi ritrovai le mani aperte su due seni scarni, velati di una stoffa zuppa e ghiacciata. Un lamento sordo, impastato con l’affanno, guidò il mio tocco, finché non avvertii, sotto i polpastrelli, una pelle del tutto simile a cedro candito, al tatto e all’odore. Mi si schiuse dentro un oceano in tumulto, che si rovesciò su quel corpo ignoto e gelido, rientrando in me nelle forme del fuoco. La incollai al mio torace, stringendo più forte che potevo il braccio intorno alla sua schiena scheletrica di volatile. Lei mi graffiava, mi baciava il mento e la bocca, mentre i suoi capelli intricati e lunghissimi sgocciolavano acqua. Le mie dita ne conobbero presto la completa nudità, e, nel buio, ne lessero tutti i caratteri agri e teneri.Come un fiume, cercavo un passaggio tra i rami sottili delle sue gambe, senza che m’importasse di sapere a chi appartenesse quella terra, perché era proprio essa ad implorare la violazione. La pioggia che avevo ancora addosso, l’odore di umidità e polvere, i passi sopra le nostre teste… tutto era perfetto, nella sua assurdità, la potenza dei sensi triplicata. Non capire mi accendeva il sangue. Mi ero abituato alle sue iniziative scabrose, perciò mi sorpresi non poco quando mi caddero, tra l’orecchio e il collo, le note di un pianto dimesso. La scarsa ortodossia del nostro incontro non era stata una mia scelta, ma la debolezza di lei mi colpì profondamente, tanto che cercai di mitigare quella brutalità nella dolcezza della lingua e nel brivido dei sussurri. La ragazza rispose scollando la mia mano dai suoi fianchi appena accennati e guidandola sull’interno coscia. Un rivolo denso e appiccicoso. La verginità si era staccata dal suo corpo come l’ala di un insetto morto. - Voglio guardarvi… Voglio sapere chi siete…- No, sono orribile.Profonda come le viscere della terra. Sessuale. Era esattamente questa la voce che immaginavo avesse.- Non vi credo. Mostratemi almeno i vostri occhi…- Credetemi. È meglio di no.Era eccitante sentirla parlare a quella distanza così intima. Le sue parole frinivano sulle mie labbra, cicale. Il mio naso lambiva la sua fronte coperta di ciocche come fronde di un salice.- Vi ho fatto molto male?- Fatemene ancora… Consumatemi. – la voce si era fatta sottilissima, inconsistente.Inebriato dalla sua sfrontatezza, non mi lasciai ripetere l’invito e sfidai il mio corpo ad infrangere ogni senso del pudore. Non era notte fonda. Se qualcuno avesse sceso le scale fino all’androne, la lanterna avrebbe illuminato una scena abominevole. Ci avrebbero uccisi. Mordendomi l’interno della bocca e premendo la sua contro la mia spalla, entravo ed uscivo dal ventre di lei, lasciando che il piacere bombardasse la mia coscienza fino a quasi annientarla. Mentre conficcavo le unghie nelle sue natiche, la percepii venire meno, come se le avessero sfilato la spina dorsale: si afflosciò tra le mie braccia del tutto simile ad una larva. Abbandonai il calore della sua femminilità e la scossi, prima con delicatezza, poi con violenza, supplicandola di dire qualcosa, ma senza risposta.Dovevo vedere. La distesi sul pavimento, poi aprii il portone perché la luce tenue della notte m’illuminasse sulle sue condizioni. - Mio Dio!Le sue guance erano orribilmente scavate, cosicché gli zigomi avevano la parvenza di due escrescenze. Dalla bocca si affacciava una lacrima di sangue. Le dita, fattesi artritiche, erano abbandonate su una pancia talmente tesa da sembrare fasulla. Le ciglia rade dei suoi occhi chiusi coprivano occhiaie scolpite sul viso da uno scalpellino maldestro, che aveva azzardato una profondità eccessiva, spaventosa. Aprii la bocca per aiutarmi nella respirazione. Non c’erano dubbi, era morta. Morta mentre la possedevo. Vinto dallo sgomento, accomodai i miei pantaloni alla svelta e feci per precipitarmi in strada, ma non potei portare a termine la mia vigliaccheria: qualcuno aveva parlato. Atterrii. Seguendo la direzione della voce, girai il capo indietro e distinsi, seminascosta dietro una colonna, una figura accosciata sulle pietre, in tutto somigliante alla defunta. Mi chiese di accostare il portone di legno massiccio. Nel filo di luce azzurrina, la vidi sollevarsi con sforzo e incedere verso di me, tremante, tastando le pareti. - Deve essere bello… morire tra le vostre braccia, signore. – disse piano – Qual è il vostro nome? - Herbert Foe. – risposi dopo un’eternità.- Herbert, desidero anch’io morire così… Voglio illudermi che sia la vostra passione, non la mia malattia… ad uccidermi. La giovane aveva cominciato a liberare il suo corpo avvizzito dai nastri della veste leggera, mostrandomi i capezzoli, di cui la luce falsava il colore, dandogli una parvenza di blu. La bocca, che s’increspava di tanto in tanto sotto il tocco spietato del dolore, prese a bisbigliare sconcezze che avevo udito finora solo dalle meretrici o da vecchie indemoniate. Vidi spuntare dai pizzi della sottana, sorprendente come l’imbrunire in un giardino dimenticato, la sua anima più terrena.Lottavo ancora contro lo shock della morte quando la ragazza si rifugiò nel mio paletot, come se bastasse a darle un destino diverso da quello che era stato riservato alla gemella. Si aggrappò a me, fragile come una rosa nella tormenta di neve. - Il corpo di vostra sorella giace ad un metro da noi! – cercai di scuoterla, mentre lei s’insinuava tra i miei abiti. La mia confusione stava rarefacendosi per lasciare il posto ad un’irresistibile pulsione sessuale. Maledii il mio essere uomo.- Prendetemi… prima che sia troppo tardi…Non potevo. Mi liberai del suo tocco, come poco prima avevo fatto col gatto randagio, e uscii fuori da quel palazzo maledetto, mentre il temporale urlava le sue proteste al mondo. Quello che non mi aspettavo, era che lei mi seguisse. Procedeva a rilento, bianchissima, duplicata dallo specchio d’acqua. Calcai la tuba sulla testa, cercando una via di fuga. La morente si era fermata, adesso, nuda e vulnerabile. - Siete pazza… siete completamente pazza! – gridai, tornando sui miei passi.I suoi occhi erano vetri neri, protesi verso di me come rami d’alberi assetati. La sua fronte era così spaziosa che avrei potuto scriverci sopra cento righe in calligrafia e leggergliele di sera, per farla addormentare.I fulmini si abbattevano sui ciottoli. In silenzio, lasciai che lei, livida di freddo, lanciasse lontano da noi il mio cappello e il mio soprabito, liberandomi poi di ogni altro strato che ostacolasse il contatto delle nostre pelli. In quell’istante di folle abbandono, la ragazza mi sembrò l’unica cosa per cui fosse valsa la pena di respirare fino a quel momento. Pieni di paura, entrammo l’uno dentro l’altra fino a morirne.
CATERINA SARACINO (pubblicato dalla Giulio Perrone Editore)
23 giugno 2008 alle 1:51 pm
Ciao CATERINA,
Hai descritto molto bene la passione senza cadere nel volgare, molto brava.
Al prossimo
Fabio
23 giugno 2008 alle 2:11 pm
Bellissimo
Qualcosa che avrei sempre voluto saper scrivere