La confessione
Pubblicato da ales il 5 ottobre 2009
LA CONFESSIONE
Quando mi rimetterò in forze mi interrogheranno. Ma io voglio raccontare questa storia adesso, ora che le emozioni bruciano ancora, ora che la memoria non è impolverata dalle considerazioni altrui. Mi allungo verso il comodino improvvisato, dove carta e penna attendono solo di incontrarsi tra le mie mani sul terreno asettico di questo letto d’ospedale.
Commissario, le confesso che, quando ero bambino, ero sicuro di poter rivedere mio padre solamente allungando una mano nella direzione del suo peschereccio e, pertanto, trovavo gratificante l’idea che l’avrei lasciato in mare solo lo stretto necessario affinché potesse sentirsi felice.
Immagino la pingue mole del pubblico ufficiale armarsi di pazienza con un sospiro, ed il lento sporgersi della sedia verso la scrivania quasi accompagnarsi al tempo del ticchettio dell’orologio a muro . Sento la sua voce baritonale esplodere nell’ufficio.
-E quindi? Cosa c’entra con l’accaduto?-
So che è un falso burbero, non mi devo preoccupare.
Le barche che si allontanavano dal molo si potevano sempre richiamare afferrando la scia che le legava alla terraferma.
La sua nave non tornò più quando rimasi a letto con il morbillo, lasciandomi maturare negli anni un senso di colpa sotto forma di convinzione di quanto la volontà fosse simile ad una stretta intorno al capo del filo legato all’orizzonte dei nostri desideri.
Bastava poco per prendere l’ultimo treno, per trovare un lavoro, per imparare una lingua straniera. Ma ci voleva ancora meno per ottenere nulla da una lenza abbandonata tra le onde del trascorrere del tempo.
Ero affacciato alla veranda del primo piano, intento a lasciar vibrare lo sguardo lungo la scia di una sigaretta, lungo i fianchi di una figura di donna ai piedi del monumento dedicato alle vittime del mare. Nessuno sembrava accorgersi che, dietro quei lunghi capelli corvini, uno sguardo stava puntando dritto tra i vicoli annodati intorno alla piazza, fisso sul ricordo di una mattina d’infanzia. Voltarsi, per pochi secondi, a fissare nella mente l’ espressione rammaricata di un bambino confuso nella folla di un corteo funebre, diventò tutt’uno con la scomparsa della sorella da accudire. I suoi movimenti erano così misurati, così equilibrati, che sembravano scaturire dalla rigida sofferenza della scultura che le era accanto. L’incredulità di alcuni, davanti a questa scena, avrebbe potuto indurli a confondere per un atteggiamento di contegno simulato quella che, in realtà, era una certezza intimamente ferma nel rifiuto di interessarsi nella vita a ciò che potesse distoglierla dalla sua prospettiva; volta unicamente all’ immediato, al suo campo visivo.
Davanti alla sua resistenza nel rispondere ai miei pensieri, mi precipitai per le scale per ritrovarmi, deluso, davanti ad una piazza affollata solo dalla vaga presenza di un profumo di salsedine inaspettatamente dolce. Un ricordo di una fragranza che si propagava dal passato come un’esca conosciuta ma irresistibile, attirandomi come un automa nel labirinto di strade del centro storico del paese.
-Non può essere lei – mormoravo a me stesso, addentrandomi tra le case sino a raggiungere la vecchia cattedrale dormiente in uno spazio angusto, adagiata sul giaciglio del dedalo di pietra delle abitazioni. Avanzando con gli occhi puntati sulla luce danzante di un lampione, mi parve di scorgere un’ombra infilarsi frettolosamente nell’ edificio. Deciso a seguirla, convinto che fosse la donna misteriosa, attraversai la navata destra dove , davanti alla statua del santo patrono, trovai uno strano cartoncino ne “la via della misericordia”.
Ecco presentarsi al commissario una nuova buona occasione per illustrare al suo vice le bellezze della nostra città. Lo vedo infervorarsi mentre racconta la storia della vecchia acquasantiera detta “la via della misericordia”.
- In paese si vocifera che, chiunque voglia chiedere una grazia, debba gettarvi la supplica scritta col sangue, dopodiché , solo in questo caso, otterrà che il santo presenti personalmente la richiesta alle alte sfere! – .
Mi stavo avvicinando cautamente quando, nella penombra, fui sorpreso di intravedere nel vaso quella che assomigliava ad una carta dei Tarocchi. Non potevo credere che si potessero ritrovare, in quel luogo sacro, gli stessi disegni degli arcani che dipingevo ogni giorno per la casa editrice del capoluogo. Ma, fissando l’illustrazione con maggiore attenzione, fui disorientato dal riconoscere, invece, una delle carte a sfondo epico che avevo raffigurato anni prima su commissione, per una misteriosa cliente privata .
Questo lavoro mi aveva fruttato parecchio denaro, anche se all’ epoca, considerai bizzarro il vincolo contrattuale posto dalla mia acquirente di mantenere tra di noi solo un anonimo rapporto epistolare. Ora, davanti al mio sguardo allibito si trovava Lachesi, la prima delle tre Moire, liberamente rappresentata mentre stabilisce la durata della vita cantandone il passato. Ero sconvolto. Mi buttai giù dalle scale dell’edifico barcollando sino a crollare sul selciato. Ma non ebbi il tempo di raccogliere tutte le domande che in piedi, davanti a me, una bambina mi fissava dondolandosi sulle punte. Sorrideva impaziente, era soddisfatta della sorpresa.
- Mamma mi ha detto di darti questo-
Una busta cadeva volteggiando sulle mie ginocchia, ipnotizzandomi, accompagnata dal secco rumore della corsa della bambina che si allontanava. Inebetito, la raccolsi sfilandovi un vecchio biglietto di entrata per il circo. Sapevo che, vicino allo slargo erboso che dava sulla rupe fuori dal paese, aveva sostato anni fa una carovana di acrobati, giocolieri e clown. Ma cosa voleva dire l’elastico avvolto intorno alla carta della seconda Moira, Cloto, che avevo raffigurato intenta a filare il tessuto della vita? Voltai l’illustrazione e, atterrito, trovai una foto dove delle lacrime disegnate a mano rigavano il mio volto sorridente allo sguardo di mia figlia . Non sapevo cosa fare. Mi rialzai a scatti come una marionetta e, come rinfrancato dalla luce della luna che rischiarava il cielo, decisi di incamminarmi verso quel fuso da cui sembrava filare il mio fato. Dovevo farlo, e lei sapeva che avrei preso quella strada. Arrivai sino a giungere alla fine del ciottolato, proprio dove il vecchio circo aveva fissato quello che ora era solo un tendone irreale squarciato dallo sfondo della notte. Una figura incappucciata, vestita da zingara, mi fissava da dietro un tavolino malfermo sul terreno brullo, e, davanti a sé, vi era, strappata in due parti, la carta dove la Moira Atropo recideva spietatamente il filo dell’esistenza. In preda ad una rabbia cieca, risoluto a percuotere quello spregevole individuo, non feci che un solo passo prima di avvertire una scossa attraversarmi le membra. Voltandomi, ritrovai, impresso sul volto di mia figlia, il sorriso della bambina incontrata davanti alla cattedrale. Non ebbi il tempo di reagire, ero così stordito dagli effetti della tossicità del fluido, che l’ago mi aveva iniettato nella schiena, che persi rapidamente i sensi. Tutto iniziò a sfumare, e mia figlia, sua nipote, caro commissario, si trasformò in un fantasma, in uno spettro del passato.
Quante volte ho sentito dire da mio suocero, il commissario: – Dimentica mia figlia, ha perso la testa da quando è scomparsa sua sorella. E’ un bene per te e la bambina che sia scappata…-
Lo so che non me ne ha mai fatto una colpa della fuga di mia moglie. Ma a questo punto starà già correndo qui, avrà capito tutto, è un bravo sbirro il nostro commissario.
Mi sono svegliato frastornato ed abbandonato su una sedia, ma sarebbe stato meglio non mi fossi più destato. Davanti a me, l’orrore era nel ritratto di mia moglie immobile, mano nella mano con nostra figlia, sull’orlo del precipizio sul mare.
Sua figlia era sempre bellissima, e i capelli neri le dovevano sicuramente far risaltare gli occhi fiammeggianti. Mi scuserà commissario, non l’ ho dimenticata.
-Anni fa ti ho pagato queste carte per costruire una strada, la stessa che ti ha condotto qui a compiere quello che il fato ha previsto per tutti noi- sussurrava al vento, scagliandovi il mazzo di Tarocchi che stringeva in pugno.
-Quale fato! – l’urlo mi uscii soffocato dallo stordimento, dall’emozione, dal senso
d’ impotenza che provavo dal non riuscire a far altro che a strisciare per pochi metri.
Ero raggelato dal tono monocorde di una voce che non aveva nulla di caldo, di umano.
- E’ tardi per tornare indietro ma non lo è mai per guardare avanti. Seguire un filo, risalire la corrente del tempo porta così lontano….Ma è stato l’unico modo. L’unico modo per guarire. L’unico modo per poter ritrovare mia sorella. Tu me l’hai fatta perdere, ed ora soffrirai affinché noi due si possa ancora vivere assieme –
L’ombra di mia figlia si voltò, lasciò la mano di mia moglie, e, senza staccarsi dai miei occhi, si avvicinò lentamente, con lo sguardo carico di disprezzo, al mio corpo disteso sul terreno. Poi, non ho più ricordi, solo il buio.
Le chiedo perdono commissario, confesso che ho creduto ad un’allucinazione perversa.
Mi dichiaro colpevole di non avere sospettato che la perfidia di una velenosa suggestione potesse farmi perdere la ragione e, quello che è peggio, la fiducia in sua nipote. Sono l’unico responsabile del dolore antico che ora lei sta nuovamente riscoprendo dopo così tanti anni. Solo ora mi accorgo di avere, nella tasca della giacca, tutto quello che mi rimane della vicenda: una foto recente delle sue due figlie scattata davanti ad un vecchio tendone da circo.
12 ottobre 2009 alle 12:22
Ciao Ales,
e benvenuto/a sul sito
Suggestivo questo tuo. L’atmosfera onirica ed il tono “allucinato” rendono molto bene, senza confondere troppo il lettore.
Grazie per avercelo fatto leggere!
Andrea.
12 ottobre 2009 alle 20:28
Ciao Andrea,
grazie a te per aver avuto la pazienza di leggere il racconto!