La porteuse

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Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

La lucentezza di questo linoleum è abbagliante: vi si specchiano le porte e le luci; perfino le stampe, appese alle pareti, vi fanno una breve comparsa mentre percorriamo a grandi passi il corridoio; il candore delle lenzuola richiama alla mente la neve nel primo mattino. L’intonaco è immacolato e le finestre paiono fatte dell’aria di marzo fresca e nitida che scende sulla città dalle Alpi.

I tovaglioli, simili a lenzuolini, sembrano usciti dalla pubblicità dei detersivi in tivù. Il cibo nei piatti, dietetico e frullato, ha delicate tinte pastello. La tazza nel bagno di mia madre è da catalogo, come il bidè e il lavandino.

In gola e negli occhi si sente, pungente, bruciante, il detersivo-disinfettante che sorridenti generiche distribuiscono su tutte le superfici esistenti, senza smettere l’espressione suadente mentre guardano lo stipite disinfettato o il corrimano.

Sono così soddisfatto di avere trovato posto, sia pure a pagamento, in questo istituto rinomato per la mamma, non tanto vecchia ma “andata”…

Il babbo è contento, la sorella altrettanto. Il posto precedente in cui dovemmo ricoverarla in tutta fretta perché s’era fatta agitata, urlava e piangeva, e non mangiava, e ci aggrediva e sporcava, e non voleva cagare, e non si voleva lavare… Ah sì: il posto precedente puzzava, sì puzzava di ammoniaca, ma no diciamola tutta puzzava di piscio e in terra a volte le scarpe ciacciavano in pozzanghere allungate, interrotte e riprese che finivano ai piedi di una ricoverata, che il più delle volte con espressione stupita, a volte sollevata, si guardava intorno, infine rassegnata a smettere la fuga dal corpo incontrollabile che la tiranneggiava.

In questo nuovo posto posso sedermi sulle poltrone senza pericolo, come di là mi era successo, di alzarmi bagnato.

La mamma ormai non risponde alle domande che con quelle formulette polivalenti:

-Ah si? -Ma davvero? che per tanto tempo ci hanno tratto in inganno sulle sue reali condizioni mentali, facendoci pensare ad una madre particolarmente ironica o disincantata, mentre non si trattava che di un tentativo di mimetizzare la sua incapacità di comprendere e di rispondere a tono.

Ultimamente la mamma mi ha cacciato quando sono venuto a trovarla, tanto da solo che con Orso, mio fratello; ci allontanava con odio e ci spingeva, determinata, alla porta. Così non faceva invece con mia sorella, sono quindi venuto con lei, per vedere come reagisce vedendoci insieme.

-Ecco vedi quella è la caposala che ti dicevo. -Buongiorno!

Sorriso e cenno del capo.

-Ah quella che fa rigare tutti…

-Sì quella che Orso voleva mettergli le mani addosso al primo colloquio.

-Ecco la mamma: è seduta al suo solito posto. Ma è possibile che o sta lì o sta a letto? Con tutto ‘sto po’ po’ di programma settimanale, che tu temevi non si potesse neppure venirla a trovare tanto sarebbe stata impegnata, eccola lì: tutto il giorno seduta allo stesso posto.

Ecco, come ieri, appena mi vede mia madre si adombra, poi si alza per venire a spingermi fuori e con che aria incazzata!

Per non agitarla inutilmente aspetto fuori vista che mia sorella ci parli e lei si rilassi, intanto vado sul terrazzino a guardare Milano ed il suo traffico festivo.

Una frenata improvvisa ed un clacson che si lamenta mettono a fuoco un macchinone (una Rolls?) che sale sul largo marciapiede centrale a parcheggiare. Chissà se sotto il naviglio scorre ancora? Mentre qualche immagine mi torna alla mente, un uomo e una donna sono scesi dalla gran macchina nocciola e bruna e si sono avviati verso l’ingresso della casa di riposo.

Dopo un altro paio di tentativi di interagire con mia madre, sono finito in fondo ad un corridoio cieco dove, dietro l’angolo che porta alle scale di sicurezza, una poltrona isolata e negletta mi attira, è il posto adatto per leggere Pennac.

Ed è dopo un poco, che dal mio libro mi distrae un parlottare teso ma sottovoce.

-Non capisce niente e non si ricorda un cazzo! Provaci tu che io mi sto incazzando. Intanto io faccio un giro nelle altre stanze.

-Va bene ci vediamo di sotto al bar interno.-

Dei passi si allontanano e riflesso nella finestra vedo un uomo che andandosene si affaccia ad ogni camera.

Poi più forte, con il tono didascalico che si usa con i bambini e con i vecchi:

-Allora nonna ma che belle fotografie che hai, ma dov’è la fotografia della mamma, quella grande con la cornice di pelle che ti abbiamo portato l’altra volta?

-Sì cara che bella.

-Sì nonna proprio quella, dov’è?

-Ecco guarda questa è la mamma col papà, cara.

-Ma nonna questa è la tua mamma, io dico quella bella cornice che ave-vamo messo qui sul comodino dietro alle altre, quella con la mia mamma, tua figlia, la Iris.

-E qui ero con i miei fratelli, che belli che erano e che bravi, facevano tutto.

-Nonna l’hai data a qualcuno? È venuto per caso lo zio Odilo?

-Vieni cara che mi danno sempre delle caramelle, io le metto nel cassetto prendile tu che tanto io non le mangio cara.

Dei passi energici e un’infermiera irrompe vociando nella stanza.

-Allora Carola non vieni a tavola, non hai fame, non vuoi mangiare? Oh buongiorno! Chi è venuta a trovarti oggi Carola, una nipote? La accompagna lei tra cinque minuti in soggiorno?

-Mi scusi infermiera, non sa per caso che fine ha fatto la cornice che era sul comodino della nonna? Era una cornice grande, di pelle scamosciata, marrone, con la fotografia di una donna giovane in costume da trapezista.

-No, mi dispiace, non ricordo di averla vista; allora la porta lei tra cinque minuti, mi raccomando.

-Senta, mi scusi, ma quella foto ha un grande valore affettivo per me, è un ricordo di mia madre, sia gentile controlli un po’ nelle stanze: magari uno scambio… Ecco per il suo disturbo… Provi per favore a chiedere alle sue colleghe. Tornerò domani.

-Non dubiti Signorina, cercherò dappertutto, ma vedrà che l’avrà portata a casa qualche parente. Ci pensa lei ad accompagnare la nonna in soggiorno?

Appena l’infermiera è uscita si sente imprecare sottovoce e aprire i cassetti e gli armadi. Poco dopo vedo riflessa nella finestra la donna della Rolls che esce furibonda dalla stanza, la lascio arrivare all’angolo del corridoio, poi mi alzo e, seguendola, mi chiedo cos’abbia di così prezioso quella cornice.

Bisogna essere scemi per dare a queste povere donne qualcosa di prezioso che non sia il proprio tempo; siano serene o disperate lo sono perché stanno perdendo se stesse, il presente ed il passato, a grandi pezzi, a brandelli che sprofondano nel gorgo di un tempo non più lineare e le uniche certezze che hanno sono ciò che vedono, sentono e toccano, qui ed ora.

La ragazza, perché ora che la vedo in viso mi accorgo che deve avere circa venticinque anni, aspetta l’ascensore nervosamente cogitabonda, masticandosi le guance. Ha l’aspetto snello, curato, il naso diritto con la punta all’insù, le labbra carnosette, gli occhi grandi e scuri, le guance affilate, i capelli a boccoli nervosi, effetto bagnato, di un biondo scuro, insomma quei tipi che ti domandi sempre come dovevano essere prima di incontrare chirurghi ed estetisti, anche se non puoi fare a meno di stimare la loro professionalità.

Visto che non vedo in giro mia madre vuol dire che è ancora a disagio e non vuole abbandonare la sicurezza del suo posto a tavola neppure per fare due passi in corridoio con Bianca; ne approfitterò per controllare la sua roba: cosa c’è da lavare e cosa manca. Il colmo: costa il doppio degli altri ricoveri e la lavanderia non funziona!

La sorpresa che mi coglie quando, dietro al sacchetto della biancheria sporca, trovo una cornice di pelle con la fotografia di un’artista di circo coperta di lustrini, mi paralizza un istante, poi vado alla finestra per vedere se la Rolls sia ancora lì e la vedo scendere con sussiego dal marciapiede ed avviarsi. Chissà se si può fare una guida nervosa con quella macchina?

Esamino la fotografia e la cornice e mi stupisce tutto quel fervore: la foto è evidentemente una copia recente e la cornice è di quelle da rigattiere.

Imbosco la cornice tra i panni sporchi e decido di portarmela a casa.

La mamma è finalmente più serena quando entra in camera con mia sorella; facciamo un breve ripasso dei parenti nelle fotografie sul comodino e poi un giro del grande complesso fino al bar interno; ma dopo un poco la mamma comincia ad essere in ansia, vuole tornare al suo posto in soggiorno tra i volti che rappresentano oggi la sua sicurezza.

* * *  Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

In autobus tornando a casa parlo con mia sorella di come sta la mamma e poi si chiacchiera un poco delle ricoverate più originali, quelle con cui si riesce a scambiare qualche parola; così sento che la nuova vicina di tavolo di nostra madre è proprio Carola, un’ex artista di circo. Bianca è rimasta colpita dalla sua sorridente serenità, specialmente a paragone dell’ansiosa preoccupazione di nostra madre, che spesso sfocia in crisi di pianto o di aggressività. Con evidente piacere mi racconta di questa donna e delle fotografie, che lei entusiasta le ha mostrato, che la ritraevano con i suoi due fratelli durante i loro “numeri” in cui, contrariamente alla tradizione, lei era la “porteur” o meglio la “porteuse” e loro gli “agili”. L’idea di quella sottile vecchietta, coperta di lustrini, sulla pista del circo con due uomini sulle spalle, mi sembra bella e commovente; sto proprio invecchiando. Così, perso in queste fantasie, arrivo alla mia fermata senza aver detto a Bianca del colloquio involontariamente carpito, né della cornice volontariamente asportata, che giace nella borsa sotto la biancheria sporca.

Appena a casa mi metto con cura a smontare la fotografia e la cornice; sembra proprio non esserci niente, finché non mi accorgo che la foto è troppo spessa e mi ingegno a scollare i due strati.

Quando un negativo fotografico ne scivola fuori, allo stesso modo io mi sento scivolare in un romanzo di spionaggio della seconda guerra mondiale: Canaris… Mi sono comportato proprio come gli imbecilli dei telefilm, che finiscono negli intrighi più infami per dei gesti che, a casa seduto comodo in poltrona con birra e panino, mi sembrano assurdi. Un leggero attacco di panico mi risveglia la colite.

La pausa di riflessione al cesso mi permette di riacquistare il sangue freddo e sistemate le urgenze psicosomatiche mi metto al lavoro: con ghiaccio e ventilatore raffreddo la pellicola mentre la osservo al microscopio, non vorrei che la luce la bruciasse. Non è altro che un seguito di lettere; sembra un codice, ma le lettere sono solo quattro.

Ma sì, sono le basi azotate del DNA: Adenina, Timina, Citosina e Guanina. Per la miseria! Finalmente l’hobby della genetica mi serve a qualcosa, oltre che a farmi preoccupare per le possibili predisposizioni ereditarie alla sindrome di Alzheimer!

Allora si tratta di un segreto industriale: qualche casa farmaceutica ha mappato il DNA di un nuovo microrganismo, probabilmente, e qualcuno se n’è impadronito; potrei spedire tutto alla polizia, dopo avere tolto le mie impronte, e lavarmene le mani.

Con questa idea tranquillizzante mi metto a dormire.

* * *

Il giorno dopo sono così preso dagli adempimenti fiscali e burocratici, relativi al mio negozio di tolettatore di cani: tassa sulla pubblicità, per l’insegna, tassa sull’occupazione di suolo pubblico per il tendone e per i due vasi di camelie all’ingresso, così i cani si vendicano pisciando lì anziché sugli stipiti, tassa sui rifiuti speciali per i peli di cane, rinnovo autorizzazione dell’ufficio di igiene, che torno a casa verso sera con ancora la cornice nella borsa senza più averci pensato; ma quando apro la porta del mio monolocale al piano rialzato e sento un soffio d’aria non penso un attimo: balzo indietro richiudendo l’uscio in un istante, sento dei rumori concitati all’interno ma sono già nelle cantine. Getto la borsa sotto la porta di una cantina correndo. In pochi secondi ho già passato tre porte tagliafuoco e, grazie alla lungimiranza dell’architetto che ha progettato questi palazzi, esco dopo forse un minuto e mezzo nella strada parallela alla mia senza aver dovuto usare una sola chiave. Vorrei sorvegliare il mio palazzo per vedere chi mi aspettava, per fortuna ci sono Isola e la sua padrona e con quest’ultima mi metto un po’ a chiacchierare mentre Isola pascola nel giardinetto d’angolo; dopo qualche minuto dal mio palazzo escono tre uomini, che salgono frettolosi su una Mercedes bianca che si allontana sgommando verso il centro.

Torno cautamente verso il mio appartamento. A pochi metri dalla porta ho un ripensamento e mi volto, in tempo per vedere una mano, come un tagliere, che mi cade addosso travolgendomi e svengo.

* * *

Il tempo, bendati, è una variabile irreale: il dolore, la fame e la paura, senza una sua misura sono spaventosi e con questo straccio ficcato in bocca, tenuto dal cerotto che mi copre anche gli occhi, sento che sto per avere un attacco di asma. Non so da quanto sono qui, ho avuto momenti di coscienza alternati a svenimenti, ora mi scuotono conati di vomito e tosse.

Quando sto male, tanto per avere un termine di paragone, penso all’operazione di emorroidi che feci dieci anni fa; il confronto mi rincuora anche stavolta e quindi passo ad esaminare con meno angoscia la situazione.

Sono sdraiato su di una coperta gettata sul pavimento di cemento, le mani sono fermate dietro la schiena da manette ed un piede è incatenato al muro.

Devo togliere il cerotto dalla bocca e sputare questo straccio che si è gonfiato di saliva, se vomito mi soffoca, per fortuna non avevo ancora cenato. Forse con i piedi… Da bambino mi mangiavo le unghie… dei piedi. Allora, tolta la scarpa senza problemi, sfilo anche la calza, poi punto il piede incatenato al muro e appoggio l’altro sul ginocchio, fin qui tutto bene, ora mi devo interrompere per un attacco di tosse, infine mi avvicino con il corpo al muro dondolando sulle natiche e costringendo così il piede contro il viso, finché riesco ad avvicinare la bocca all’alluce e cerco un varco tra la pelle ed il cerotto e, benedetta barba, ce la faccio.

Pian piano riesco a sollevare un poco l’adesivo e sputo lo straccio.

Mentre stremato, sudato e incrampito mi riposo, penso se mi convenga cercare di ripetere l’esercizio, per liberare almeno un occhio, o se ciò mi metterebbe ancor più in pericolo: se si sono dati la pena di catturarmi e di bendarmi forse non mi giudicano pericoloso e mi rilasceranno, una volta ottenuta la loro cornice… ma cos’aspettano a chiedermi dov’è? Forse l’hanno già trovata e devono solo decidere come liberarsi del cadavere. Mi sembra interessante che nella verbalizzazione mentale dei pensieri “mi rilasceranno” sono io, “il cadavere” invece è impersonale…

È strano che la possibilità concreta della mia morte non mi emozioni più che tanto.

Intanto però non sento nessun rumore e da quando sono qui non ricordo di averne sentiti, tanto vale tentare di liberarsi: almeno per non pisciarmi nei pantaloni, come già deve essermi successo a giudicare da come sono umidi.

Sfregando la faccia sulle ginocchia, poco alla volta stacco uno spi-golo di questo cerotto che mi acceca, ma non riesco a capire come mai non scorgo neppure uno spiraglio di luce.

Forse la sudata precedente ha ammollato l’adesivo, in poco tempo sento gli occhi liberi, ma il buio resta totale. Neppure uno spiraglio di bruno nel nero assoluto che mi circonda.

Che sia stato il colpo in testa? Ma è strano…

Le mani, devo liberare le mani! Le manette sono collegate da una catenella robusta, potrei cercare di consumarla contro il cemento del pavimento, visto che le pareti si sbriciolano.

Niente. Ho i polsi feriti e la catenella mi sembra intatta.

Finalmente! Ho infilato la catenella sottile delle manette tra due anelli della catena che mi trattiene al muro, poi ho caricato tutto il mio peso su quest’ultima sono così riuscito a concentrarlo in un punto della catena più fine che infine ha ceduto.

Al tatto sembra una cavità artificiale scavata nel tufo.

Quindi non siamo più a Milano.

Mi hanno lasciato l’accendino, il tabacco e il portafogli, manca solo il mio coltello multiuso. I polsi mi dolgono e pulsano, il locale è ampio, per quello che mi mostra l’accendino, ma non c’è niente che mi possa aiutare a liberarmi dalla catena che ho alla caviglia, grossa, nuova e con un solido lucchetto, affogata direttamente in un blocco di cemento nella parete. Mi rollo una sigaretta e mi dispero.

Se ci fosse qualcosa con cui fare leva, potrei cercare di forzare il primo anello che esce dal cemento e forse qualcosa di buono potrebbe venirmene.

Ai limiti del campo illuminato dalla fiammella dell’accendino vedo, vicino ad un incavo nella parete, il sacco rotto del cemento e la sabbia, la cazzuola e una pala appoggiata al muro.

Aspetto che l’accendino si raffreddi e intanto mi preparo: sdraiato verso quegli strumenti, la mano tesa, accendo finalmente la fiammella e… Sì, è proprio così: laggiù, fuori della mia portata, c’è la mazzetta e forse anche lo scalpello con cui hanno scavato il foro nella parete per murare la catena. Avrei bisogno di una corda e di un peso per raggiungere la pala appoggiata al muro, farla cadere verso di me e poi utilizzarla per avvicinarmi gli altri strumenti che intravedo alla gialla luce del mio bic.

Il maglioncino leggero che indosso, tenuto per una manica, arriva fino alla pala ma non ha la massa per smuoverla: gli scivola sopra, la carezza e ricade. Finalmente mi ricordo delle scarpe e ne infilo una in una manica, lancio il golf tenendo l’altra manica ed ecco cadermi addosso la benedetta pala. Posso recuperare gli altri strumenti e la fortuna mi assiste ancora: lo scalpello entra di misura nel manico metallico della mazzetta, ottengo così una buona leva e in breve tempo, applicando una torsione, spezzo la catena nel punto in cui è murata.

Libero, ringrazio il manuale delle giovani marmotte, fondamentale lettura della mia infanzia, che alternavo ai casi di seppellimento prematuro di E.A.Poe.

La porta della cella, incassata nell’incavo di questa parete spessa, sembra solida, ma utilizzando come prima lo scalpello e la mazzetta non resiste che pochi minuti.

Questa volta il buio non è più così assoluto, una grande e massiccia porta di ferro chiude questa cavità che potrebbe ospitare un TIR e dai suoi margini entra non una luce, piuttosto una penombra, come se fuori fosse notte. Da questa parte non si esce. Non con i miei mezzi.

Esplorando le pareti, più che porte chiuse come quella che chiudeva la mia cella non trovo. Batto piano a tutte ma nessuno mi risponde, sono l’unico ospite di questo residence ipogeo. C’è perfino un grande forno da pizza con la sua brava scorta di legna ed una specie di griglia di un metro per due; eppure non mi sono sembrati così ospitali da organizzare barbecue per gli ospiti. Però intanto trovo un martello e dopo breve riflessione decido di affrontare il rischio del rumore: usando la mazzetta come incudine spezzo infine il lucchetto e libero la caviglia dalla catena.

Ho una fame formidabile, ora che sono libero di muovermi mi sembra che al mondo non ci sia altro che cibo.

Il rumore improvviso di una saracinesca mi fa vorticare l’intestino, entro nel forno, cercando di non lasciare tracce e accosto lo sportello, attento a non chiudere il saliscendi, che ovviamente non c’è modo di aprire dall’interno. La puzza stantia di carne bruciata mi fa pensare a Benares ed ai suoi roghi funerari. Chissà se la canna fumaria è abbastanza grande per me? Me lo chiedo una sola volta e, aiutandomi con un pezzo di legno, già salgo nella fuliggine.

Il condotto è lunghissimo, sono esausto quando vedo la luce, le pareti prima di tufo ora sono di mattoni. La puzza è cambiata ora è acida, fermentata: immondizia.

E proprio in una discarica sbuca, quasi a fior di terra, il camino da cui mi affaccio guardingo; è coperto da vecchi letti bruciati, reti e lamiere accuratamente disposti per mimetizzarlo senza impedirne il tiraggio. Emergo schifato, tra mucchi di spazzatura fumante e mefitica.

Il sole del tardo pomeriggio mi fa strizzare gli occhi e quando finalmente esco dall’intrico metallico, all’orizzonte il mare è una promessa irreale, che mi confonde e mi conforta.

La discarica non sembra ufficiale, ma soltanto un terreno incolto alla sommità di una bassa collina, alla cui base si stende la zona industriale di un paese; un capannone termina proprio addossato alla parete di tufo, che sale quasi verticale fino a questo pianoro.

Mentre scendo lungo i fossi e i filari di gelso, elaboro e scarto piani di fuga e di riscossa.

Intanto: il mare è l’Adriatico e le colline mi sembrano marchigiane o abruzzesi. In ogni caso ci sono l’autostrada e la ferrovia per squagliarsi. Sì ma questi sono i mezzi ovvii, ci penseranno anche loro; i bastardi mi sembrano tanti e organizzati e neanche scemi. Se andassi alla polizia? In fin dei conti lividi ed ematomi non mi mancano, le manette neppure… Bene, è deciso, perderò qualche giornata negli interrogatori.

Ma… e se fossero meglio i carabinieri? Oh beh: chi c’è c’è, il primo che trovo mi accontento.

* * *  Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

Ho dettato la mia deposizione alla locale stazione dei carabinieri, che mi hanno anche gentilmente liberato i polsi dolenti dalle manette, secondo loro erano giocattoli da sex-shop, ma credo di non essere stato abbastanza presentabile per essere preso sul serio, nonostante abbia tralasciato di parlare della cornice e del negativo, proprio per non farmi dare subito la patente di mitomane; oltre tutto le ferite sono evidentemente guaribili in meno di dieci giorni, perciò si procede solo su querela di parte. Cercheranno i loro riscontri, informeranno il magistrato e poi mi faranno sapere, intanto posso tornare al mio domicilio abituale tanto hanno il mio numero di telefono. Giuro che la prossima volta mi faccio rapire in camicia e cravatta e mi porto il cambio per la deposizione.

Il treno delle 22.07 è semivuoto, mi sdraio e mi addormento con tre tramezzini nella pancia e una bottiglia di birra ghiacciata in mano, che non mi azzardo a bere temendo una congestione.

* * *

Mi sveglia una mano enorme che mi scuote la spalla, una voce cortese mi informa che non si sono dimenticati di me, ma che purtroppo avevano appaltato la mia custodia a gente inaffidabile.

-Ora tra persone evolute sarà un piacere intendersi.- Sì, proprio così “evolute”…

Sembra un film con Paolo Ferrari che doppia Schwarzenegger e i dialoghi di Van Dine.

Questo sacripante alto e ossuto, dalla voce suadente, è quello che mi ha steso con una manata, neppure un pugno, una manata. Mi guarda diritto negli occhi e mi sento pesato, dissezionato, dal suo sguardo nocciola, chiuso tra la trave sporgente delle sopracciglia chiare e i larghi zigomi acuti.

Posso trattare solo la mia pelle per il negativo e in realtà non penso proprio ad altro.

Sacripante parla, lentamente, degli equilibri mondiali degli anni ’80.

-Deve sapere che proprio in quegli anni i sovietici… Come sembra strano ora questo termine vero? Espulso dal lessico contemporaneo, dal tempo e dallo spazio. Ma lei ha un’età Signor mio che le permette di ben ricordare quegli anni, credo.

Faccio per rollarmi una sigaretta, ma lui mi indica il simbolo di divieto e desisto.

-In quegli anni, le dicevo, nei laboratori dell’esercito sovietico venne selezionato un microrganismo, anaerobio facoltativo, capace di moltiplicarsi in tutte le acque marine, avendo la capacità tanto di fare la fotosintesi, quanto di utilizzare sostanza organica disciolta, quanto di aggredire e distruggere altri microrganismi, alghe ecc. creando una mucillagine densa come l’agar agar ed altrettanto indigeribile per le altre forme di vita, dello spessore, secondo le previsioni, di varie decine di metri nei mari caldi o inquinati da sostanza organica come il Mediterraneo.

-Tale microrganismo è rimasto per una quindicina d’anni ignorato nei laboratori dell’esercito fino a che, recentemente, alcuni ricercatori hanno pensato di farne un’analisi genetica accurata sequenziando i nucleotidi, mi segue?

Annuisco appassionato, dimentico della mia situazione.

-I motivi di questi scienziati erano di studio, ma non ci interessano. Ciò che ci interessa invece è che, in questi ultimi tempi, nostalgici dell’ex-URSS, nei servizi segreti e nell’esercito, e nazionalisti russi, da poco insediati ai vertici di alcuni apparati statali, si sono uniti con l’obiettivo di ricreare una leadership russa nella regione e di fare ritrovare l’orgoglio dell’appartenenza ai dispersi popoli dell’ex-impero. Costoro, incoraggiati dai recenti insuccessi, per lo meno a livello di massa, delle riforme economiche, pensano che mettendo in crisi l’economia occidentale potrebbero portare indietro l’orologio della storia, chi di vent’anni, chi di un secolo.
Annuisco, meno appassionato.

-A questo punto, come avrà intuito, le due storie si fondono: i nostalgici si trovano tra le mani un campione del nostro microrganismo e cercano di ottenerne grosse quantità. Allo stesso tempo cominciano ad organizzarsi per distribuirlo in tutti i mari contemporaneamente, in modo da paralizzare i trasporti via mare in tutto il globo ed ottenere il massimo effetto di crisi sul sistema sempre più interconnesso delle economie dei paesi… diciamo occidentali, o capitalistici, come vuole.

-Mah, guardi per me è lo stesso, sa io sono un cinofilo anarchico.

-Bene, se non ama solo i cani ma anche gli altri animali si renderà conto che il problema non riguarda soltanto l’economia, ma anche l’ecologia di tutto il pianeta. In pochissimo tempo la gelatinizzazione della superficie marina bloccherà gli scambi gassosi e tutti gli animali marini moriranno. Per le alghe la situazione non sarà così immediatamente tragica, ma le proiezioni indicano che gran parte di esse scomparirà nel giro di qualche mese; sull’equilibrio tra CO2 e O2 ciò potrà avere effetti gravissimi, tenendo conto della già critica situazione che stiamo vivendo.

-Ho capito, siete di Greenpeace. Guardi io sono sempre stato un vostro sostenitore, non ho con me la tessera, anzi forse è scaduta, ma ho sempre sostenuto le vostre battaglie, che dico le nostre, le NOSTRE battaglie per il pianeta.

-Oh Signor mio, Signor mio, forse l’ho involontariamente tratta in inganno con la mia perorazione dell’ecologia ma sa, per noi polacchi, tra russi e tedeschi, la perorazione è stata una necessità storica.

-Temo di non seguirla…

-Un’altra volta parleremo della questione polacca tra le due guerre se vuole. Per ora sappia che i servizi segreti americano e giapponese in questa operazione lavorano congiuntamente, anzi l’esposizione giapponese in questo caso è maggiore di quanto sia mai stata nel dopoguerra ed io lavoro per loro.

-I nostri servizi sono riusciti a procurarsi copia della sequenza nucleotidica ed altre informazioni. A questo punto due fratelli italiani, padroni di un circo e a Mosca per lavoro, vengono ingaggiati per portare il documento in Italia. Purtroppo spesso i dilettanti diventano ingordi e così, arrivati qui, decidono di decuplicare il prezzo del trasporto e mentre contrattano con noi nascondono la cornice sul comodino della nonna, e la cornice scompare. Noi riusciamo a risalire a lei e a sua sorella e cominciamo da lei, vogliamo solo parlarle, ma la sua fuga immediata ci conferma che siamo sulla pista buona. Però mentre il nostro gruppo la preleva, le nostre basi logistiche vengono scoperte e i “contatti” che le custodivano spariscono. Abbiamo allora dovuto parcheggiarla presso una filiale dell’anonima sequestri calabrese, mentre procedevamo a riorganizzare il reparto.

-L’hanno tenuta sedato per due giorni, poi dovevamo venire a prenderla noi, ma un doloroso contrattempo ci ha fatto tardare e lei si è svegliato, fuggendo.

-A proposito, come ha fatto? Sembrava un’ottima prigione.

-Ma non vi vergognate a tenere rapporti con quegli assassini? Non credo che in quel forno ci abbiano mai fatto la pizza…

-Ah certo, il camino del forno… In questo mestiere ci sono delle necessità che nessuno ci chiede di condividere, ci sono e basta.

-Senta io non avevo nessuna intenzione di immischiarmi in questo affare: ho trovato la cornice nell’armadio di mia madre e ho sentito con che ansia la cercavano i due del circo. Solo la curiosità mi ha indotto a cercare di scoprire cosa nascondesse; volevo consegnarla alla polizia appena ho scoperto che si trattava di spionaggio, ma non me ne avete dato il tempo. Ora voglio soltanto uscire da questa storia dalla porta di servizio, vivo.

-Va benissimo per noi, non abbiamo nessun interesse ad attirare l’attenzione, ci interessa soltanto recuperare la cornice.

-Allora siamo d’accordo, io vi do la cornice e voi sparite dalla mia vita.

-Non avremmo mai voluto comparirvi, ma, in verità, la sua iniziativa ha sbloccato l’impasse in cui ci trovavamo con i fratelli Inverni e, indirettamente, mi ha salvato la vita: ecco perché le sto raccontando tutto questo invece di farle l’iniezione che ho in tasca. Ma la vedo perplesso.

-A dire il vero mi sembra impossibile che sia così semplice uscire da questo incubo.

-Siamo quasi a Bologna, spero che non le dispiaccia se faccio entrare del personale che aspetta fuori. Sia cortese, non parli di niente che abbia attinenza con la cornice.

In silenzio, ad un suo cenno, entrano quattro uomini sui trent’anni, ciascuno con il suo giornale e ,con un mormorio di saluto, si siedono riempiendo lo scompartimento delle loro spalle e dei loro completi fresco-lana.

* * *  Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

Quante volte ho fatto questo tragitto tornando dal mare e, non so spiegare perché, ero sempre felice di tornare, tanto quanto lo ero stato di andare; iniziavano le vacanze ed io ne ero felice, finivano le vacanze ed io ne ero felice. Spiavo all’andata il comparire del mare. Sorvegliavo al ritorno la sua scomparsa. Aspiravo l’odore salmastro che da Riccione mi accompagnava a Pescara. Annusavo sospettoso la comparsa dei fumi della raffineria a Falconara. Carezzavo, con lo sguardo di un amante, le colline che scendevano al mare; le gonne di gialli girasoli si stendevano sui pendii, tra balze di viti guarnite di peschi e qua e là, tra queste vesti zingaresche, faceva capolino una forra di rovi e di querce, un’ascella selvaggia, una coscia, una sorgente nascosta. Cercavo di cogliere, all’andata, il momento in cui la caligine giallastra della città scompariva, perdendosi nella più bianca foschia della Padania. Aspettavo di riconoscerla, tornando, da lontano; come una cupola sul piatto da portata, me l’aveva conservata, fermentata e vitale, pronta a sprigionare le sue nebbie, come il mare, pronta a lasciarsi accarezzare, le sue pietre, le sue strade, non la Milano da bere, la Milano da amare.

* * *

-È sveglio Signor Mainardi?

-Sì sì, fantasticavo, mi dica.

-Sto liberamente traducendo un poeta siriaco minore del II secolo d.C., tale Bernardo d’Aleppo, vuol sentire?

-Ma dica, quante lingue conosce?

-Oh ma il greco è per piacere non per lavoro, ascolti:

Le gocce che l’orchidea trattiene

sanno di limpido miele,

il sapore del tuo sesso bagnato

è di baccalà mantecato.

-Beh così a orecchio mi piace, ma le orchidee allora conosciute in Siria credo fossero minuscole, come quelle attualmente presenti in Italia, mentre quelle che secernono gocce zuccherine apprezzabili sono quelle tropicali; inoltre non so se in Siria arrivasse lo stoccafisso per fare il baccalà mantecato.

-Come le dicevo si tratta di una libera traduzione.

* * *

Chissà se c’è da fidarsi di questo polacco. Vorrei poter tornare nelle Marche e in Abruzzo. Vorrei poter avere un altro cane. Vorrei potermi di nuovo innamorare.

* * *

Ecco la stazione di Lambrate, poche parole in inglese del capo ed uno degli scagnozzi esce in corridoio a parlare in un cellulare, poi torna, annuncia qualcosa e tutti si alzano ed escono, tranne il polacco che mi guarda in silenzio.

-Mi scusi- gli dico -ma come la posso chiamare? Mi sento a disagio, mi sembra irreale.

-Boitani, mi chiami Boitani.

-Come l’etologo dei lupi…

-Sapevo che avrebbe capito. Ma ora si alzi, la prego, che dobbiamo andare.

Il treno è semivuoto, ma non credo che con più gente avrei avuto problemi, i quattro cloni mi fanno il vuoto intorno e appena il convoglio si ferma scendiamo per primi. Senza che io tocchi terra entriamo in uno di quegli ascensori di servizio che sembrano porte dell’Ade, e scompariamo nel sottosuolo. Un uomo in grisaglia ci guida per corridoi e cucine, depositi postali e scale, infine usciamo in uno dei sottopassaggi stradali; sul marciapiede ci aspetta un furgone chiuso, seduti sul fondo sembra di andare lontano.

Parole e cenni d’intesa tra loro, poi il polacco mi chiede dove dobbiamo andare.

-A casa – gli faccio, sorpreso.

-Vorremmo fare subito la consegna, se non le dispiace.

-Anch’io, non vedo l’ora di liberarmi di questa faccenda e di farmi una doccia.

Scendiamo dal furgone dopo i cloni, che subito ci circondano. Si muovono veloci, le giacche aperte, la sinistra segnala agli altri l’O.K., l’altra vicino allo stomaco, le teste ruotano con ampi movimenti panoramici.

Mi sento un mafioso.

-Accidenti non ho le chiavi, sono rimaste nella toppa quando sono scappato…

Ma uno degli scagnozzi ha già aperto il cancello, mentre gli altri continuano a guardarsi intorno; ci tiene il battente e mentre percorriamo il vialetto corre avanti ad aprire la porta del palazzo.

Uno scambio di battute tra i cloni strappa un sorriso al polacco.

-Stanno prendendo in giro Gaberschick che ha perquisito l’appartamento mentre l’aspettavamo.

-Ma siete tutti polacchi?

-No, solo io; gli altri sono americani, ma come le ho detto siamo liberi professionisti, in questo momento lavoriamo per i giapponesi.

Due di loro cominciano a salire le scale mentre un altro chiama l’ascensore, ma io indico le scale della cantina.

Fermo la nostra processione davanti alla cantina della Moriconi e sto chinandomi per infilare il braccio sotto la sua porta, per prendere la borsa con la maledetta cornice, ma il polacco mi blocca. Con un cenno e qualche parola si intendono tra loro e controllano con pila e specchietto; sento tensione nelle poche parole che si scambiano.

-Eh Signor mio deve scusarci, ma in questa faccenda troppe cose sono andate storte e adesso sembra troppo facile, prenderemo qualche precauzione.

Un clone arriva soddisfatto con una scopa in mano, un altro comincia a srotolare un filo di nylon lungo il corridoio e lo lega alla scopa, poi si china. Noi ci allontaniamo fino all’estremità del filo, dopo poco anche lui ci raggiunge e con estrema lentezza tira la corda per qualche metro.

Ecco la mia borsa trascinata dalla scopa in mezzo al corridoio. Mi sento sollevato, ma nessuno si china a raccoglierla; mi guardano tutti, c’è ancora tensione nell’aria. Fanculo! Mi chino e in quel momento si scatena un Capodanno napoletano. Il polacco mi cade addosso. Raffiche e spari rimbombano sotto i bassi soffitti. Io faccio il morto. Pochi secondi d’inferno e salta la luce. Nel buio i colpi si fanno distinti, risuona un campanello lontano e poi le sirene, vicine; qualche imprecazione e qualche colpo isolato hanno lo stesso senso: non si aspettano risposta.

Non posso muovermi, che mi abbiano colpito? Ma il respiro vicino all’orecchio mi riporta al polacco.

-Boitani, è ferito? Aspetti che vado a cercare aiuto.

-No aspetti cerchi di Orlov, il buttafuori del ristorante bulgaro in via Gluck e gli dica di metterla in contatto con Mac Kean.

-No non ne posso più mollo tutto alla polizia, cazzi loro.

-No non lo faccia… tutti i servizi hanno i loro informatori nella polizia… Pinelli non le ha insegnato niente…

-Ma che cazzo c’entra Pinelli! E Andrea Salsedo allora? Aspetti che cerco di scivolare fuori che non riesco a respirare…

-Scappi che arrivano.

Mi chino, è svenuto. Un altro gemito scivola lieve nel buio. Sarà meglio che mi squagli prima che gli altri si accorgano che le sirene erano quelle dei pompieri della vicina caserma.

L’aria fresca dell’alba mi gela la schiena; mi accorgo che ho la felpa inzuppata di sangue. Mi allontano da casa verso la cabina a fianco dei giardini. Telefono ad Andrea, un amico tassista, spero che non sia ancora addormentato, di solito fa il turno di notte. Arriva tra cinque minuti. Intanto, accompagnate dallo stridore delle gomme, arrivano le sirene vere.

Mi sfilo, rabbrividendo nell’aria mattutina, la felpa e la giro in modo da coprire il sangue abbracciando la borsa; già una macchina dei carabinieri comincia la perlustrazione della via, le sirene ormai sono un concerto. Ma ecco la salvezza: Minnie e la sua padrona, come al solito per vezzo senza occhiali, arrivano, evitando di misura un palo della luce. Saluto la donna da lontano, ad alta voce, perché mi riconosca e subito mi chiede di Ruggero, è morto da due anni ma ogni volta che mi vede me lo chiede. L’accompagno lentamente avanti e indietro. Andrea ritarda, lei comincia ad estrarre dalla tasca l’involto di arrosto con cui attira la sua cagna per rimetterle il guinzaglio, ma io, con un colpo di genio, porto il discorso sulla dieta che la Minnie dovrebbe fare ché mi sembra un poco in carne e lei rimette in tasca l’involto vergognosa, la cagna continua ad annusare ed io ho il mio alibi per stare lì a quell’ora. Finalmente Andrea arriva con il suo taxi luccicante e sollevato le saluto.

* * *  Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

Andrea è un ascoltatore silenzioso e appassionato, in poco gli riassumo la vicenda e insiste perché vada a casa sua; la sua donna è dalla madre con il figlio ancora per un po’ e l’avventura lo eccita come un bracco sulla pista fresca del cinghiale. Ma sì, perché no… dove andare altrimenti? Dovrei anche avvisare la Brunilde, la mia energica assistente, che per ora non son morto, poi vedremo. Le telefono da una cabina, ascolto lamentele per un poco, poi le dico che se non se la sente di mandare avanti l’attività da sola, scriva un bel cartello “chiuso per lutto di famiglia” e lo attacchi alla vetrina, e se qualcuno le chiede di me, sono in Abruzzo per il funerale di uno zio.

La sera mi sveglia Andrea verso le sette: dice che ha fame e ha scaldato il gulasch che la moglie gli aveva surgelato; ma in realtà voleva farsi raccontare da capo la storia per intero.

Aspettando l’ora di uscire, per andare a cercare Orlov senza dare troppo nell’occhio, faccio sparire barba e baffi con l’emozionante rasoio a lama libera di Andrea, la solita faccia da pirla mi guarda dallo specchio, come a vent’anni, se non sto proprio vicino. Nella vasca da bagno, la felpa e la borsa sporche di sangue mi riportano crudamente alla realtà; nascondo il negativo nel pacchetto del tabacco e butto via tutto il resto.

-Sai, questo Orlov, credo di averlo visto una volta portare fuori due clienti, uno per braccio come due sporte di mele. Faceva impressione sembrava una forza della natura: un torrente in piena sotto un ponte, il vento che percuote un canalone…

Non mi ero mai accorto che Andrea fosse così immaginifico nelle sue espressioni.

Siamo quasi arrivati al ristorante, passiamo senza fermarci, ho un cappellone di Andrea che mi ombreggia il viso. Tra le macchine ferme sull’altro lato della strada, quasi di fronte alla porta del locale, ce n’è una con quattro tizi che sembrano aspettare.

Ora dovremo far passare un po’ prima di tornare; abbiamo deciso con Andrea che lui si fermerà davanti al ristorante come se lo avessero chiamato per radio, poi entrerà a chiedere notizie cercando di parlare con Orlov, io aspetterò nascosto in macchina.

Passiamo una mezz’ora a fare il giro delle piazze del quartiere vedendo di comprare di che farci uno spino, ma è già tardi, le piazze di quartiere hanno orari strettissimi.

Oramai sono le dieci e mezzo, un orario credibile per finire la cena in un locale caratteristico e chiamare un taxi. Io mi accuccio dietro, sul fondo; Andrea si ferma davanti all’ingresso come se aspettasse. Dopo qualche minuto scende imprecando con aria spazientita, e suona il campanello vicino allo spioncino; parla un momento con qualcuno e torna, poi finge di parlare nella radio e partiamo veloci.

-Tutto O.K., tra un quarto d’ora al bar vegetariano dietro l’isolato, ha detto di aspettarlo al cesso.

-Così. Detto fatto. Sei grande. Un’interpretazione da actor’s studio.

-Ma no dai non scherzare. Dici?

* * *

Il bar vegetariano è anche analcolico, i clienti sono pochi per giustificare l’apertura serale, ci sono solo tre giovanotti americani di una qualche chiesa, con il tesserino di identificazione sul bavero, intenti a parlare in stentato italiano con due ragazze che ridacchiano spesso tra loro.

In questi posti io prendo sempre centrifugato di carote, sedano e limone. Andrea mi imita incerto, ma al terzo sorso è entusiasta.

Cazzo! Diciottomila due spremute al banco con la filodiffusione! Ecco perché sta aperto.

È quasi l’ora, suggerisco ad Andrea di stare sulla porta del bar e di avvisarci se arriva gente sospetta. Sono in bagno da cinque minuti quando arriva l’archetipo del pesista bulgaro: le orecchie sono affondate nei trapezi e su un’altezza di uno e settanta scarsi la giacca sarà una sessantasei. Non perde tempo in chiacchiere: mi chiede quando ho visto Krevalsky e poi il telefono dove rintracciarmi per l’abboccamento con Mac Kean, se lui vuole vedermi naturalmente. Ma entra di corsa Andrea.

-Si è fermata qui davanti la macchina che sorvegliava il ristorante, stanno arrivando in quattro.

Non ha quasi finito di parlare che Orlov, senza neppure prendere la rincorsa, ha divelto il séparé di marmo tra i cessi e lo sta posando di traverso dietro la porta, incastrato tra il lavandino e il muro. Senza fermarsi a prendere fiato strappa il cesso e ci sfonda la piccola finestra che dà sul cortile, usandolo poi per togliere le schegge di vetro più grosse, salta a piedi uniti sul davanzale ed è fuori. Mentre le schegge di legno della porta schizzano da tutte le parti e i proiettili scavano trincee nelle tinteggiature stratificate delle pareti, rimango paralizzato un momento. Andrea mi chiama e scavalco il davanzale con un balzo di cui non mi credevo capace, ma la lentezza con cui scendo a terra mi conferma che avevo ragione. Orlov mi tiene per la collottola e mi spinge avanti a sé. Entriamo in un garage passando per il gabbiotto del custode che alza appena lo sguardo dal suo libro. Attraverso un’uscita di sicurezza finiamo nel cortile del palazzo adiacente, da qui entriamo nella cucina di una gastronomia araba, che Orlov percorre salutando ad alta voce, e passiamo nell’ingresso del palazzo.

Orlov ci chiede di aspettare: se potessimo concludere subito l’incontro con Mac Kean sarebbe meglio, visto che la situazione è agitata. Seduti sulle scale della cantina aspettiamo una mezz’ora, poi Orlov si affaccia sorridente.

-Krevalsky vi saluta, signor Mainardi, se l’è cavata anche stavolta.

-Ma Krevalsky sarebbe il polacco? Mi aveva detto di chiamarsi Boitani…Ma già, per voi cambiare nome è come cambiare mutande…

-Tra mezz’ora abbiamo appuntamento con Mac Kean al Burghy, vi consiglio di foderarvi prima lo stomaco da Achmed: a quest’ora sforna cannoncini di sfoglia al formaggio.

Troppo breve fu la sosta, a me la paura mette fame. La macchina ci scarica all’entrata laterale della Galleria, percorriamo quei pochi metri insieme a decine di giapponesi che convergono all’entrata di Burghy da tutti i lati; dentro c’è una festa privata evidentemente, i tavolini sono pieni di sushi disposti con grazia, tartine multicolori e quant’altro, anche Orlov è stupito ma mi guida imperterrito da un tipo seduto in un angolo, che appena si volta mi saluta con un sorriso, ma per… è Marcus. Un nippo-scozzese padrone di una meravigliosa schnauzer gigante, fidanzata ufficiale di Ruggero per ben due anni, quando per ragioni di cuore frequentavo i giardini di Via Mario Pagano.

-Allora, Bruno, come stai? E Ruggero Bacone come sta, è tanto tempo… no non dire niente, anche la mia, sei mesi fa e quando il tuo?

-Due anni e mezzo… ne hai un altro? No eh, è troppo presto…

-Mah, forse tra un po’.

Orlov è stupefatto, ci guarda come se gli avessimo fatto uno scherzo. Non è proprio bello a vedersi in piena luce. Gli spiego brevemente la cosa.

Andrea non ne può più.

-Sì va bene i cani, ma ‘sto negativo glielo dai o no?

-Giusto Marcus, ne ho passate di tutti i colori per questo cazzo di negativo, ora te lo do e non ne voglio più sapere niente.

Intanto intorno a noi si è formata una piccola folla di giapponesi, convenuti per la festa di addio del loro console che va in pensione.

-Andiamo in cucina – fa Marcus. -Ecco dammi il negativo per favore.

Lo prende, si avvicina ai fornelli, accende una fiamma e gli dà fuoco; lo stupore ci fa di sale e prima che ci siamo ripresi annuncia candidamente:

-Questa era una delle tre copie che abbiamo esportato, le altre due sono già arrivate a destinazione da alcuni giorni, le loro ricerche si sono scatenate tutte su questa permettendoci…

-Un momento, UN MOMENTO! Noi eravamo la lepre?- Interrompe duro duro Andrea e gli scivola dal viso la bonomia che sempre gli ho conosciuto; batte le ciglia e veloce gli sale il destro in un uppercut verso il mento di Mac Kean.

-Sono le regole di questo gioco porco.- Mormora Orlov tenendo nella sua mano il pugno chiuso di Andrea a pochi centimetri dall’ormai irraggiungibile bersaglio.

Vorrei rivedere tutto alla moviola, mi sa che questo bulgaro prende le mosche al volo per le ali.

Il sorriso non ha abbandonato un istante il viso di Marcus che prosegue imperterrito.

-Negli Stati Uniti ed in Giappone ci sono già interi staff di ricercatori che lavorano su questo materiale, ciò che era nelle nostre possibilità di fare è stato fatto.

-Allora c’erano tre gruppi che tentavano di esportare tre copie del codice genetico ognuno indipendente dagli altri e noi ci siamo imbattuti nel gruppo più sfigato, per cui non siamo neppure degli eroi ma solo dei pirla.

-Dai Bruno non prenderla così. In effetti gli altri gruppi non hanno avuto nessun contrattempo. Ma anch’io ho saputo tutte queste cose solo iersera, troppo tardi per avvisare Krevalsky. Avanti uniamoci ai nostri ospiti, facciamo onore al buffet. Domani è un altro giorno.

* * *  Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

Orlov e Andrea stanno scardinando un tavolino del Burghy facendo a braccio di ferro, è già qualche secondo che vanno avanti, chi l’avrebbe mai detto che Andrea fosse così tosto? Una piccola folla si è raccolta intorno a loro e comincia il tifo: manca solo il bookmaker.

-Ma quando è che il tuo ti manca di più? A me è la sera quando torno… tante volte non vorrei neppure tornare.

-No, a me è il mattino; mi chiedo spesso cosa mi alzo a fare, ora che non c’è più lui da portare fuori.

 

fine

Copyright ©2008 Bernardo d’Aleppo

 

 

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3 Commenti a La porteuse

  1. mostarda dice:

    QUA DENTRO C’è TUTTO.

    purtroppo da leggere al computer è un po’ lungo.
    ma alla fine ce l’ho fatta.
    avventure, dolore, passione, gioia.
    fra un po’ la vedremo su rete4?
    ciao

  2. bernardodaleppo dice:

    Pensi di essere libero in settembre per fare la regia?
    Per la parte del protagonista sono incerto ci vorrebbe un attore non giovanissimo e neppure particolarmente prestante, non me ne vengono in mente molti, forse Rubini?
    Per la principale parte femminile credo potrebbe andare la Cortellesi, non particolarmente sexy, ma sufficentemente decisa.
    Per la parte del polacco fisicamente sarebbe adatto quello che fa il commissario compare di Montalbano, se imparasse a recitare.
    Per il bulgaro sono veramente in difficoltà, credo ci si debba rivolgere all’estero.
    Se vuoi darmi qualche suggerimento ti ringrazio.

    BdA

  3. mostarda dice:

    ci penso sopra.
    come dice nero wolfe: “vedremo”

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