Storia di Elerwen – Tressind
Pubblicato da Sergio il 20 febbraio 2012
«Gli altri genitori non approvano la situazione. Cosa dovrei fare secondo lei?»
Jack ascoltava le parole della direttrice della piccola scuola di Tressind e intanto stringeva forte il pugno. Aveva più di trent’anni e si guadagnava da vivere tagliando legna e facendo il falegname per gli abitanti del piccolo villaggio. Si era ritrovato a fare il padre da un giorno con l’altro e senza averlo mai voluto. Gli era sembrata la scelta più giusta, ma per il resto del villaggio non era così.
«E’ solo una ragazzina che avrà sì e no dodici anni. Sono io che devo chiedere cosa fare! Devo tenerla chiusa a chiave in casa come una bestia?» La rabbia era difficile da trattenere: per quanto il pugno fosse stretto lei scivolava subdola alla presa e si insinuava in ogni muscolo del corpo di Jack. Non era mai andato a scuola lui, non sapeva parlare bene come la direttrice, e quando l’ira prendeva il sopravvento parlava ancora peggio del solito.
«Stia calmo Jack. Deve capire che non è una bambina come le altre, non possiamo…» La frase fu spezzata da un urlo. La direttrice si alzò e assunse uno sguardo preoccupato che fece nascere nuove rughe al fianco di quelle che già le popolavano la fronte. Jack in quel lasso di tempo era già alla porta e correva verso una delle tre aule della piccola scuola.
“Perché sono qui?” Era tutto quello che Elerwen riusciva a chiedersi. Rannicchiata in un angolo si copriva la testa con le mani mentre tre dei suoi compagni le tiravano dei sassi da vicino. Lei era sempre l’ultima a lasciare la scuola: stava lì a studiare finché Jack non veniva a prenderla dopo il lavoro. L’uomo che le faceva da padre non voleva che lei andasse per il villaggio da sola. A lei non pesava, le piacevano i libri. Quelli, almeno, non le tiravano sassi.
Quel pomeriggio Tom e i suoi due amici erano tornati in classe. Le avevano preso il libro di storia e ne avevano strappato alcune pagine, poi l’avevano spintonata fino a costringerla nell’angolo più lontano dalla porta.
“Basta, vi prego!” Elerwen non fece in tempo a trasformare quel pensiero in parole. Un sasso le colpì il dorso della mano sinistra e la fece urlare di dolore. Sentì prima una forte botta che le lasciò paralizzate le dita, poi come tante forbicette che le pizzicavano la pelle tutt’attorno a dove era stata colpita. Avrebbe voluto nascondere la mano ma aveva troppa paura che il prossimo colpo le avrebbe fatto tutto quel male alla testa. Le voci nella stanza si mischiavano mentre Elerwen sentiva qualcosa di caldo scorrerle sulla mano e scendere giù lungo il polso.
«Sono i mostri come te che hanno ucciso papà!»
«Ci guarda sempre male, ci odia!»
«Ucciderà tutti nel villaggio!»
Le voci erano sempre più forti e si mischiavano lasciando poche tracce di chi le pronunciava nella testa confusa della ragazzina. Elerwen si chiese se di lì a poco non avrebbero iniziato anche a picchiarla.
«Ci devi lasciare in pace, mostro!»
«Vattene da qui!»
Elerwen non poteva fare niente per farli smettere, lo sapeva. Erano più grossi di lei ed erano in tre. Poteva solo stare lì a farsi graffiare dai sassi e dalle parole pregando che tutto finisse presto. Poi come un tuono in una giornata soleggiata arrivò la voce forte e minacciosa di Jack. Non volarono più sassi, nell’aria calda della stanza si sentiva solo la voce di Tom che diceva ai suoi di filarsela in direzione della finestra. Prima che trovasse il coraggio di riaprire gli occhi, Elerwen si sentì completamente avvolta nell’abbraccio sicuro e confortante di Jack. Le sussurrava che era tutto finito, le carezzava la testa e le prometteva che sarebbero tornati a casa subito.
Elerwen aprì gli occhi e lo guardò. Non era suo padre, gliel’aveva detto lui stesso, ma era l’unico che la trattasse con gentilezza. Dietro la spalla di Jack spuntò la testa della direttrice. Gli occhi stanchi e con le zampe da gallina della vecchia donna non erano gentili e non erano comprensivi. Elerwen la vide sussultare quando spostò lo sguardo su di lei, e con rassegnazione non poté che chiedersi se i suoi occhi fossero così spaventosi anche mentre piangeva.
«Jack, deve prendere una decisione. Questa situazione non è più sostenibile.»
«Che ti vengano a prendere i diavoli, maledetta vecchia! A te e ai padri di quei delinquenti!»
Erano passati quasi venti giorni dall’ultimo incidente. Elerwen non era tornata a scuola, stava in casa e studiava lì. Non aveva potuto leggere quelle pagine che Tom e la sua banda le avevano stracciato e così non aveva capito bene come mai il Deserto dei Draghi si chiamasse in quel modo. Nemmeno Jack aveva saputo spiegarglielo. Forse quei due che stavano parlando con lui avrebbero saputo dirglielo, ma non voleva interromperli. Era passato da un po’ il tramonto quando erano arrivati sulla porta di casa.
«Perdonate l’ora e la lunga attesa.» aveva detto la ragazza sconosciuta entrando «Il viaggio è stato più lungo del previsto.»
Era più giovane di molte donne del villaggio e aveva lunghi capelli di uno strano colore argentato. Poteva assomigliare ad una fata di quelle che si vedevano disegnate su alcuni libri. Non era così bella però, pensò Elerwen. Aveva sempre una faccia così seria, non aveva ancora sorriso una sola volta.
L’uomo che era con lei nemmeno si era seduto. Era lì in piedi e rigido nella sua armatura. Sullo scudo c’era un simbolo con due spicchi di luna che si incontravano solo alle estremità. Lo stesso simbolo che aveva la ragazza sul mantello.
«Quello che mi interessa è che sia al sicuro.» era Jack quello che parlava di più «Qui sono anni che viene maltrattata. E’ cresciuta senza mai giocare con un altro bambino!»
Elerwen lo guardava parlare di lei come se non si trovasse lì. Intanto sentiva lo sguardo del cavaliere su di sé. Aveva gli occhi di un azzurro un po’ sbiadito e non erano né cattivi né spaventati nemmeno quando era lei a guardarlo. Elerwen era abituata a vedere paura o disgusto quando osservava qualcuno dritto in faccia.
«Nell’Accademia ci sono altri Chessem» diceva la ragazza con voce calma e calcolata «I cittadini della capitale sono più avvezzi alla loro presenza rispetto a quelli dei piccoli paesi come questo. E’ la presenza della nostra gilda a rassicurarli: è risaputo che quelli che sono stati addestrati lì non sono una minaccia.»
Elerwen ascoltava attenta. Voleva bene a Jack, era tutto quello che aveva. Odiava Tom però, odiava la direttrice, odiava tutto di quel villaggio. Stavano parlando di portarla in una scuola con altri come lei.
«E come insegnamenti? Cosa le darete per il suo futuro?» Jack però era indeciso, non era difficile capirlo.
«Innanzitutto quando inizierà a manifestare il suo potere verrà guidata da Chessem esperti.» era incredibile per Elerwen come la parlata della ragazza risultasse costantemente fredda e precisa «Le verrà impartita un’educazione sopra la media visto che sarà costretta nell’Accademia fino all’età adulta. Questo le darà modo di capire quale sia la strada che vuole percorrere.»
Elerwen si accorse che finalmente Jack si era deciso ad incontrare i suoi occhi. C’era un velo di tristezza che non aveva mai visto nell’uomo. Sembrava quasi che le stesse chiedendo silenziosamente scusa. Lei però era serena: le faceva male solo separarsi da lui. Sorrise cercando di rincuorarlo, a Tressind non c’era nient’altro di cui avrebbe sentito la mancanza.
La mattina dopo Elerwen si guardava nel piccolo specchio della stanza. Era stanca, non aveva dormito quasi per nulla. Lasciò che lei e la sua immagine riflessa si scrutassero a lungo. Le iridi rosse erano separate da pupille nere verticali e più strette di quelle delle altre persone. Era quello a fare paura a tutti? A lei piacevano i suoi occhi, nessuno li aveva così. Era il segno distintivo dei Chessem: gli unici capaci di di usare la magia, le avevano detto. Lei però non era ancora riuscita a fare nulla di magico fino ad allora però.
Elerwen prese il suo piccolo fagotto ed uscì di casa. I due sconosciuti del giorno precedente erano lì, e proprio davanti a loro la ragazzina dovette dire addio a Jack. Fu un momento più difficile di quanto fosse riuscita a dipingere decine di volte ed in decine di modi diversi nella sua mente durante la notte. Lei pianse e lo fece anche lui. Separarsi dall’unica persona a cui voleva bene faceva male, molto più dei sassi. Agli occhi di Elerwen Jack era tutto ciò che c’era di forte e sicuro nel mondo e vederlo piangere la scosse un po’. Alla fine l’uomo se ne andò in casa e chiuse la porta.
«Io sono Keydon.» la voce del cavaliere distolse Elerwen dal legno sbeccato che la separava da casa «E lei è Ashlyn.»
Solo allora la piccola Chessem si accorse che la ragazza dai capelli d’argento l’aveva presa per mano. Era una stretta calda e gentile come non ne aveva mai sentite, in pieno contrasto con la voce che ricordava dalla sera prima.
«Siamo Osservatori Arcani, tra un po’ di tempo capirai cosa vuol dire.» Il tono di Keydon era formale ma non freddo come quello di Ashlyn.
Elerwen si limitò ad annuire e si fece condurre fuori da quel villaggio. Dietro ogni finestra sapeva che si nascondevano almeno due paia di occhi intenti a scrutarla. Avrebbe voluto gridare e chiedere a tutti se erano contenti che se ne andasse. Sapeva benissimo che avrebbero risposto di sì all’unisono, e quindi decise di non farlo.
Passò quasi mezzora di cammino prima che qualcuno del trio parlasse, e fu Elerwen a farlo.
«Come mai il Deserto dei Draghi si chiama così?»
27 marzo 2012 alle 1:54 pm
Complimenti, mi è piaciuto.
L’atmosfera Fantasy si rivela da un certo punto in poi senza mai appesantire il racconto.
Al prossimo,
Fabio