FIORI D’AUTOSTRADA (CAPITOLO II)
Pubblicato da adb il 7 febbraio 2009
Restai paralizzato a tale rivelazione, mentre Marilisa si voltò e velocemente riprese a salire gli scalini. Dopo qualche minuto, udii al piano superiore un frastuono: lei aveva rinchiuso la porta dietro di sé, sbattendola con un rumore assordante.
Senza rendermi conto di nulla, mi sedetti su di un gradino. Ero sorpreso, ammutolito, frastornato. Poggiai la mano sulla fronte, tentando di riflettere sulla situazione.
“Marilisa stava con un uomo”, mormorai singhiozzando. “Dunque, era la paura di incontrare quest’individuo, ciò che la terrorizzava. Ed io pensavo che lei temesse d’imbattersi nel padre. Ed il bambino? Ero talmente sicuro che il piccolo fosse suo fratello, che non feci completamente caso a tanti piccoli particolari. Eppure, dovevo accorgermene subito che il bimbo era suo figlio. Bastava osservare con attenzione, la sua espressione. Come ho fatto a non cogliere il senso materno di quei teneri sguardi che lei rivolgeva al piccolino?
E quel bacio? Così struggente, così tormentato. Pareva che lei, con quel bacio, volesse prendersi la mia anima e suggellarla in fondo al suo cuore.
Solo una donna che ama e contemporaneamente soffre può baciare in quel modo.
Guardai in alto verso un piccolo pianerottolo nella speranza di rivederla ancora, ma scorsi solo un piccolo gattino che mi fissava con espressione timorosa.
“Che fare?”, mi chiesi con angoscia. “Dovevo ascoltare il consiglio di Marilisa, quindi rassegnarmi a perderla, oppure, nonostante la presenza di quell’altro uomo, dovevo ancora tentare di rincontrarla?”. Pieno di dubbi, mi sollevai dal gradino, avviandomi tristemente verso il portone della piccola uscita.
Il cortile era immerso nel buio, mentre dal cielo veniva giù una pioggerellina fitta e continua. Dai balconi si udiva un frenetico vociare di donne: “Maria…Maria”, gridava con tono flebile una vecchietta sporgendosi verso la balconata sottostante.
“ Entra la biancheria che sta piovendo”.
“Il tempo che spengo il fornello del gas e vengo”, replicava da dentro, una squillante voce di ragazza.
Una debole luce, proveniente dalle stanze interne, illuminava delle figure femminili affacciate ai balconi. Le donne, con rapidi movimenti delle braccia, ritiravano i numerosi lenzuoli stesi ad asciugare. Attraversai lo slargo ed entrai nell’androne: mi soffermai un attimo a guardare con nostalgia l’angolo dove con Marilisa ci baciammo. Mi toccai il viso: era bagnato. Non capivo se fossero lacrime oppure gocce di pioggia, stese sul mio volto.
“Marilisa non era felice con quell’uomo”, dissi a me stesso. “Erano tante le evidenze che supportavano questa mia deduzione. Anche quel furioso modo di chiudere la porta: la sbatté con una violenza che quasi tremò tutto lo stabile. Quale significato dovevo dare quel modo così stizzoso di rinchiudere l’uscio. Era l’ avversione di tornare a casa e di rivedere, in quelle quattro mura, la persona che lei odiava; oppure il rammarico di lasciare l’uomo che amava? Dedussi che, sicuramente, il significato stava in ambedue le ipotesi.
Allora, se le cose stavano così, Marilisa mi amava!
No! Mai mi sarei rassegnato a perderla! Dovevo fare il possibile per legarla a me. A costo di rischiare la vita, mi sentivo ormai obbligato a togliere Marilisa da
quest’ambiente così squallido e sordido.”
Avevo appena varcato la soglia del grande portone principale, quando nel marciapiede dirimpetto a me, sotto un balcone, vidi la grassa venditrice di castagne parlottare fittamente con un uomo di circa trentacinque anni, basso e tarchiato. I due erano vicini ad un palo della luce che spandeva un intenso chiarore biancastro. L’uomo era stempiato: i pochi capelli, di colore giallastro, erano lunghi fino al collo. I tratti del volto erano poco tracciati: aveva occhi piccoli, naso minuto, labbra sottili, mentre delle folte basette gli scendevano lungo le guance. Indossava una camicia di colore arancione molto sgargiante ed ampiamente sbottonata sul petto, dove spiccava un massiccio medaglione d’argento. L’uomo teneva annodata al collo una sciarpetta rossazzurra e sul polso sinistro portava un voluminoso orologio d’oro. Notai che al dito mignolo aveva infilato un appariscente anello con la pietra rossa. Sotto la spaziosa svolta dei pantaloni a zampa d’elefante, s’ intravedevano i larghi tacchi delle scarpe, mentre alla cintola spiccava la grossolana fibbia di un cinturone in cuoio.
Ad un tratto, la castagnara s’accorse della mia presenza. Lei, con un rapido gesto della mano, subito m’indicò all’uomo. Il basso trentacinquenne velocemente si voltò,
squadrandomi con un’intensa occhiata curiosa ed aggressiva. Risposi anch’io al suo sguardo minaccioso. Notai uno strano brillio nei suoi occhietti cerulei. L’uomo vedendo che non abbassavo lo sguardo, poggiò la mano destra nella tasca dei pantaloni, facendo risaltare un ingombrante gonfiore.
Probabilmente, con quel gesto, voleva farmi intendere che fosse armato.
La castagnara, notando quel movimento, afferrò l’uomo per un braccio e cercò di allontanarlo. La grassona tentò anche di farlo voltare in modo di distogliere il suo sguardo dal mio, ma lui con un repentino strattone si liberò dalla presa, attraversò il breve tratto di strada che ci divideva e s’avvicinò a me.
La donna si mise le mani ai capelli e cominciò a gridare: “Tano…non fare pazzie!”, esclamò con la sua voce rauca. “Lascia perdere… Vuoi ritornare in galera? Ti vuoi fare vent’anni di carcere per quella buttanella?”.
L’uomo, incurante delle urla della castagnara, mi guardò dal basso in alto:
“Entra nel portone, che ti devo parlare”, disse, con tono malavitoso.
Varcammo insieme il portone spalancato, fermandoci poco prima dell’imbocco del cortile. La castagnara ci raggiunse subito e, guardandomi con aria spavalda, si mise dietro il bassetto.
E’ vero quello che mi ha detto la zia Alfia?”, domandò seccamente l’uomo.
Gli sgranai gli occhi addosso: “ Scusa, chi è la zia Alfia?”, gli chiesi fissandolo, con espressione stupita.
“Ti piace scherzare?”, disse il bassetto con sarcasmo. “Lo sai meglio di me chi è la zia Alfia. Forse non hai capito che stai rischiando di uscire dai Cappuccini con il cappotto di legno”. Quindi alterando l’inflessione della voce ed alitandomi in faccia il suo fiato, rabbiosamente aggiunse: “Che ci fai sotto il portone di casa mia?”.
Non capii il motivo di questa strampalata domanda mentre, a zaffate, dalla bocca dell’uomo fuoriusciva uno stomachevole odore d’aglio fermentato. Pensai che questo deficiente me lo avessero lasciato i morti, ma era presto per tale regalo: mancavano ancora venti giorni al due novembre.
Con un linguaggio conciliante, mi rivolsi alla grassona:
“Signora, cosa ha riferito a quest’uomo? Può gentilmente informarmi in modo che possa rispondere alle domande del suo amico?”.
“T’informo subito”, esordì inviperita, la castagnara.
“Per tua sfortuna al banco terminò il sale e quel sant’uomo dello zio Tino, accortosi di tale mancanza, mi disse di andare a casa a prenderne alcuni pacchetti.
Appena entrai nell’androne, subito ti vidi appartato dietro l’angolo del cortile con quella scostumata, intento a fare delle porcherie che al solo pensarci mi si accappona la pelle”. E rivolgendosi verso il bassetto, aggiunse: “Dovevi vedere Tano, come quell’indecente si strusciava con questo spilungone”. La donna accompagnava queste frasi con ampi e volgari gesti, quasi mimando una scena da film erotico.
“Sei contento del racconto? ”, fece Tano, con una sgradevole voce in falsetto. “Adesso ti ripeto la domanda: Che ci fai qui sotto?”.
“Andrea”, dissi nella mia mente “la conversazione riguarda Marilisa: cerca di stare calmo e vedi dove questo bassetto vuole arrivare con il suo sconclusionato discorso.”
“Ho accompagnato una mia amica”, risposi con tono tranquillo.
“Si chiama Marilisa questa tua amica?”.
“ Sì!”.
“E come è nata, questa, amicizia?”.
“Marilisa è un’ex compagna di scuola di mia sorella”, spiegai, continuando a mantenere i nervi saldi. “Ed io le ho dato un passaggio fino a casa. Sto uscendo da questo portone perché l’ ho lasciata poco fa, all’imbocco del cortile”.
“Bugie! Racconti solo bugie!”, gridò, con voce rauca, la grassona. “Perché non lo ammetti che Marilisa ti ha baciato lì, in quell’angolo”. E col dito indicò il punto dove con Marilisa ci baciammo.
La castagnara mi fissò furbescamente quindi, ad un tratto, s’accostò a me. La sua persona, emanava un miscuglio di fetori disgustosi. A tratti si percepiva la puzza d’uova marce, mentre altre volte si avvertiva l’odore delle castagne bruciate. La grassona toccò col suo dito a forma di salsicciotto il colletto della mia camicia ed, indicandolo all’uomo, soddisfatta, domandò:
“La vedi questa macchia di rossetto?
Tano abbassò la testa.
“Lo conosci questo colore?”.
Tano, con un’espressione dura, fece un segno di diniego
“Allora, vengo e mi spiego! ”, Esclamò accalorata la grassona. “Solo Marilisa usa questa tinta di rossetto, quindi, mi pare chiaro che sono state le labbra imbrattate di quella ragazzaccia civettuola ed immorale, a causare questa macchia”.
“ Scusi zia Alfia”, dissi con tono alterato. “ Se non sbaglio, lei ha lasciato al banco delle caldarroste, lo zio Tino da solo.”
“ Sì! E con questo? Che cosa vorresti dire?”, lei, ribatté con espressione acida.
“Vorrei dirle che sarebbe meglio per tutti se lei, di gran corsa, andasse a vendersi le castagne al posto di impicciarsi in fatti che non la riguardano; inoltre la prossima volta prima di nominare il nome di Marilisa si vada a sciacquare tre volte la bocca con l’acido muriatico!”.
Tano, furente per quelle mie parole, subito mi afferrò per il braccio:
“ Giovanotto, non sei certo tu quello che devi dire alla zia Alfia di cosa impicciarsi e cosa non impicciarsi”, urlò con la sua voce capponica. “E poi, per quanto riguarda quella squaldrinella, lo so io cosa devo fare!”.
Egli, mise mano alla cintura e la sfilò dai pantaloni: “Se è vero quello che mi ha raccontato la zia Alfia”, disse baldanzoso, “appena salgo a casa, a Marilisa, le suono un bel concertino con questo strumento”. Ad un tratto cominciò a roteare il suo pacchiano cinturone. Istintivamente lo presi per il colletto della camicia e lo strattonai due volte, sbattendolo energicamente contro il muro: “Tu chi sei?”, gridai, fissandolo negli occhi. “Come ti permetti di parlare così? Se tocchi Marilisa solo con un dito, ti ammazzo!”.
Tano improvvisamente si quietò, raccolse la sciarpetta del Catania che nel frattempo gli era caduta a terra e se l’avvolse attorno al collo; quindi, con calma, si sistemò la camicia ed infine si rassettò quei pochi fili di capelli che ancora gli restavano in testa. Pensai che lui avesse capito che non stavo scherzando e basso com’era rischiava di prendersi una sonora dose di ceffoni. Di colpo Tano mi fece un ammiccante cenno d’intesa, quindi avvicinandosi proprio sotto il mio mento, con la sua vocetta stridula, sibilò: “ Lo sai perché non ti faccio niente.” Non risposi alla sua domanda e lo scrutai con espressione guardinga, tentando di capire le sue intenzioni. “Non ti faccio niente perché sto tornando ora dallo stadio… E sono contento. E lo sai perché sono contento.”
Continuai in silenzio ad osservarlo.
Anche Tano mi studiava, fingendo però un atteggiamento conciliante.
“Oggi il Catania ha battuto il Palermo ”, disse con inflessione strascicata. “ Ed io ti perdono”. Quindi, ostentando una sincera comprensione aggiunse:
“Sicuramente, ancora non hai capito la situazione. Benissimo te la spiego subito: Marilisa è la mia femmina! Perciò attaccati le scarpe strette e sparisci dalla mia vista, che qua non c’è trippa per i gatti”.
Fulmineamente avvertii un violento capogiro, mentre dei forti crampi mi prendevano alla bocca dello stomaco provocandomi dei nauseanti conati di vomito.
“ Dunque è Tano il convivente di Marilisa”, dissi a me stesso, con collera repressa. “E’ lui l’uomo che la terrorizza! E’ lui l’individuo che Marilisa temeva d’incontrare!”.
Oh, Dio del cielo! Come può una ragazza, così dolce ed ingenua, come Marilisa, convivere con un essere così spregevole? Dio! Dio mio! Dammi la forza di resistere a tale orrido pensiero”.
Cercai di riprendere fiato per non fare trapelare il mio sbigottimento a quei due figuri da corte dei miracoli.
“Me ne vado a due condizioni!”, esclamai, manifestando un atteggiamento spavaldo. “ La prima è che tu ti rimetta la cintura nei pantaloni, perché li stai perdendo; e la seconda è di promettermi di non toccare neanche con un dito Marilisa!”.
“D’accordo, ti do la mia parola d’onore!”, dichiarò Tano con espressione conciliante; quindi con, un perfido sorriso stampato sulle sue sottili labbra, mi allungò la mano. Provai a stringergliela, per suggellare il nostro patto, ma egli subito la ritrasse e la mia mano toccò solo le sue dita, viscide e sudaticce. Titubante pensai che per il momento tutto fosse finito lì. Lentamente mi voltai e con passo incerto, m’avviai verso l’uscita del portone.
Ero appena giunto in strada quando, improvvisamente, sentii, bruciante, una cinghiata colpirmi in piena schiena. Mi girai velocemente e vidi Tano che, con un sorrisetto maligno stampato in volto, stava per centrarmi una seconda volta. D’istinto, con la mano sinistra, riuscii ad afferrargli la cintura, tirandola verso di me. Il suo viso malvagio, di colpo, si mostrò a pochi centimetri dal mio: subito gli mollai, con tutta la rabbia che avevo addosso, un destro in pieno volto. Tano stramazzò al suolo con la faccia piena di sangue ed il naso deformato. Ormai la situazione stava precipitando. Rabbiosamente sentivo la zia Alfia che a squarciagola mi lanciava ingiurie e minacce di morte mentre degli uomini panciuti correvano ansimanti verso di me. In lontananza mi sembrava d’udire il suono di una sirena. Con passo rapido attraversai la stradina, avviandomi verso l’altro angolo illuminato della via. Ero già nei pressi del pilone della luce quando dietro le mie spalle sentii la voce rauca di un uomo che gridava: “Tano…non farlo! Tano… non ti compromettere…! Fermati …No…!”.
Mi voltai e vidi Tano, paonazzo in volto e con gli occhi fuori dalle orbite, che m’inseguiva tenendo una pistola a tamburo nella mano destra. Distintamente scorsi due fiammate uscire dalla bocca del revolver: subito avvertii due fortissime botte una alla spalla e l’altra al braccio mentre il terreno mi sfuggiva da sotto i piedi.
Di colpo caddi a terra come un pupazzo inerte, rotolando ansimante in mezzo alla fanghiglia. A fatica riuscii a girarmi e ad aprire gli occhi. Una leggera pioggia picchettava costantemente sul mio volto. Per prima cosa vidi un cielo nero senza stelle, la mano sinistra era sprofondata in una pozza acquitrinosa e del sangue copiosamente zampillava dalla spalla. Trafelato, diressi lo sguardo verso un balcone infiorato dalle persiane di legno color verde. “Addio, Marilisa”, mormorai. “Ti ho amato solo per qualche ora”. All’improvviso una figura gigantesca, puntandomi un revolver a pochi centimetri dagli occhi, si pose a gambe larghe sopra di me: vagamente scorsi, dentro i buchi del tamburo, il piombo grigiastro di quattro proiettili. Guardai ancora verso il balcone con la speranza di vedere Marilisa, ma era desolato e vuoto. Dolorante e con la mente sempre più annebbiata chiusi gli occhi e confusamente cominciai a pregare. Ad un tratto avvertii un fortissimo colpo di vento sollevare il gigante e spingerlo lontano da me. Riuscii con sforzo a sollevare il capo e vidi Marilisa, a terra, sotto la pioggia, lottare come una furia nel tentativo di disarmare quell’uomo. Provai ad alzarmi poggiandomi sul gomito destro, ma le forze non mi reggevano mentre il suono della sirena diveniva sempre più intenso e vicino. Dopo due tentativi andati a vuoto, finalmente, con sofferenza, riuscii a mettermi in ginocchio. In quell’istante udii, secchi, diversi colpi di pistola. Girai lo sguardo verso Marilisa, ma una coltre opaca e grigiastra discese come un velo sui miei occhi. Ad un tratto non percepii più nulla.
7 febbraio 2009 alle 7:14 pm
bellissimo!
dimmi che continua.
14 febbraio 2009 alle 10:27 am
APPENA HO LETTO “UN COMMENTO” HO CAPITO CHE ERI TU A SCRIVERLO. TI RINGRAZIO PER LA TUA GENTILEZZA. A PRESTO IL TERZO CAPITOLO.