Peppone di Roccabruna

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Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

La mia vita ha ripreso il suo ritmo quieto, gli scossoni della mia avventura con i servizi segreti sono già ricordi, smussati dalla lontananza. Da tutta quella storia rischiosa e inconcludente ho guadagnato però un paio di amici: Boitani, il polacco e Orlov, il bulgaro.

Ora Boitani si chiama davvero così, Brando Boitani recita il suo nuovissimo passaporto americano, non più Krevalsky. Orlov invece non ha di questi vezzi, ha mantenuto il cognome, quanto vero non so, di quando lo conobbi e di nome fa Anton.

Brando ha avuto una lesione alla spina dorsale durante l’agguato che ci tesero nelle cantine del mio palazzo; ora è su una sedia a rotelle ed ha abbandonato il servizio attivo, anche se mi sembra di capire che ogni tanto fornisca ancora delle consulenze. Lui ed Orlov si sono ritirati a vivere in campagna, in mezzo ai boschi, in una vecchia casa ristrutturata nella valle dell’Erro. La loro casa è grande, la conversazione buona e la loro ospitalità cordiale, di conseguenza spesso la domenica vado a trovarli, magari con un amico, per una mano a scopone davanti al camino degustando un formaggio o un salume, con qualche bicchiere di vino delle Langhe ad oliare l’intelletto. Ogni tanto poi ci si muove, in laico pellegrinaggio, verso qualche santuario della gastronomia: un ristorante a volte, o una trattoria, più spesso un agriturismo o meglio, ma troppo raramente, un’anziana, depositaria di sapienza antica che, su raccomandazione di qualche conoscente, ci prepara e ci spiega una pietanza desueta, un dolce, una conserva… Si discute poi, spesso, della relazione tra quel piatto ed altri e si finisce, inevitabilmente, con il parlare di storia, di traffici, di lingue e di dialetti.

È, questo interesse per il cibo come cultura materiale una cosa che ci accomuna tutti. Brando, forte di una sua esperienza come sommelier nell’allora Germania Federale, si dedica a individuare il vino che meglio si sposa ad ogni piatto, ponendo poi il meglio della sua dialettica al servizio della sua scelta. Io sono prima curioso di assaggiare i piatti più diversi, poi sono ansioso di elaborarli e, infine, mi piace riproporli alla riflessione e alla critica di pochi amici attenti. Anton si inserisce, in questa nostra dialettica eno-gastronomica, come un appassionato della materia in un dibattito tra esperti: non perde una parola, un sorso, un boccone e interviene con circospezione, attento a non offendere nessuno. La conversazione ci porta, a volte, a trovare somiglianze tra i piatti di regioni lontane, viaggiamo allora, idealmente, da un paese all’altro, attraverso il continente e spesso, grazie alla conoscenza che loro hanno delle lingue europee, ricostruiamo i percorsi di ipotetiche migrazioni di cui non sempre troviamo traccia nei libri di storia. Allora, ogni tanto, Orlov fantastica di una grande opera che dovremmo mettere in cantiere: un trattato di antropologia culinaria e allora il suo sguardo, che si fa sognante, mi mostra che anche lui aspira all’immortalità.

Sono, i miei amici, una coppia affettuosa, ma senza smancerie e mi fanno sentire ottimista sulla possibilità di coniugare l’affetto alla ragione. Si esercita tra loro l’affettuosa ironia, non il sarcasmo.

Perché nei miei rapporti di coppia sempre mi sono trovato o con donne senza un’affidabile sostanza, senza un parere, un’opinione propria oppure, convinte di saperne sul mio conto più di me, decise a fare di me cosa diversa?

È con i brandelli di questi pensieri che cincischio oggi in negozio guardando Brunilde che spolvera le vetrinette, con i collari, e le palle, mentre io mi lambicco sulla dichiarazione dei redditi. Dal suo castigatissimo, ampio grembiule si affacciano, quando in alto si tende, popliti teneri e snelli ed emergono ginocchia tornite sopra i polpacci eleganti che fluiscono in caviglie sottili; sotto, incongrui capitelli, grandi scarpe da basket, imbottite, pesanti. Chissà le sue cosce? tra quei lombi poderosi e le gambe …

È forse troppo tempo che sono solo, sarà la crisi del settimo anno: ormai at­tenuati i ricordi stressanti emergono, affastellati, commozioni e rimpianti di rap­porti passati.

O non sarà piuttosto un climaterio precoce che mi espone a turbe ormonali?

Furono proprio il suo aspetto e i suoi modi a farmi assumere Brunilde, credevo mi ponessero al riparo da qualunque tentazione; la sua energia, la sua efficienza e la sua brusca sincerità me l’hanno poi fatta apprezzare. Il vecchio Nanni era an­dato in pensione da vari mesi ed io cercavo, ormai senza troppa convinzione, qualcuno che potesse rimpiazzarlo. Non era facile trovare un degno sostituto del pacato e fermo ex-boscaiolo; ero quasi disperato quando si presentò lei, la as­sunsi senza farmi molte illusioni e invece Brunilde ha la capacità di leggere la tensione e il timore in un cane prima che si rapprendano in paura e ribellione. Non solo con gli alani e i mastini vale quanto il Nanni, ma anche con i piccoli terrier isterici, da salotto, riesce a trovare una comunicazione, cosa che anche a me non sempre riesce facilmente. Proprio per queste sue capacità qualche mese fa, dovendo rinnovare il negozio, l’ho ristrutturato in modo da avere due camerini da bagno, così da poter trattare due cani alla volta, nei casi tranquilli.

-Din-Don.- Si apre, accompagnata da una sottile mano di vecchia, la porta del negozio ed entra una coppia in grigio: lei è minuta, esile, un po’ curva, i bianchi capelli dai riflessi azzurrini acconciati in riccioli ordinati, lui è un gigante dalla camminata indolente, che gira all’intorno uno sguardo quasi torpido di pacata sufficienza, solo quando lei gli appoggia un momento la mano sulle spalle si ve­dono i muscoli irrigidirsi sotto il raso grigio del manto, facendolo statua di basal­to, attenta, orgogliosa.

Lei è Rinalda Ceriani: ottantadue anni di spirito polemico concentrati in quaran­tacinque chili di peso.

Lui è Peppone: figlio di Ciro e Tania di Roccabruna, mastino napoletano fuori taglia, dagli occhi gazzuoli[1].

Chi mai immaginerebbe, vedendola, che questa vecchina in trenta anni di ve­dovanza possa avere impeccabilmente educato cinque mastini napoletani, prati­camente per tenere al largo figli, nuore e nipoti?

-… bagno, trattamento antizecche e unghie. Va bene Signora Ceriani stia tran­quilla: Peppone glielo porto a casa io non la Brunilde, verso le sette e mezza, ap­pena chiudiamo, via del Turchino 61. Vero?

-Fa’ de prescia Bruno, me racumandi, perché ai vot ur aspeti gent. – poi rivolta a Brunilde aggiunge – Te set minga ufesa Brunilde, vera? L’è no che mi me fidi minga de ti, l’è che se ghe ciapa ‘l cinq, ghe vör un om, e pö e pö.

* * *

Neppure durante il bagno e le successive spugnature di prodotto antizecche, Peppone smentisce il suo personaggio indolente, l’unica concessione che fa alle nostre manovre è chiudere gli occhi quando gli bagnamo la testa e leccarsi la zampa dopo tagliate le unghie. Fossero tutti così! Alle sei e mezza, in neppure mezz’ora, è tutto finito, lo lego con il guinzaglio al termosifone e gli accendo l’elettroventola vicino per asciugarlo per bene, non posso strofinarlo troppo altri­menti gli tolgo la lozione antizecche. Brunilde sale sulla scala a finire di pulire gli ultimi scaffali, mentre io asciugo il pavimento dello stanzino da bagno.

Sono alla finestra dello stanzino, incantato dal tramonto tropicale che ci regala questo aprile, quando il tintinnio della porta fa da breve preludio ad un bailamme di guaiti, urla, tonfi, scroscio d’acqua e clamore di vetri infranti. Mi precipito di là e vengo investito da un getto d’acqua furioso, Nilde è a terra, senza sensi, con una gamba piegata malamente, sdraiata tra i pezzi della vetrinetta divelta, ma respira, di Peppone non c’è traccia, o peggio, il vetro della porta è sfondato in basso, mentre sopra dei pezzi sono sospesi al loro posto, evidentemente è uscito di lì dopo aver divelto il termosifone. Telefono per chiamare un’ambulanza e con le pinze piego tre volte il tubo di rame e lo schiaccio finché l’acqua smette di uscire. Per fortuna il riscaldamento era spento, se l’acqua fosse stata bollente…

La Nilde è rinvenuta. Cerco di tranquillizzarla ma vuole alzarsi, mi sembra smarrita, è inzuppata e temo che possa avere freddo. Dice che deve cambiarsi, sarà sotto shock…

L’ambulanza non arriva, lei insiste a cercare di alzarsi, preferisco aiutarla per evitare che si possa tagliare facendo da sola, mi chino flettendo le gambe, mi preparo allo sforzo, la schiena è diritta, stringo le chiappe e sollevo… e ce l’ho tra le braccia sollevata da terra, leggera, il mio viso sul suo collo, inaspettato. Stordito dal profumo di bimbo della sua pelle respiro due volte senza parlare, poi la prendo saldamente tra le braccia e la porto delicatamente a sedere sul bancone vicino alla cassa, qui, ora, mi accorgo che anche lei, forte, mi stringe, ma è solo un istante poi si allontana e si ricompone, o meglio ci prova. Io, ancora stupito della sua leggerezza, la guardo stranito: le tette le assediano il mento, la pancia ed i fian­chi le sono saliti a ciambella sopra la vita. Lei si guarda ancora un momento e poi mi chiede di aiutarla a spogliarsi prima che arrivi l’ambulanza. La sto aiutando a sfilare il grembiule quando, riflesso nello specchio dietro il bancone, vedo affacciarsi alla porta Moussa, il parrucchiere all’angolo, Nilde mi abbraccia e mi bacia appassionata, vedo, nel viso scuro del senegalese, aprirsi un sorriso che sembra un quarto di luna sul lago, si gira ed esce silenzioso. Brunilde mi allontana.

-Non ho tempo di spiegarti aiutami a stare in piedi mentre mi sfilo…

Perdo la fine. Già in piedi, su una gamba sola, ha slacciato la gonna che cade, poi si sfila il maglione e io l’aiuto a reggersi ritta tenendole i fianchi, ma tocco un body pauroso, color carne, che sembra contenere salsicce, trippe e tette di vacca, sono affascinato e schifato, mi scuote da questa dialettica estetica la sirena di un’ambulanza che si avvicina, lei comincia a sfilarsi anche il turpe budello e devo afferrarla più salda per non farla cadere mentre si divincola. Sorpresa: è dura e compatta… Che sia un travestito…

-Avanti dai aiutami: dammi la gonna… ora il grembiule.- La sirena è davanti al negozio, apro la porta stordito, faccio cenno ai barellieri e mi faccio da parte.

Mi sembra che la mia vita, stasera, sia diventata una di quelle commedie televisive americane, a puntate, in cui gli attori sgranano gli occhi ogni cinque minuti, a sottolineare le assurde situazioni in cui vengono a trovare, ad essi risponde puntuale la regia: con un applauso, che però io ancora non sento; spero in un’interruzione pubblicitaria, per prendere fiato e capire, ma forse è solo un sogno e se mi metto a dormire, cambio canale e posso sperare in un tranquillo documentario coi pinguini o le rane

* * *

Nilde è partita in ambulanza ma senza sirena, da un primo sommario esame sembra abbia solo una gamba rotta, io ho chiuso il negozio e cammino veloce cercando Peppone. Vicino all’ingresso del parco un crocchio di camionisti guarda ridendo una cabina del telefono davanti alla quale è seduto un mastino. Mi avvicino in fretta e vedo all’interno il vecchio Branciaroli, la coroncina di capelli bianchi scompigliati, con in braccio Chanel; languida come suo solito la piccola maltese non degna di uno sguardo il suo corteggiatore. In un istante mi tornano in mente le storie dei disastri causati da Peppone quando sente una femmina in calore, le raccontava l’ingegner Brolio, il barbone del quartiere, grande affabulatore nei giorni in cui gli girava bene. Pensavo sempre, ascoltandolo, che in quelle storie ci fosse più del suo che del denigrato mastino e mi è toccato ricredermi. Come avrei riso volentieri al racconto di quel pomeriggio accaduto ad un altro! Ho ancora due anni di cambiali da pagare per la ristrutturazione, se l’assicurazione non paga…

Afferro il guinzaglio che ancora pende dal collare di Peppone e provo a smuoverlo, impossibile senza strozzarlo. Intanto il Branciaroli minaccia le vie legali, dice che ha chiamato la polizia, che mi fa togliere la licenza. Come se fossi Marlowe!

-Noiatri lu tenimmo e isso sortisce- La frase alle mie spalle mi pare illuminare di buon senso una situazione in cui mi sembra di svolgere il ruolo del birillo.

* * *

Il vecchio cammina, nervoso, rasente il muro, guardandosi indietro, verso il 61 di via del Turchino secondo le mie istruzioni, mentre tre camionisti corpulenti trattengono il mastino che ansima rauco nello sforzo di raggiungere la sua amata. Chanel, la testa affacciata dalla giacca del padrone, si mostra indifferente a tanto cimento. Io corro avanti a citofonare alla Ceriani di scendere a prendere la sua bestia.

Il Branciaroli si allontana minacciando cause e querele, Peppone ha la schiuma alla bocca.

-Oh, non è nu cane è nu manzittu…

-Besogna bastonalli quanno so’ piccoli, sennò ‘nte danno più retta. Come li frichi.

-Bruno, alura ‘s’è sucess? L’è un quart d’ura che telefuni…- La piccola vecchia, un po’ ansimante, lo scialle sulle spalle, posa la mano su Peppone guardandoci e lui si siede. I tre camionisti, interdettti, non sanno se lasciare il guinzaglio molle o se stare pronti a resistere, glielo tolgo di mano io e lo consegno alla padrona promettendo spiegazioni per l’indomani.

-L’aspeti alura, duman dopu mesdì Bruno. Buonasera Signori.- I due se ne vanno per il vialetto d’accesso come sempre: l’uno indolente, l’altra incerta.

Con un bicchiere e qualche spiegazione mi sdebito con i camionisti. Sento il mio letto, nella mia cameretta disordinata, che mi chiama: suadente, invitante, una geisha devota non potrebbe fare di meglio; ma la Brunilde è in ospedale da sola… Sì ma: Brunilde = spiegazioni.

Il parco deserto e silenzioso mi attira. Mi sdraio un momento su una panchina in questa quasi tiepida serata di föhn, peccato non si vedano le stelle, ma un usignolo canta, non visto, la gloria degli altissimi lampioni.

Devo essermi appisolato, i fari di una macchina della polizia mi abbagliano, sento le portiere sbattere, e mi metto a sedere.

-Stai fermo, documenti!

-Sono in tasca ora li prendo. Ecco.

-… Ma abita qui vicino, perché non se ne va a casa a dormire che qui non è igienico?

-Ha ragione agente, ma mi sono addormentato senza accorgermene, ho guardato un attimo le stelle… Posso andare?

-Vada, vada. Andiamo.

Mi allontano mentre alle mie spalle vola la ghiaia della loro secca ripresa. Sono le dieci, la notte è appena cominciata ma questo breve stacco mi ha ristorato: andrò a cercare la Brunilde.

* * *

Il pronto soccorso dell’ospedale ortopedico è in un momento tranquillo: una ragazzetta in barella si tiene un braccio con due gomiti e mi guarda, gemendo piano, senza vedermi, una vecchia trascinata dalla figlia, mostra con noncuranza al medico di guardia un anulare modello crainerwurst. La Nilde mi dicono in accettazione che è in sala gessi. Esce dopo poco con uno stivaletto giallo, su una seggiola a rotelle e mi saluta scura in viso.

-Trentacinque giorni Bruno! Ma io gli taglio le palle e me le faccio al prezzemolo.

-Nilde mi dispiace, è colpa mia. Non mi sono ricordato che ristrutturando il negozio hanno messo i tubi dei termosifoni di rame, così per Peppone è stato un gioco. Domani mattina devo fare la denuncia all’assicurazione, ti sei fatta dare la prognosi? Come farai in casa da sola? Intanto stanotte posso fermarmi da te se vuoi.

-Sì. Non c’è problema. No non c’è bisogno grazie.

-…?

-Ti si è ghiacciato il cervello? Tre domande, tre risposte! Piuttosto fammi un favore: accompagnami a casa, ma prima passiamo dal negozio a prendere il mio body.

-Ecco proprio di questo…

-Andiamo a casa forza, per strada prendiamo un paio di pizze e con una birra in mano e lo stomaco pieno parleremo meglio, io per lo meno, ché tu dal tempo che c’hai messo, mi sa che già ti sei empito il pancino.

* * *

La gamba appoggiata ad un puf ha un’aria meno ridicola alla calda luce della lampada a petrolio che ne smorza il giallo fluorescente. Anche lo squallido arredamento del soggiorno ci guadagna con questa luce palpitante che si diffonde, dal tavolinetto verso l’alto, senza riuscire a scoprire tutti gli angoli nascosti, arrotondando le ombre che, seduti, ci assediano.

-È inutile che ti guardi in giro per capire qualcosa, non c’è niente di veramente mio in questa casa salvo le mutandine appese in bagno e la lampada.

Com’è minuta nella tuta da ginnastica rossa, affondata nell’angolo del divano giallo e trabocchevole. Le carezzerei la nuca come ad un bimbo, ma l’enorme pizza con doppie melanzane trifolate mi ha messo nella disposizione d’animo di una pera cotta, appiombato nella poltrona sono molle e ben disposto, ma queste “mutandine” citate così mi allarmano un poco; se Brunilde si aspetta spirito o iniziative per “un giro in giostra” dovrà metterci del suo, molto del suo.

-Scusami Bruno, t’ho detto un sacco di palle; ma ho dovuto! È meglio che cominci dall’inizio, abbi pazienza.

Le premesse sono delle peggiori, mi si chiudono gli occhi, aggrotto le sopracciglia nel tentativo di sollevare le palpebre e di sembrare più attento.

-Io, mio fratello e un amico, in società, s’era attrezzato un camion per fare pesce e patatine fritte, anelli di totani, crocchette: sai quelle cose surgelate che in poco son cotte. Si batteva le spiagge del Grossetano in estate e i più grossi mercati paesani d’inverno. D’estate ci si faceva ‘l culo tutti i giorni, il resto dell’anno si lavorava que’ due, tre giorni la settimana; era già tre anni che s’andava avanti così e non ci si poteva lamentare. Oh, non c’era da farsi ricchi, ma un par di mesi di belle vacanze all’anno, prima e dopo la stagione estiva, li si faceva sempre. Il resto dell’anno, t’ho detto: si lavorava quei dieci giorni al mese, il tempo libero era tanto e a Ben… scusa: al paese, non c’è molto da fare per dei giovani… la sua ragazza poi … Oh, beh la faccio breve: per un motivo o per l’altro mio fratello è entrato in un giro di gioco d’azzardo, lui non lo sapeva ma il giro era controllato dalla mafia, per fare circolare in fretta il danaro sporco e così ripulirlo. Io non sapevo niente, o meglio sì, sapevo che giocava, ma pensavo che fosse il solito giro di amici: quelle venti-, trentamila lire che potevano andare o venire. E invece, questo l’ho saputo dopo, dal giudice, s’era messo nelle peste per un sacco di soldi, così era nelle loro mani e doveva smerciare per loro soldi sporchi, tramite la nostra attività e, te la faccio breve, la polizia è arrivata in qualche modo fino a lui. Doveva comparire davanti al giudice, ma ‘l giorno prima, sul lavoro, mentre lui e Otello stavano chiudendo, li hanno uccisi entrambi. Di solito anch’io facevo la mia parte con loro, ma quel giorno non stavo bene ed ero andata a sdraiarmi un poco in pineta. Mi stavo alzando per raggiungerli quando sono arrivate due macchine, sullo spiazzo ormai deserto; da una son scesi in due e hanno fatto fuoco incrociato con delle mitragliette, mentre l’altra auto s’è fermata a pochi metri da me, coi finestrini aperti. Non so come non mi abbiano vista, probabilmente non essendoci altre macchine si sono sentiti sicuri e non si sono guardati in giro; io ero in ginocchio a terra che stavo raccogliendo le mie cose, a pochi passi: nella prima ombra della pineta. In una manciata di secondi è finito tutto e sono rimasta sola.

Si interrompe un momento, ha parlato di getto quasi senza prendere fiato, mi guarda, dura, poi sbuffa e si china a riempirsi il bicchiere. Non so cosa dire e cerco di fare uno sguardo di intensa partecipazione.

-La polizia, gli interrogatori, le foto, i giudici, te li risparmio. Sta di fatto che uno di quelli nella macchina che mi era vicina, era un insospettabile avvocato, che poi sembra sia uno dei capi dell’organizzazione. Io divento un testimone chiave e la mafia vuole la mia pelle; dopo un sacco di menate mi danno finalmente documenti nuovi e una pensioncina: con l’ordine di starmene il più possibile chiusa in casa. Perché non possono proteggermi 24 ore su 24 e, secondo il giudice, avere una scorta ogni tanto è peggio che non averla, perché attira l’attenzione, ed è proprio quello che io devo evitare.

-Aspetta vado avanti io: hai visto Robin Williams che faceva la governante in quel film e hai pensato di travestirti da 40enne corpacciuta.

-A suo tempo ho frequentato un paio d’anni il DAMS e studiare la parte e prepararmi mi è servito per lenire un po’ il dolore per la morte di mio fratello, sai eravamo soli: i nostri genitori morirono in un incidente d’auto che s’aveva io tredici e lui sedici anni. Ci tennero i nonni materni, che però erano vecchi e mio fratello è stato… è stato tutto…

Avevo palleggiato tra me e me qualche ipotesi, in macchina, ma a questo non ero preparato, forse dovrei leggere ogni tanto la cronaca nera. Il mio sguardo non deve essere carico di comprensione e partecipazione come era nelle mie intenzioni se lei sbotta: – Non mi guardare così non sono un coleottero strano e tu non mi hai scoperto.

-Scusami ma ti ho avuta vicino più di un anno e non ho mai sospettato niente, e ora è tutto successo così in fretta… ero soprappensiero, ti confrontavo con l’immagine che avevo di te.

-Mi spiace di averti dovuto mentire, sei stato l’unica persona con cui ho potuto un po’ parlare in un anno e mezzo oltre al giudice. Com’ero felice quando tornasti dopo il tuo rapimento l’anno scorso! Tu mi confidasti le tue paure in quell’avventura e io mi sentivo una merda a continuare la mia finzione, ma è stato così difficile avere questa copertura, avevo una tale paura di bruciarla che diventai ancora più brusca con te, te ne sarai accorto. In realtà avevo una gran voglia di potermi confidare con qualcuno e mi faceva quasi rabbia la facilità con cui tu invece mi parlavi di spie e agenti segreti, di rischi di disastri su scala planetaria… ed io non potevo condividere il mio dolore con nessuno.- E butta all’indietro la testa scolando la piccola birra scipita e nel farlo l’altra mano, che si era chiusa a pugno durante il racconto, si abbandona sul bracciolo e si apre come un nido. Vorrei deporre un bacio nel suo palmo.

-Sai mi sento stupido a dirlo adesso ma spesso mi perdevo a guardarti quando tu non mi vedevi… La tua ruvidezza mi intimidiva. Sembravi così compiuta in te. Poi oggi quando ti ho aiutato ad alzarti…

-Vieni a sederti qui, vuoi? E mi fa cenno con la mano all’estremo del divano; poi, come mi son seduto, si sdraia: la testa sulle mie cosce magre, un cuscino abbracciato sul petto, un lieve sorriso.

-È troppo tempo che ho voglia di appoggiare la testa sulle tue ginocchia e di ascoltarti parlare, lento e sottovoce, senza dover cercare di difendermi dalla debolezza che mi prende con una battuta salace.

Ma si rialza e si fa seria.

-Forse è solo solitudine, non ci far conto.- Borbotta quasi brusca.

-No guarda non mi sento di farti delle coccole stasera, è già troppo da grandi, se vuoi dormiamo vicini, come bimbi, senza sesso né intenti; qui sul divano.

Così, con un sospiro che quasi mi sembra di sollievo, lei si accuccia nella piega del divano e mi fa posto.

* * *

Mi sveglio lucido e attivo, come sempre quando dormo scomodo, infreddolito dall’aurora. Mille cose da fare in negozio.

Mi alzo lasciando Brunilde (?) pur dura di sonno, con un’ombra di soddisfazione preoccupata che sale dagli angoli della bocca agli occhi e poi si rapprende, scivolando in mezzo alla fronte, all’attaccatura del naso, percorrendo gli stessi sentieri che il tempo si occuperà di scavare.

In un lampo la vedo già vecchia, ai giardini, guardare i giochi dei cani e dei bimbi e prendermi la mano, serena.

Vorrei che fosse domani.

Vorrei scappare lontano e non saperne mai niente

Vorrei essere morto da ieri.

Esco nell’aria resa acre dai riscaldamenti appena avviati: sereno e calma di vento, compiango i miei bronchi.

Rientro dopo pochi minuti con brioches e giornale. Lei piano si stira e poi mugola, un poco; ma si copre la faccia e continua a dormire. Vorrei baciarla dietro le orecchie o andarmene dietro la Luna, a cercare il mio senno perduto o a diventarne una pietra. Come dice una vecchia canzone anarchica: “vorrei baciarla e poi morir mentr’ella dorme, a l’insaputa”. Mi sento inibito, bloccato nell’espressione affettiva. Sarà ancora il ricordo di Giovanna forse, o forse è la disabitudine. Quando finì quella storia ricordo che aspiravo solo ad essere “fuori mercato”, aspiravo alla pace dei sensi. Ma è forse la voglia di tenerezza, o forse qualcosa di ancora più animalescamente infantile: la voglia di tana, che alla lunga vince su tutto.

Cerco la moka e il caffè nel cucinino, attento a non fare rumore, ma non li trovo. Neppure c’è il nescafè. Neppure l’orzo, né il latte! Gli armadietti sono pieni di spezie dagli odori pungenti, finalmente identifico in un barattolo il mate e metto l’acqua sul fuoco. Sento scrosciare una doccia, esco dal piccolo vano, Brunilde non c’è, ma la sento imprecare e armeggiare nel bagno: cercherà di non bagnare lo stivaletto. Prendo il giornale e resto sull’uscio della cucina a controllare la pentola mentre scorro i titoli. Piccoli rumori metallici e un breve raschiare mi fanno guardare la porta, la maniglia gira lentamente. Non ho dato mandate solo lo scrocco automatico! Afferro la pentola con l’acqua bollente e la getto in faccia all’uomo che è quasi entrato, pistola in pugno. Due spari arrochiti dal silenziatore si fondono con i colpi sonori dei proiettili sulla pentola di acciaio. Sbatto la porta in faccia al killer che è arretrato imprecando, una mano sugli occhi. Metto la sbarra e mi sposto.

La doccia tace e Brunilde dal bagno mi chiede se mi è caduto qualcosa.

Intanto sul pianerottolo due voci altercano brevemente; mi sembrava strano che fosse solo! Qualche colpo solleva foruncoli di schegge dalla porta, ma il silenziatore toglie potenza e nessuno riesce a passare i vecchi battenti di massello. Una spallata o un calcio, credo e poi con qualche imprecazione si allontanano correndo.

Brunilde si affaccia, avvolta in un telo da spiaggia, alla porta del bagno con aria preoccupata e con gli occhi mi interroga. Vorrei dirle qualcosa ma non mi esce la voce, ho un crollo di pressione e mi gira la testa, mi siedo e la vedo sconvolta. Mi sento bagnato, possibile che mi sia pisciato addosso? Brunilde mi scuote.

-Cos’è successo?

-Un uomo ha aperto e sparato

Sui pantaloni si allarga una macchia intorno ad un piccolo foro, un poco sotto la vita. Una crisi isterica sta cercando di farsi strada nella mente di Nilde, lo capisco da come mi guarda la pancia.

-Muovi quel culo e portami in ospedale che oggi tocca a me. E dammi una birra.

Un brivido o una scossa la percorrono un momento, la lingua sta per battermi una risposta al curaro, poi si infila il cappotto e le scarpe e mi aiuta a scendere in strada.

Usciamo senza curarci dei killer di poco prima; ci pensiamo dopo, quando siamo ormai in macchina, ma evidentemente se ne sono già andati. In pochi minuti, strombazzando sulla corsia dei taxi siamo al pronto soccorso del Policlinico. Mi sento debole e lo sforzo di uscire dall’auto mi oscura un momento la vista; un pensiero mi tormenta: chissà se riesco ad evitare le trasfusioni.

Mi mettono sul lettino e mi portano via, Nilde mi zoppica accanto.

-Digli che sono un testimone di Geova, non voglio trasfusioni : tenda a ossigeno e fisiologica…

* * *

Mi sveglio sudato di freddo, ho sognato che mi hanno ibernato. Mi prude il naso ma non riesco a sollevare il braccio, giro un poco la testa e vedo la flebo, i polsi sono legati alle sponde, l’ossigeno gorgoglia sulla mia testa, vorrei chiamare qualcuno ma non emetto che un uggiolio, cerco di alzarmi a sedere, ma l’urlo silenzioso degli addominali trafitti mi oscura il cervello.

* * *

L’ospedale si sveglia, ma la cosa non mi turba, già stavo rileggendo per l’ennesima volta la lettera di Nilde. Il proiettile non era entrato che pochi centimetri, mi aveva colpito di rimbalzo dopo la pentola ed era così deformato che non hanno capito che calibro fosse, dovranno analizzarlo.

Una settimana è passata senza troppo pesare, ma ora che mi sento meglio ogni giorno conta per cinque, avrebbero potuto dimettermi ieri, ma visto che vivo solo preferiscono tenermi una settimana in più.

Così la Nilde se n’è andata… ha mille ragioni: se la mafia l’aveva scovata… Intanto io sono daccapo: vorrei e non vorrei, ma il saperla lontana, da sola, in pericolo, mi dà una sensazione di freddo e di fame, di vuoto alla pancia…

Cosa mi aveva detto quella sera invitandomi a sederle accanto? “È troppo tempo che ho voglia di ascoltarti parlare, la testa sulle tue ginocchia, senza dover pensare una risposta…? acuta? no; procace? no macché procace. Ecco: salace.

Bussano alla porta. Inaudito. Qui non ti chiedono il permesso neppure per farti un’esplorazione rettale…

-Avanti.- Saranno i parenti del mio compagno di stanza che è sceso a fare la TAC. E invece è Orlov che mi è venuto a trovare.

-Allora Bruno come va? Quanto ti ci vuole a prepararti? Ieri sera Brando mi ha detto che ti aveva sentito e che non ti vogliono dimettere perché sei solo, ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso che anche convalescente sei la migliore compagnia per godere di questo maggio incipiente. Che ne dici?

-Alleluia!

* * *

Le piante di luppolo[2], che in febbraio abbiamo messo a dimora, stanno crescendo irruente: germogli, spessi come matite, disegnano volute intricate sui graticci che abbiamo impiantato. Brando, muovendosi lungo il sentiero con la nuova carrozzella da cross, ha raccolto quasi otto etti di questi germogli giganti ed ora li governa. È quasi incredibile l’entusiasmo che gli brilla negli occhi; dove sono finiti: l’intellettuale raffinato, la spia disincantata, l’ironico poeta? Ma presto coglie il mio sguardo e si contiene.

-Una cosa ,Bruno, mi chiedevo ed è se tu ti sia abituato a indagare nello sguardo degli altri, nei modi, nelle posture, frequentando i cani o se proprio questa capacità di capire al di là delle parole già tu l’avessi e per questo ti sia trovato tanto bene con essi da farne un mestiere.

-Penso che in parte sia una cosa innata, ma è proprio questo che tanto ci accomuna noi tre, anche tu e Anton avete la stessa sensibilità, per questo tante volte si sta insieme senza bisogno di parlare; anzi io potrei farti la medesima domanda: voi l’avete, questa cosa, sviluppata specialmente nel lavoro o proprio perché già l’avevate siete sopravvissuti? Non capire quando un cane sta per mordere prima che lo faccia è di solito una cosa che permette una seconda esperienza, se si tratta di un uomo armato invece può non essere così.

-Chi può dirlo caro Bruno, un altro giro sulla giostra della vita ci vorrebbe. Sai, da bimbo andavo d’estate dai nonni, al sud, nella zona di Bielsko-Biala ed i filari di luppolo sono stati testimoni di gran parte della mia infanzia, che si svolgeva tutta in quei due mesi di vita sconfinata, vorticosa, il resto dell’anno vivendo come in magazzino, aspettando. E non ho mai saputo che si potessero mangiare!

-D’estate sono troppo duri, ma senz’altro in primavera… Per lo meno, in tutto il nord-Italia so per certo che si consumano e mi sembrerebbe strano che proprio voi che li coltivate… Bene ora li scottiamo qualche minuto in acqua bollente e poi li passiamo in padella con uno spicchio d’aglio, tra un attimo: in tavola! Sarà meglio chiamare Anton.

In quel momento proprio lui compare con una borsa di paglia piena di cime di luppolo, le appoggia con cura sulla tavola della cucina e come borbottando tra sé: -Ci controllano, ne ho individuati tre ma con ogni probabilità sono quattro, nascosti nel bosco con i binocoli.- Si avvicina al telefono, lo porta all’orecchio e guardandoci scuote la testa.

-È isolato, ho già provato il cellulare e dà solo scariche; te lo avevo detto di prendere un satellitare, con questo basta un disturbatore multi-frequenze.

-Ma pensi che cerchino noi o Bruno?

-Me?

-Pensavi di potere lessare Turi Mazzone e di passarla liscia Bruno?

-Proprio liscia non direi… -Rispondo carezzandomi la cicatrice; mentre una sensazione di disagio mi percorre tutto, interviene Orlov.

-Brando sono perplesso: l’organizzazione è tipica dei servizi, ma le facce e i vestiti sembrano italiani. Il risultato è: servizi italiani; ma non vedo il nesso né con noi né con Bruno.

-Se stanno ancora raccogliendo informazioni dovremmo avere almeno un’ora, quindi mangiamoci queste uova finché sono calde, Bruno che ne dici? Intanto Anton attiva l’allarme anti-uomo a perimetro massimo ed il generatore. D’accordo?

-Ciok güsel.- Mormora Orlov uscendo.

-Sarà meglio apparecchiare qui in cucina così avremo a portata di mano l’allarme e potremo vedere il video delle telecamere esterne.- Suggerisce Brando con la consueta nonchalance e comincia a distribuire piatti e posate sul grande tavolo in muratura che campeggia in mezzo alla spaziosa cucina.

Le uova, deposte su un sottile letto di raspadüra[3], nei nidi di luppolo che ho predisposto in padella a fuoco vivo, con un filo d’olio in cui appena s’indora uno spicchio d’aglio, ora riposano, coperte, a fuoco spento. Il sale si scioglie nelle goccioline di vapore che su di esse si condensano, ma a testimoniare che non mi sento per nulla tranquillo, due tuorli su sei mostrano i segni di una parziale disfatta.

-Chi sarebbe quel Turi Mazzoleni che dicevi, Brando?

-Turi Mazzone, M-a-z-z-o-n-e. È quello che ti ha sparato, Bruno; è un killer della mafia e tu gli hai fatto perdere un buon contratto, ma soprattutto la faccia, e questa è una cosa che difficilmente manderà giù. Non voglio spaventarti ma è anche per questo che ti abbiamo invitato qui, visto che in ospedale non eri neanche piantonato.

Seduti, aspettiamo Orlov. Ciok güsel, ciok güsel… cosa voleva dire? Ah sì: çok güzel, molto bene, molto buono, in turco. -Brando ma dimmi un po’ Anton è di origini turche?

- È una strana storia la sua: il padre era turco, la madre greca, minacciati da tutte e due le comunità, approfittarono degli sconvolgimenti seguiti alla seconda guerra mondiale per farsi una nuova identità, stabilendosi in Bulgaria. Lì, nella Strangia, al confine con la Turchia europea, il padre continuò tutta la vita a fare il bracconiere a cavallo dei confini. La madre, nel timore di tradirsi, appena erano giunti nel paese, la prima volta che il marito si allontanò per la caccia, si tagliò un gran pezzo di lingua e da allora non parlò più. Il padre di Anton allora si mise con impegno a studiare il greco e con la moglie sempre parlò nella, di lei, lingua natale; così fece anche con il figlio, che nacque dopo un poco, sperando, in questo modo, di alleviare la solitudine della sua compagna; solo in qualche occasione di particolare emozione gli sfuggiva di parlare turco. Così ora anche ad Anton, quando è teso, a volte sfugge qualche parola turca. Ti ho raccontato tutto questo perché per me è un esempio meraviglioso di un amore senza tempo, ma per favore non farne cenno con… Oh eccoti! È tutto in ordine? I nostri sorveglianti sono ai loro posti?

-Sì, ma la faccenda mi puzza. La disciplina nel mantenere il posto, camicia e cravatta per nascondersi nel bosco, lo stesso modello di binocolo per tutti, per lo meno da quello che sono riuscito a vedere. Tutto fa pensare ai servizi, ma le facce e soprattutto le cravatte sono italiane. Cosa possono entrarci i servizi italiani in tutto questo? Al limite la polizia potrebbe fare una sorveglianza a Bruno usandolo come esca nella speranza di prendere Mazzone, ma questi sono servizi, non ci piove.

-Beh, intanto, fino a che non avremo nuovi elementi, ci conviene cercare di capire se questo Grignolino scelto da Bruno ben si accoppia alle uova…

-In nidi di luppolo, Brando. Anche se veramente questo nome lo avevo coniato per un piatto diverso, più delicato, un piatto da servire freddo, come antipasto; i medesimi germogli di luppolo lessati e disposti a nido, con un mezzo cucchiaio di maionese nel centro e tre piccole uova di quaglia, sode naturalmente.

Il bulgaro ed il polacco mangiano in silenzio i primi bocconi, solo io continuo a guardare il video su cui scorrono le immagini delle telecamere esterne. Anton annuisce pensieroso nella mia direzione, mentre sorseggia il vino. Brando mantiene un’espressione dubbiosa; sono convinto che reciti, ma voglio dargli soddisfazione, così, per distrarmi.

-Beh, cosa ne pensate?

Orlov si pulisce la bocca e sembra che debba concentrarsi un momento prima di rispodermi: -Sai Bruno credo di aver mangiato una cosa simile quando lavoravo a Trieste, li chiamavano ruscattoli o qualcosa del genere… Eccellenti, veramente eccellenti.

Ma non lo ascolto più sul video succede qualcosa. -Guarda c’è del movimento… no, adesso ha cambiato inquadratura, aspetta…

-È vero, c’è movimento, deve essere arrivato qualcuno. -Conviene sottovoce Anton.

-Dai un’occhiata agli strumenti, vuoi?.- Interviene Brando, e mentre Orlov si siede alla consolle dei sistemi di controllo, rivolto a me:- Veramente gustosi, e delicati al medesimo tempo, ma sull’accostamento con il vino ho qualche riserva, forse un bianco sarebbe stato meno invadente…

Ho il sospetto che stia cercando di distrarmi dal video, ma questo è troppo: – L’accoppiata con il vino? Ma come, per una volta che scelgo un rosso… Anch’io generalmente ho una propensione per i bianchi, con le uova in particolare, ma l’aglio ed il grana non mi sembravano adatti ai Traminer aromatici o ai Bianchi del Reno e della Mosella che affollano la vostra cantina; ecco: un Corvo o un Locorotondo… Ovviamente con la ricetta originale anche il vino era diverso di solito ci accoppiavo del Gavi, ma mille altri sarebbero andati bene ugualmente…

-Se ne sono andati tutti.- Interviene mormorando Anton, preoccupato.

-Bene allora propongo di assaggiare l’accostamento dei luppoli al Roero Arneis che ci ha mandato il Club la settimana scorsa. Ti spiace andare in…

-Ma perdio non ti reggo più! Ti ho detto che se ne sono andati!- Poi Orlov si volta verso di me e, contenendosi ma sempre teso. -Ci sono due possibilità: primo, i servizi erano interessati alla tua ricetta, ora la conoscono e sono soddisfatti, secondo, hanno raccolto le informazioni logistiche necessarie per il gruppo che farà il lavoro sporco e che arriverà a breve… Stappiamo una bottiglia di moscato per festeggiare?

-Forse hai ragione e forse no, ma per rispetto al nostro ospite dobbiamo pensare al peggio. Andiamo in cantina e facciamo uscire il furgone vediamo se si scoprono.

L’ascensore che ci porta in cantina è un gioiello in ferro battuto e ottone, smontato da una vecchia casa di Praga prima della demolizione: tra il liberty e il deco.

Orlov si accosta alla porta della cella frigorifera ma invece di aprirla la solleva e tutta la cella sale di un metro e mezzo. Sotto si vede uno scivolo che percorriamo piegati e ci troviamo in una piccola stanza con due letti a castello su un lato, le altre pareti sono coperte da una specie di serrandine metalliche. Brando, manovrando con perizia la sua carrozzina si accosta ad una di esse e la apre; dentro, tre schermi più grandi sono disposti a semicerchio, sopra quello centrale ce n’è un altro più piccolo, sotto, una specie di cruscotto, come nelle sale giochi e, mentre Orlov torna indietro, dopo avere spento le luci e richiuso l’ingresso nascosto:- A te l’onore di guidare la nostra fuga virtuale!- Annuncia sorridendo il polacco manovrando diversi pulsanti.

Orlov coglie il mio sguardo perplesso: -No non è ancora impazzito del tutto. Ha attivato un furgone radioguidato con un manichino alla guida, lo faremo uscire per far credere che stiamo scappando, se ho ragione usciranno allo scoperto.- Così dicendo estrae uno sgabello da sotto il pannello di controllo e si siede.

Io guardo gli schermi un po’ scettico, mi aspetto che da un momento all’altro mi dicano: “Cipperimerlo, ci sei caduto pistola!” ma su di essi compare l’aia assolata, poi la stradina, il cancello che lentamente si apre. Non è di sicuro uno scherzo. Ancora qualche centinaio di metri di strada sterrata poi la provinciale ci attende. Anton si ferma un momento e controlla tutti gli schermi prima di affacciarsi fuori del bosco per l’immissione sulla strada asfaltata, poi con un’accelerata violenta esce ed ha già le ruote anteriori sulla strada quando un sobbalzo muove il mondo e lo fa rovesciare.

-È stato un lanciarazzi, da destra.- annuncia Brando, poi, concitato: -Presto fai saltare il furgone!- e appena l’altro ha eseguito -Non dire niente, avevi ragione…- termina mormorando. Posa una mano sul ginocchio di Orlov, lo stringe un momento, poi lascia la mano aperta nel gesto del chiedere e subito l’altro la prende tra le sue, la porta alla bocca e la bacia un momento.

Gli schermi friggono, la trasmissione è finita; il momento di intimità anche.

-Abbiamo pochi minuti- annuncia Boitani -quando si potranno avvicinare ai resti del furgone si accorgeranno che non c’eravamo e attaccheranno la casa, ci conviene lasciare tutto aperto per far credere che siamo scappati e invece nasconderci nel pozzo. Che ne dici Anton?

-O.K. Prendo le corde, voi intanto chiudete e preparate una borsa coi viveri.

Seguendo le istruzioni di Brando chiudo la “cabina di regia”. -Ma come mai non restiamo nascosti qui che mi sembra attrezzato?

-La risposta è: il lanciarazzi. Se decidono di saggiare le cantine facciamo la fine del topo, si dice così, no?

-Ma nel pozzo non è uguale?

-Non ho tempo ora di spiegarti, vedrai… Ma spicciamoci, andiamo in cucina.- E intanto che spingo la sua carrozzella mi chiedo se quelli là fuori cerchino me o loro, preferirei che cercassero loro, sono più abituati, mi dico, a questa vita da prede. Poi mi pento, mi hanno invitato pensando che fossi in pericolo… Penso anche a Nilde che fa la stessa vita braccata e a mia madre, a mio padre, ad amici e fratelli. Potrei fare una vita alla macchia, una vita randagia, senza mai potermi fidare? Un tempo avrei risposto, sicuro, che in ogni terra avrei trovato la mia terra e, affondate solide radici, avrei steso i miei rami al sole. Oppure avrei detto che mai niente mi avrebbe allontanato dall’humus fecondo in cui ero germogliato. Ma la maturità mi aveva dato la capacità di dubitare, di tutto.

-Ferma, ferma!

-Sì scusa ero soprappensiero- torno indietro di qualche passo ed entriamo in cucina, qui seguendo le sue indicazioni in pochi secondi riempio una borsa di viveri. Orlov ci raggiunge con due sacche in pvc ed una bracciata di imbraghi e di tute. Pigiamo i sottotuta di pile e le mimetiche in una sacca, nell’altra il cibo e indossati gli imbraghi corriamo fuori, io porto le borse, Orlov regge tra le braccia Brando.

* * *

Siamo scesi sul fondo del pozzo in corda doppia, senza problemi. Brando è sceso dopo di me, lo ha calato Anton ed io l’ho aiutato a stare a galla finché non si è tolto l’imbrago; poi, nell’acqua gelida, mi è sembrato molto più a suo agio di quanto mi aspettassi, per lo meno più di me, che dopo pochi secondi tremavo come un levriere italiano. A meno di un metro sotto il pelo dell’acqua ,un breve cunicolo orizzontale ci ha condotti in una specie di tondeggiante piscina sotterranea, completamente buia. Con qualche bracciata siamo arrivati, gelati, ad una banchina di qualche metro quadrato appoggiata ad una piccola nicchia scavata nella parete di roccia.

Orlov in pochi minuti ci ha organizzati. Asciutti e vestiti abbiamo fatto ipotesi sull’origine di quel manufatto che loro hanno scoperto ripristinando il pozzo: cisterna per l’acqua piovana? Ma il clima della zona non sembra esigere cautele del genere… È vero che quel versante della collina non ha sorgenti, contrariamente a quello opposto, quindi forse si giustificherebbe… Ma perché nasconderne così bene l’esistenza?

* * *

Sto sorseggiando un delicato tè russo con il quale sono deliziosi, a sentire Brando, dei biscotti morbidi, di segale, al miele, ricchi di spezie, tipici della Transilvania ungherese, intanto, pensandoci, ci scotenniamo un salamino piccante e delle gallette del Cementificio Italiano.

Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

Nel buio, dopo quella sulla pasticceria, Brando prova ad avviare una conversazione sullo scenario economico europeo nella prospettiva di un allargamento della C.E.E. ai paesi ex-socialisti, ma pian piano si deve arrendere e le gocce sonore tornano padrone del tempo, libere di espandere la loro eco da una parete all’altra.

* * *

Le ossa protestano dopo quattro ore su questa pietra sbozzata e, nel silenzio che è sceso tra noi, la caverna sussurra, non è più solo un gocciolare corposo; cigolii, brevi ansimi, gorgoglii, impastati di eco e coi nostri respiri sono quasi frasi smozzicate, che si rincorrono lungo le pareti, mentre la vescica tesa mi dà un dolore diffuso, maledetto tè.

-Cerco rifugio presso il Signore degli uomini,- Brando interrompe il rosario incessante della cisterna. -il Re degli uomini, il Dio degli uomini, contro le malvagità del bisbigliatore che si ritrae, che bisbiglia nei cuori degli uomini, contro i ginn e contro gli uomini.

-Bene siamo arrivati ai quiz a quanto pare. Ma il premio? Un materassino?- Sono caustico e non dovrei, in fin dei conti lui è più scomodo di me: non può neppure appoggiarsi alle gambe per distribuire il peso.

-Sûra centoquattordici o sûra degli uomini, è con essa che si chiude il Libro.- Orlov ha parlato con un’ombra di rispetto nella voce.

-Ragazzi- e mi alzo in piedi -mi dispiace distogliervi dalle vostre discussioni teologiche, ma che sia il bisbiglìo o il the, io devo pisciare, non ce la faccio più!

-Con tutta quest’acqua di cosa ti preoccupi? Non sarà il tuo mezzo litro a farci venire i reumatismi. Che ne dici Anton?

-Sì ma poi ci dobbiamo nuotare…- obietto debolmente. Qualcosa mi tocca la spalla, è Orlov: -Tieni usa questa.- La bottiglia vuota dell’acqua.

-Grazie.- La stappo e mi accingo…

… ma l’idea che mi sentano mi ha congelato…

… anche nei cessi pubblici mi succede così, se c’è qualcuno vicino… ahaaaaaaaa.

* * *

Sono stato il primo ad usare la bottiglia, ma non l’unico. Mi sembra che questa esperienza debba cambiare qualcosa nella nostra amicizia, che finora ha corso sui leggeri pendii dei comuni interessi, sotto la lieve brezza dell’ironia e del disincanto; intanto, per certo, ho scoperto degli aspetti della personalità di Orlov che non conoscevo, una delicatezza ed un’attenzione per gli altri che non emergono facilmente dalla scorza di ruvida amichevolezza che mostra abitualmente.

Un altro spuntino, tanto per ingannare il tempo; ma io mi tengo leggero: non so come me la caverei a cagare in bottiglia.

-Chissà la casa, se la distruggeranno…- Il tono quasi doloroso di Orlov mi stupisce, sembrava tanto poco interessato alla casa e all’arredamento, tanto che Brando si sfogava a parlarne con chiunque gli desse retta.

-”Tenere la ciotola colma- Sussurra Brando nel buio cambiando posizione

-è meglio rinunciarvi,

lama battuta e affilata

a lungo non dura,

tesoro d’ori e di gemme

nessuno lo conserva,

chi ricco e potente diventa superbo

verso la rovina si avvia,

ad opera compiuta, a nome formato,

ritrarsi è il dettame del tao.”-

-Fanculo, ormai sarà buio pesto- più che irato è stanco il tono di Anton adesso -è ora di muoversi, prima che il nostro filosofo ci spappoli il cervello con i suoi vibratori mentali. Cazzo! La stessa citazione te l’ho sentita fare in dieci occasioni diverse.

-Ma scusa- intervengo -Prima mi sembravi d’accordo con la citazione del Corano, è solo il taoismo che ti dà noia?

-No, quello che mi dà noia è che questo pirla non si lasci mai andare a mostrare le sue emozioni; a tutto deve sempre trovare antidoti intellettuali, speravo che finito il lavoro finissero anche le sue pose, invece è peggiorato, sembra il paginone culturale di Repubblica.

Brando tace e nel silenzio che segue comincio a sentire Orlov che si spoglia. Che faccio mi spoglio anch’io, si esce tutti? Ma come saliamo? Ci mancavano anche i problemi di coppia. D’altronde per Brando rimanere paralizzato dev’essere stato un bel colpo, se non prendi un po’ le distanze dalla vita e dalle emozioni come incassi?

L’avvicinarsi dell’azione sta calmando l’irritazione di Anton, sento, dai rumori, che si muove più attento e la sua voce quando riprende a parlare è quasi normale.

-Sei pronto? Io vado, tu seguimi tra un minuto. Ah dimenticavo: vicino all’uscita dalla cisterna troverai un tubo, portalo fuori con te.- E il bulgaro s’infila in acqua senza quasi un’increspatura.

Brando lo segue con la luce della torcia mentre attraversa la cisterna e poi mentre cerca il cunicolo. Il raggio di luce mi indica la meta così la mia traversata è diretta, ma quando arrivo tremo come un cartone animato. Un tubo massiccio è appoggiato alla parete, l’afferro, prendo fiato tre volte e contraggo tutti i muscoli di cui mi ricordo per scaldarmi, poi passo. Dev’essere già alta la luna, un chiarore cinereo cola lungo il pozzo. Orlov è già a metà strada; sale regolare, le gambe divaricate fanno pressione sulle pareti mentre con le braccia solleva, obliqua, una sbarra che poi incastra quasi orizzontale tra le pietre ed afferrandosi ad essa si alza con un movimento fluido, poi di nuovo allarga le gambe e appoggiandosi ad esse disincastra la sbarra e solleva le braccia… Se cade mi sfracella. Devo imitarlo se non voglio morire di freddo.

* * *

È stato più facile di quanto credessi, ma ora sono accucciato, tremante, nell’ombra di un sambuco, nudo come un verme, in preda a un attacco di diarrea, non mi sono neppure accorto quando ho perso le mutande e comunque non farebbero una gran differenza… Brando, beato lui, se ne sta tranquillo e vestito ad aspettare nostre notizie, per un istante lo invidio, poi rifletto: se succede qualcosa a noi nessuno sa che lui è laggiù… Se Anton non si fa vivo subito mi metto a correre, non resisto più. Il suo richiamo mi libera dall’immobilità e mi proietta verso casa. Lo trovo fermo davanti alla porta che osserva tre strisce di carta gommata piene di timbri e di firme. Hanno posto sotto sequestro la casa!

* * *

Una settimana dopo, davanti al camino acceso siamo in quattro ed aspettando il quinto sorridiamo dell’avventura passata. Dopo esserci bene accordati sulla versione da fornire, Brando ed io abbiamo chiarito con la polizia ed il magistrato la situazione, mentre Orlov fingeva di non capire l’italiano; solo, vorrei sapere perchè, mentre io ho passato quattro ore in questura a rispondere a poche domande, ma ben ripetute, Brando se l’è cavata in mezz’ora. Evidentemente non so rispondere.

A quanto pare siamo stati salvati dall’operazione “boschi puliti”: una carovana di camion che andava a caricare la spazzatura raccolta dai volontari è passata dall’incrocio dove stava bruciando il furgone telecomandato, si sono fermati e hanno chiamato i soccorsi, gli attaccanti si sono subito defilati prima ancora di arrivare alla casa, che la polizia ha sigillato solo perché, battendo la zona alla ricerca di testimoni, l’hanno trovata aperta e deserta.

Io non partecipo molto alla conversazione, il polacco mi ha consigliato di lasciar parlare lui; e lui ammannisce una versione ironica e colorita del resoconto fornito alla polizia, senza nessun riferimento al nascondiglio nel pozzo. Un segreto che si sappia in quattro è una leggenda, mi aveva avvertito Anton prima di rivolgerci alle autorità. Così tra una fetta di panpepato al cioccolato e un sorso di Recioto di Gambellara, si parla di fuga nei boschi e di capanne di boscaioli; anche Anton sorseggia in silenzio, annuendo e sorridendo a proposito. Questo signor Giorgio e basta, consulente della DEA (ma lui non deve sapere che io so), sembra l’anziano pensionato che fa il fattorino per la mia assicurazione e come lui sembra saperla lunga sulla vita, non credo che se la sia bevuta, ma non ci fa caso.

Finalmente arriva anche l’atteso Claudio e dopo qualche cazzeggio si comincia a parlare di cose serie.

Giorgio, con questa sua faccia complice, ci riferisce che Mimì “u verru” ha messo una taglia di cento milioni su tale Beatrice Ramondini: morta. Intanto Turi Mazzone, il killer che doveva ucciderla, si è messo sulle mie tracce per prendere due piccioni con una fava: primo, è convinto che io sappia dov’è questa Ramondini e vuole finire il suo lavoro, secondo, vuole farmi la pelle perché ha perso la vista da un occhio a causa dell’acqua bollente.

Così è questo il suo nome: Beatrice Ramondini. Non è che mi faccia impazzire… vuoi mettere Brunilde Montorsi, come aveva detto di chiamarsi quando si presentò. Ma sento che la mia colite si sta risvegliando, questo Mimì non è quello che dava da mangiare i suoi nemici ai maiali e poi mandava i prosciutti alle famiglie? Dovrei fare un giro al cesso, ma non voglio perdere qualcosa.

-Ma come mai a preparare l’attacco sono stati elementi dei servizi italiani?- Si informa con nonchalance Orlov.

Su questo, a detta di Giorgio, pare che stia per scoppiare un caso: un intero reparto, con le attrezzature più sofisticate in dotazione, si offriva sul mercato al miglior offerente; ancora non si sa se facessero solo operazioni di preparazione logistica, o se partecipassero anche ad altro… certo che essere salvati dai boy scout… e a questo punto ride guardando i miei ospiti dal basso con la testa china, filtrando lo sguardo tra le folte ciglia, per un istante sembra levare un cartellino giallo: ammonito!

Il secondo ospite, un giornalista addentro alle questioni di mafia, mi aveva spiegato Brando, interviene nell’istante di silenzio come se da un poco lo aspettasse.

-È in corso una lotta violenta, diretta e indiretta, cioè non solo per eliminazione fisica, ma anche con delazioni anonime e attraverso l’uso di pentiti; la posta è il controllo delle attività turistiche in Lazio e Toscana, non solo come investimento ma soprattutto per il lavaggio del danaro sporco che sta diventando sempre più costoso e difficile far transitare dai più classici paradisi fiscali. In questo contesto vari soldati della famiglia Mazzone sono scomparsi in questi ultimi giorni e “u verru”, che dapprima aveva sottovalutato i pericoli della nuova situazione, in seguito anche alla defezione della famiglia Pattanisi, pare, PARE, che abbia cambiato le priorità, riorganizzando il nocciolo duro dei suoi fedeli per attaccare le famiglie che fungono da collegamento tra il centro della nuova organizzazione ad Augusta e la periferia, in modo da disarticolarla prima di colpirla al centro. Perciò credo che lei e la sua fidanzata possiate prendervi un bel periodo di vacanza, magari all’estero, senza problemi di nessun tipo.

-Già, ma io non ho la più pallida idea di dove sia, non sapevo neppure come si chiamasse fino a mezz’ora fa, pensi che è stata mia dipendente per un anno senza che io sospettassi niente e riguardo al fatto che sia la mia fidanzata, bisognerebbe che almeno lei lo sapesse; io l’ho conosciuta come una cicciona di mezz’età fino a dodici ore prima che scomparisse.

-Ah ma dunque lei non era la sua guardia del corpo… sono queste le voci che circolano, già ma forse le ha messe in giro a bella posta Turi per non fare troppo brutta figura…

Si discorre ancora un poco di quello che si dice ed io mi sento rincuorato: se un killer mi ha preso per una guardia del corpo, insomma non sono ancor pronto per la discarica. Sulla mia lapide: fu al suo meglio quando gli toccò morire. A scherzarci sopra mi passa anche la colite. Intanto, tra una chiacchiera e l’altra, si è fatto tardi e i nostri ospiti si accomiatano.

Appena chiusa la porta Orlov e Brando si scambiano un’occhiata e un sorriso e mentre il primo passa con un rivelatore di congegni elettronici la poltrona del giornalista e i suoi paraggi, il secondo controlla con la telecamera esterna i nostri ospiti fino a che si chiude il cancello dietro di loro.

-È tutto pulito Brando,- fa Anton ad alta voce, poi rivolto a me chiede :-Non è andato in bagno vero?

Io sono rimasto sul divano e, chino in avanti, recupero tra le fessure dell’antico tavolinetto le briciole di hashish che George ha lasciato, confezionando quel cannone da una spanna che poi non passava mai.

-Hai colto una parte dei paradossi della serata: l’uomo dell’antidroga ce l’ha portata! Non ho potuto spiegarti tutto prima, perché temevo che non saresti stato naturale: abbiamo convocato un esperto di mafia non per sapere, ma per far sapere che tu non sai dov’è la bella Nilde.

Faccio l’imperturbabile e continuo a raggranellare briciole dalle fessure e dagli intagli con la mia piccola pattada, finche vedo un’ombra di preoccupazione per il tavolino negli occhi di Brando e butto lì: -Tu invece lo sai, vero?- Proprio mona quel George, ci sarà mezzo grammo di nero sul tavolino, va bene che non l’avrà pagato… Capita di rado che io riesca a prendere in contropiede il polacco, e quando mi succede mi gusto quel secondo di stupore nel suo sguardo; per quanto sia un amico, sa così tante lingue ed è sempre così pronto a tutto, che il mio amor proprio non mi permetterebbe di frequentarlo senza queste piccole soddisfazioni.

Orlov, con quell’aria assente che gli riesce tanto bene che ci si dimentica di lui, sta facendo sparire le tracce degli ospiti quasi con accanimento, come fossero stati sporchi o infetti; ma un sorriso leggero, che non si saprebbe dove localizzare sul suo viso di granito sbozzato, squarcia il velo della sua assenza. Ci scambiamo, un istante, uno sguardo complice.

Era un po’ che non fumavo, mi sto perdendo nelle sfumature, o si dilata il tempo?

-Come hai fatto a capire che so dov’è la tua assistente?- interviene Brando interrompendo le mie riflessioni -Non dirmelo, ho sbagliato mettendo il tu quando poteva essere sottinteso e tu l’hai ben interpretato.

-Boh. Forse. Si mi sembra che in italiano, parlando, sovente si sottintenda il verbo… Ma non saprei spiegarti: è stata una sensazione. Ma dov’è Nilde?- Mhmm dovrei chiamarla Beatrice ora che finalmente conosco il suo nome ma proprio non mi viene.

-In un paese della Carnia, dov’è ospite di un maresciallo dei Carabinieri; ufficialmente è una sua nipote che deve rimettersi da un esaurimento nervoso.

In poche battute Brando mi aggiorna sulle informazioni che hanno ottenuto. Mi sembra di cogliere un certo compiacimento nelle sue parole e la cosa mi irrita un poco, per lui tutto è un gioco o una sfida. Se loro con un paio di milioni ci sono arrivati… Non finisce la frase ed io non lo aiuto, Anton sta shakerando alcool della Carlo Erba con latte di cocco e ghiaccio, io ho finito di confezionare un cannino e me lo accendo. Così tra fumi reali e metaforici cominciamo a mettere a punto un piano per verificare la sicurezza della copertura di Nilde. E mentre si parla la sua presenza si fa più viva e vicina, il desiderio della sua testa appoggiata al mio petto si alimenta della brevità per cui vi è rimasta; mi sembra così lontano e felice il tempo in cui stavamo insieme in negozio, con una consapevolezza incompleta uno dell’altra. E poi una sensazione di vuoto alla pancia, la prospettiva concreta di rivederla mi ripropone il malessere e la paura dei rapporti consumati dall’abitudine e dai rancori, dalle gelosie e dalla supponenza. Ci fosse almeno un esempio di coppia con cui identificarsi… Ma così perdo il filo dei progetti che si vanno delineando, allora ricapitolando: qualche giorno sul Weissensee, tanto per accertarci che non ci seguano e comunque, per meglio mimetizzare le nostre tracce, noleggeremo poi una macchina austriaca, con cui rientreremo in Italia da un valico diverso rispetto all’andata, per recarci finalmente nel paese dell’Alto Tagliamento dove si nasconde la Nilde, a controllare l’efficacia delle misure di sicurezza. Mi sembra che i miei amici siano proprio curiosi di conoscere finalmente la “mia fidanzata” come dice senza un filo d’ironia il polacco…

* * *

La vacanza andrebbe benissimo se io non fossi diventato da qualche mese vegetariano. Non è che la morte di un vitello mi commuova di più di quella delle venti piantine di basilico che servono per fare una tazza di pesto, ma la correlazione tra Encefalopatia Spongiforme Bovina e sindrome di Creutzfeld-Jacob mi ha costretto a correre ai ripari, non vorrei mai che qualcuno si commuovesse sulla mia sorte. Vedo, andando a trovare mia madre nel ricovero che la ospita, le manifestazioni delle più diverse cause di demenza senile e nessuna mi alletta, ma quasi tutte danno dei momenti di quasi lucidità: sporadici, fasulli, ingannatori, ma che pure aiutano i parenti ed i volontari a trovare un senso al loro prodigarsi. Quasi tutte, non la C-J.

Anton e Brando se ne fregano della mucca pazza o meglio, forse, Brando se ne frega e Anton lo segue, come lo seguirebbe all’inferno, per cui mentre io continuo a mangiare insalate e patate lubrificate con il limpido olio che usano da queste parti, loro ingollano teneri arrosti e aromatici stracotti e spezzatini guarniti e croccanti Wienerschnitzel; stronzi!

Per fortuna ci sono la birra di grano e le trote (saranno di allevamento? gli daranno mangimi di origine bovina? mi sa che divento vegetariano integrale…) e in qualche modo evitando le insidie del menù, passano i tre giorni che ci eravamo dati per scoprire se siamo controllati.

* * *

Il paese, assestato su un poggio morenico all’imbocco di una convalle, è piccino, le case né antiche né nuove, la strada lo percorre tortuosa e stretta senza un chiaro perché. Intorno all’abitato pascoli e boschi, recinti scarsi. Abbiamo percorso una piccola strada lungo una valle meravigliosa per venire fin qui, l’abbiamo allungata ma anche Anton e Brando ne sono entusiasti e progettano future vere vacanze da queste parti.

L’albergo dove siamo alloggiati è pulito e ordinato e sconsolante. Come le sue colazioni. Gli altri turisti sono quasi tutti anziani o mamme con neonati con neononna al seguito.

La situazione logistica di Nilde sembra buona: la palazzina dove abita è alla sommità della collina, circondata da qualche metro di giardino recintato ha davanti un piazzale, contornato da poche case basse. Alle spalle della stazione dell’Arma, il campo sportivo occupa l’unica spianata del paese. Il piano terreno dell’edificio ospita gli uffici, il primo piano gli alloggiamenti dei carabinieri di leva; al secondo piano, nell’appartamento del maresciallo-zio, ha una camera Nilde. Non è possibile avvicinarsi senza essere visti, né si può sparare a qualcuno al secondo piano a meno che si affacci alla finestra.

I giorni passano lenti, quasi ogni pomeriggio piove; la nostra sorveglianza non ci ha evidenziato crepe nelle misure di sicurezza e questo ci rassicura, ma allo stesso tempo un poco ci delude, non siamo mai riusciti a vedere Nilde, neppure passare un momento dietro le finestre… sarà poi vero che sta qui?

A forza di scherzarci su credo di avere instillato il dubbio anche in Brando; così dopo una settimana decidiamo che non c’è sugo a rimanere, oltretutto i ristoranti della zona sono poco meno che deprimenti.

Nell’aria tiepida della mezza mattina stiamo facendo colazione davanti all’unico bar che ha brioches di pasticceria, i bagagli sono pronti, non ci rimane che caricarli e partire. Ma una carovana di giostrai arriva in paese scorrendoci davanti con i camion carichi delle loro strutture colorate e tutto si ferma davanti a noi perché un autotreno non riesce a fare la curva per imboccare la traversa che porta al piazzale della caserma. In un momento l’aria si riempie dei fumi dei diesel, di grida, di gente che sale e che scende dai mezzi bloccati; propongo di andarcene ma vedo che i miei amici sono intenti ad osservare quel movimento e non colgono la mia insofferenza. Poi inaspettatamente Brando mi chiede di accompagnarlo a fare un giro mentre Orlov caricherà la macchina, poi controllerà il piazzale davanti alla caserma dal bar-tabacchi che gli sta di fronte.

-Non ti preoccupare- scandisce con cura il polacco – È solo un sospetto ma visto che siamo qui sarebbe stupido non approfondire.- Orlov annuisce e si china a togliere il freno di destra dalla carrozzina, Brando lo toglie a sinistra e a me non rimane che mettermi a spingerla. Se almeno avessimo portato quella a motore! Su queste salite gli ottanta chili di Boitani minacciano di travolgermi da un momento all’altro, ma vedo che lui sfiora con le mani le ruote, evidentemente sta pronto a bloccarle.

Facciamo un giro largo e arriviamo sotto un noce, dove una panchina solitaria costituisce la tribuna d’onore dello “stadio”; strada facendo abbiamo preso un paio di giornali ed ora Brando legge la Bild Zeitung come se ne dipendesse la sua vita.

Proprio alle spalle della caserma crescono in fretta l’autoscontro e la giostra di seggiolini volanti: calcinculo lo chiamavamo da bimbi d’estate sulle spiagge d’Abruzzo ed era una parola sola per me e a lungo tale rimase, ha altri nomi l’ho sentito, ma nessuno mi rimane nella mente più di un giro, forse due.

Non sono arrivato alla metà del mio Corriere che già Brando ha finito e mi propone un giro del campo prima di andare con Orlov a pranzare.

Frico[4] e insalata per la quinta volta in otto giorni. Oramai l’entusiasmo per la novità ha ceduto il passo ad un interesse per le sfumature, per il confronto; mi consola solo il vedere che anche i miei amici carnivori non hanno a loro disposizione una gran varietà.

Appena quelli del tavolo vicino si alzano Anton ci informa, con aria preoccupata, che alcuni dei nuovi arrivati hanno girato ben bene il paese perlustrando in particolare le strade che, dal parcheggio antistante la caserma, portano verso la statale di fondovalle.

Anche Brando è del parere che si stia preparando un’azione, decidiamo perciò di prendere una camera doppia per la notte e di organizzare dei turni di guardia e di riposo tra me e Orlov; per fortuna mi tocca il riposino. Le camere che avevamo, le più belle, sono occupate: rimane una stanza stretta con i letti in fila ed un bagno sacrificato con un gradino sulla soglia. Brando viene in camera con me, lo vedo scrivere, nella penombra, sul tavolino vicino alla finestra, fino a che mi addormento.

Mi sveglia verso le sei il vento che forse annuncia un temporale, ancora il polacco sta scrivendo, appena sono in piedi mi chiede, con un’aria quasi contrita, se per piacere posso accompagnarlo in bagno perché da solo, chiaramente, non riesce ad entrare.

L’appuntamento con Anton è alle sette; mi preparo ad andarci da solo, sarebbe scarsamente credibile una passeggiata sotto la pioggia in carrozzella. Sono in anticipo e Brando forse cogliendo il mio nervosismo -Sai in questi giorni ho letto di due fatti di cronaca avvenuti l’uno in Italia l’altro in Germania che mi hanno colpito, due omicidi da parte di amanti respinti che mi hanno fatto venire in mente una poesia di Bernardo d’Aleppo, ricordi quel poeta siriaco…

-Certo quello dell’orchidea e del miele…

-Ecco ho provato a darne una traduzione moderna in italiano:

Eri una bella gnocca

diceva mio padre,

eri una bella gnocca

diceva mia madre,

eri una bella gnocca

dico anch’io,

perché non me la davi?

perché non me la davi?

ti ho uccisa perché non volevo

sentire la risposta.

-Fammela leggere un momento…

… Bella! mi commuove!… Sai devo avere letto anch’io il fatto di cronaca che dici e mi colpì proprio come la vicenda sembrasse naturale, semplice: squallida e normale come una frase fatta, come un proverbio.

-Ecco! Bruno sei geniale. Avevo dei problemi con il titolo che nell’originale è un intraducibile gioco di parole. Giovedì gnocca! Come quel vostro proverbio “martedì trippa, giovedì gnocchi”, che ne dici?

-Non sarà troppo leggero?

-Ma è proprio qui la denuncia, si sbudella una come si mangia un piatto di gnocchi, senza neppure pensarci il tempo di una masticata.

-Oh son quasi le sette devo andare. Ciao, a più tardi.- Mi chiudo la porta alle spalle e rifletto che se queste cose le scrivevano nel quarto secolo a.c. probabilmente le pensavano anche i neandertaliani, sconsolante.

-La pioggia è rada, ma il vento la scaglia in raffiche orizzontali che frustano il viso nonostante l’ombrello che si imbizzarrisce tra le mani, lo chiudo; una macchina dei carabinieri scende, con il lampeggiante acceso, ma senza sirena, verso il fondo valle. Il cielo a occidente si va rischiarando e in pochi minuti la pioggia si interrompe, lasciando folate di aria mossa che salgono e scendono, come volessero in fretta asciugare le strade.

Arrivo nel parcheggio davanti alla caserma, ma non trovo traccia di Anton, proseguo allora lungo la strada sterrata che costeggia la recinzione della caserma, a sinistra una casa bassa continua sul retro con pollaio e fienile, a destra, dietro alla caserma, i giostrai stanno ancora lavorando, il calcinculo è quasi completo, ma del bulgaro nessuna traccia.

Sto per tornare indietro quando sento fischiare debolmente una musica. Cos’è? Sembra la marsigliese, ma non del tutto. Viene dal fienile, si interrompe un momento e poi riprende, ecco! È la marsigliese del lavoro! Dev’essere Orlov, è appassionato di inni e giusto un tre o quattro mesi fa gli ho regalato una cassetta di inni anarchici. Getto uno sguardo intorno prima di entrare nel cortile e dopo un attimo sono dietro un muro di balle di paglia, al pianoterra del fienile, il bulgaro atterra silenzioso davanti a me e concitato mi spiega che non c’è un momento da perdere.

-Bruno, i cinque che perlustravano il paese stamani sono rientrati al campo e si sono chiusi in una roulotte insieme con quello che sembra il capo dei giostrai, poi due sono usciti e dopo una decina di minuti è partita una pattuglia di carabinieri, secondo me l’hanno chiamata da qualche parte con un falso allarme. Da quello che si può vedere dal fienile, in caserma sono rimasti solo in due. Mi aspetto un attacco da un momento all’altro. Sai sparare?-

-Non l’ho mai fatto…-

-Allora è inutile che ti lasci la mia… Senti non esporti, controlla e basta, io vado a prendere Brando, penserà lui a qualcosa.- E si allontana correndo con la leggerezza di un gatto.

Tra un momento può scatenarsi un attacco alla caserma per uccidere Brunilde, o Caterina che sia, forse se mi giro due volte cado dal letto e mi sveglio, forse non è che un sogno. Un certo movimento intorno al gran fungo del calcinculo richiama la mia attenzione; hanno legato una corda in alto ed ora un camion la tira, cadrà. È caduta.

Comincia un concerto di urla che sembra la battaglia di Algeri. Esco dal cortile come in un sogno, ora usciranno i carabinieri restanti li falceranno sulla soglia. No, stanno già correndo verso di me e mi sorpassano, è inutile che cerchi di spiegare qualcosa, senza neppure pensarci mi metto a correre anch’io; il portone della caserma è spalancato, dall’angolo opposto arrivano due uomini armati, mi butto dentro e me lo chiudo alle spalle. Salgo le scale di corsa chiamando Brunilde, ma al primo piano mi ferma una porta che impedisce l’accesso al secondo, da sotto risuonano i colpi di un mitra e, mentre schiaccio furioso il campanello, sento il portone di sotto cedere con uno schianto. Il piccolo uscio che mi impedisce la strada si apre, mi butto dentro spostando la Nilde e chiudo di corsa, sembra blindato. Non faccio in tempo a fare un sospiro che colpi di mitra e imprecazioni si abbattono sulla piccola porta, trascino la causa di questa tempesta fino al piano di sopra correndo, ma in cima alle scale una donna con una mannaia da macellaio mi guarda con occhi sconvolti. Lascio passare Brunilde che in qualche modo tranquillizza la moglie del maresciallo. Possiamo salire. Corro ad affacciarmi ad una finestra e vedo arrivare la nostra Volvo, si ferma dietro l’angolo della tabaccheria e subito ne scende Orlov che si piazza in modo da tenere sotto tiro l’ingresso e la stradina del fienile.

Si sente sparare sul retro, evidentemente non sono riusciti a sorprendere i due ragazzi di leva. Con uno stridore di gomme arriva una Range Rover, si ferma davanti all’ingresso ne scendono due di corsa, uno porta in mano qualcosa… il solito lanciarazzi! Hanno fatto un investimento e devono ammortizzarlo. Non c’è porta blindata che tenga a questo punto. Un boato scuote l’edificio, mi affaccio alle scale e vedo la luna, manca una sezione di muro di qualche metro, mi sporgo un poco e vedo nella porta blindata un buco di dieci centimetri, evidentemente il razzo ha traversato la porta senza trovare abbastanza resistenza da esplodere ed è esploso solo quando ha incontrato il muro.

Ma Nilde mi chiama alla finestra, Orlov deve aver liquidato l’autista della Rover perché, in bella vista, mi sta facendo dei segni: di scendere dalla finestra sulla stradina che lui mi copre, io capisco così, ma saranno sette o otto metri, anche Bubka, per sei, c’ha il suo bel materassone! Un secondo boato sale alla testa attraverso le gambe prima ancora di arrivare alle orecchie, afferro la mano di Nilde e corro verso la finestra in fondo al corridoio ma la finestra mi cade addosso ed un palo dall’esterno punta ora contro il soffitto. Orlov mi fa cenno di spicciarmi, deve avere divelto l’asta della bandiera in cortile. Ci buttiamo a cavalcioni del palo e scivoliamo a terra in un attimo, Anton sta sparando contro la finestra quando noi ci rialziamo; sembra, dopo i razzi ed i colpi dei mitra, che stia usando una pistola giocattolo, ma un urlo dall’alto mi dice che non è così.

* * *

Non ricordo come siamo arrivati alla macchina, so che le gambe mi tremano e la lingua è impastata. Brando sta parlando al telefono con qualcuno che conosce, in non so quale comando. Orlov guida con prudenza lungo la strada panoramica che percorre le cime. Nilde mi tiene le braccia al collo, la testa è appoggiata alla mia guancia e piange in silenzio come la luna, in questa limpida notte dopo il temporale potremmo tutti essere Pierrot.

-Coraggio amore, è finito tutto- Cerco di tranquillizzarla, ma mentre la accarezzo mi accorgo che anche le braccia ancora mi tremano tutte.

-Ma no, scemo, io piango di felicità, e spero sia appena cominciata.

Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo


[1] Indica nei cani il colore grigio-azzurro dell’iride.

[2] Pianta rampicante perenne comune, allo stato selvatico, in gran parte dell’Italia del nord e coltivato in quantità nell’Europa centrale per aromatizzare la birra, cui conferisce il caratteristico gusto amaro.

[3] Sfoglie finissime di grana padano fresco che si ottengono raschiandolo con un coltello, specialità del lodigiano.

[4] Piccole formaggelle fresche e sottili da mangiare cotte alla piastra o in padella, tipiche della zona.

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Un commento a Peppone di Roccabruna

  1. caterina dice:

    caspita che racconto ricco e completo!
    da vero gourmet.
    non sapevo che il luppolo si potesse anche mangiare.
    che bella ianta che e’.
    e poi gli accostamenti vino-cibo.
    appassionanti!

    bel racconto che necessita molta, mlta attenzione.
    uno scorcio di libro :)

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