non c’e’ altro modo. e non c’e’ mai stato.

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sulla via delle pietre 4

Pubblicato da caterina il 21 ottobre 2008

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KIBBUTZ.

 

Sempre sentiti nominare ma mai approfondito, come mi capita spesso e non mi piaccio per questo.

Comunque, adesso sono qui e la curiosità è tanta.

Dove stiamo andando?

Non facciamo rientro al convento?

Ho sete, ho caldo, ho fame.

Don Tonino ha la sua tabella di marcia, infernale e celestiale al tempo stesso e che non ammette divagazioni.

Sempre in Galilea, siamo diretti al Kibbutz di Lavi e allora, non potendo scegliere…che kibbutz sia!
In definitiva, chi sono questi Ebrei?

Riuscirò ad andare oltre l’unica immagine di loro stipati nei carri bestiame e condotti alla morte?

So da adesso che sapranno stupirmi come accade ormai da quando sono approdata in Palestina, l’altro giorno.

Un amico azzarda un commento intanto che il pullman ci sta depositando in un grosso spiazzo: “a forza di incaponirsi sul Vecchio Testamento gli e’ venuto un cervello cosi’!”
Quando rientrarono dalla diaspora (sono circa sedici milioni nel mondo di cui circa cinque non sono tornati in patria), in Israele c’era tutto da fare.

Letteralmente.

Là, nel più brullo dei mondi, apparentemente senza risorse.

Il loro e’ un territorio desertico e ingeneroso ma la loro grande intelligenza e caparbietà in pochi anni hanno permesso di creare oasi e città di un verde impensabile.

Il kibbut rappresenta per loro ma anche a detta di chi ha studiato questo sistema, ciò che più si avvicina ad un modello quasi perfetto di democrazia.
Si vive in comunità ma ognuno ha la sua casa.
Uomini e donne si dedicano all’attività principale del kibbut che e’ la produzione agricola.

Il kibbutz di Lavi si sostiene invece grazie alla costruzione di mobili per sinagoghe e, vista la sua strategica posizione geografica, alla gestione di un enorme hotel che serve da appoggio per il turismo di tutta la Galilea, quello del piazzale dove abbiamo parcheggiato.

Per la cronaca, il direttore è l’italiano Guido Sasson.

La frutta e la verdura israeliane vanno in tutto il mondo e sono di ottima qualità.

Solo adesso collego che ho sempre visto in giro i pompelmi Jaffa e sempre mi sono chiesta da dove venissero…

Da piccola prendevo in mano le arance e staccavo il bollino adesivo piazzandomelo in fronte. La mia amica allora mi diceva “ecco la principessa jaffa che arriva”…

Un gioco innocente che a causa del suono del nome della città israeliana ci evocava qualcosa di orientale.

Se era il nome di un paese, dove si trovava?

Chiesi a qualcuno e la risposta fu “lontanissimo”. Sicuramente quell’adulto non sapeva di preciso, in un’epoca in cui non ci si interessava di Oriente. Noi e loro eravamo due mondi nettamente separati, di qua arrivava pochissimo e a tutti stava bene così.

Il resto è Storia, triste e crudo corso degli eventi che ha cambiato la visione del mondo e ha creato un punto di non ritorno.

Ma io piccola, in un’arancia ho continuato a vedere il pomello dello scettro della principessa di Jaffa e …benedetta fantasia.

Il che mi fa pensare che probabilmente la propensione ai viaggi ti viene da piccolo, nasce da particolare insignificanti, come la propensione per qualsiasi altra passione.

D’accordo che è insita in noi ma sono le esperienze dei primi anni a definirti, a tracciare la strada.

Indipendentemente che poi tu decida di percorrerla o meno.

Gli Ebrei hanno inventato il marchio Kosher che garantisce la provenienza dei loro prodotti. Feci appena in tempo ad annotarmi più o meno il termine ma mi dissi “tanto c’è internet” e infatti ho dovuto ricorrere a qualche pillola di saggezza e sapienza per non essere del tutto imprecisa nella definizione di questo brand conosciuto e diffuso in tutto il mondo.

KOSHER in ebraico (o KASHER) significa atto o adatto ed è un termine generalmente impiegato per definire cibi preparati in conformità con le particolari regole alimentari ebraiche.”

Aggiungo che i cibi vengono preparati con apparecchiature kosher, gli ingredienti sono kosher, tutto è kosherizzato a garanzia che le cose siano fatte bene e i controlli effettuati scrupolosamente.

Penso dunque a come avranno preso le notizie delle frodi alimentari internazionali…latte, formaggio, dentifrici…follia nel loro mondo ordinato e rigoroso.Mi fa piacere leggere che gli animali vengono abbattuti in maniera non dolorosa.

Vorrei che leggessero coloro atti all’allevamento e alla macellazione dei nostri animali…

A volte, in una contraddizione per me dolorosa, faccio fatica ad acquistare le confezioni di petti di pollo, al supermercato.

O le uova. Le prendo in confezioni con la scritta “allevati a terra” e spero che non mi si stia raccontando una bugia per farmi spendere il doppio per sei uova.

Quell’ euro in più lo devolvo volentieri all’allevatore che si prodiga a far vivere una vita decente alla gallina che fa l’uovo anche per me.

So che l’allevatore non lo fa certo per amore della gallina ma il fine giustifica i mezzi in questo caso e mi tranquillizza leggermente in questa questione della sofferenza degli animali che non trova in me nessuna soluzione.

Si può farsi prendere dal groppo in gola anche nella corsia dei surgelati, talvolta, sapete?

Non sto scherzando.

Questa filosofia del cibo ebraico getta le sue radici nella Bibbia , il che la dice lunga sulla finezza del ragionamento.

C’è un perché dietro ad ogni gesto, ad ogni scelta.

Fare la spesa e cucinare non è solo fare la spesa e cucinare.

E’ con ogni probabilità ciò che in molti definiscono Cultura. E scopro che mi attira più di quanto credessi, tanto che sull’aereo di ritorno, ho gustato ancor più consapevolmente un pasto kosher, certa che non mi sarebbe stato sullo stomaco e che lo avrei gradito. Saporitissimo.

Ricordo del paragone che feci con un altro volo, una tratta breve, Milano-Barcellona. Volavo con una compagnia italiana, la nostra compagnia di bandiera. Avevo sete da matti e lo steward mi diede un vasetto di plastica di un’acqua famosa, di quelli sigillati ma tolta la linguetta mi accorsi che l’acqua era ghiacciata ed impossibile da consumare. Avrei dovuto “covarla” per riportarla allo stato liquido o darle delle leccatine continue per estrapolarne qualche sorsetto.

La risposta non fu delle più edificanti alla mia richiesta di un altro contenitore di acqua.

Poca passione, poco rispetto, poco amore per gli altri, quella volta.

Tutto uguale, tutto massificato, tutto così così

M lasciamo stare. Passato.

Sono così giunta alla conclusione che in Israele si mangia benissimo, light e senza conservanti; per me che mi riscopro un’anima votata al benessere dopo quarant’anni di pigrizia e gozzovigli, una vera panacea.

Da conversione immediata!

Gli Ebrei hanno anche uno strano modo di non mescolare i cibi.

Questa pratica ha un nome ben preciso ma non approfondisco adesso.

Basti sapere che non consumano nello stesso pasto due cibi derivanti dalla stessa catena, per esempio latte e subito dopo carne bovina o viceversa.

Questa pratica è riconducibile con molta probabilità all’Albero del Bene e del Male e alla mela che invece non fummo in grado di lasciare sul ramo.

Il perché non mi è chiaro ma ho come l’impressione che se esiste una tradizione, sarà sicuramente frutto di un’esperienza di qualcuno che l’ha provata sulla sua pelle e il cui risultato e’ stato cosi’ potente da poter essere senz’altro tramandata con successo.
Nel kibbutz c’è tutto, la scuola, la sinagoga e molti altri servizi.
I pasti vengono preparati per tutti in una cucina centrale, consumati tre volte al giorno nella mensa comunitaria ma anche nelle case se si preferisce. Basta chiedere e te lo recapitano attraverso i graziosi vialetti che conducono agli usci delle abitazioni.
Le signore del nostro gruppo sono andate in un brodo di giuggiole al sentire che esiste anche una lavanderia centrale e credo che in questo caso nessuna massaia faccia specifica richiesta di lavare tutto da sé!

La vita in un kibbutz non e’ incentrata nello sbrigare le faccende. L’obbiettivo finale non è alla fine di ogni giornata aver lavato, stirato, pulito, sgrassato e sfamato.

L’importante è altro ma siccome dobbiamo svolgere necessariamente delle attività per sostentarci, ecco che queste restano marginali e non fanno perdere di vista gli obiettivi fondamentali.

Insomma, l’indispensabile viaggia a latere del fondamentale e non lo offusca.
Tutto e’ pagato dal kibbutz e da quanto ho capito, non esiste la proprietà privata.

Si da’ il proprio lavoro a vantaggio di tutta la comunità e in cambio si ha tutto quello che serve ma proprio tutto, fino all’Università sovvenzionata all’esterno del kibbutz o il medico o altri servizi che necessariamente si devono cercare fuori.
In questo modo la qualità della vita e’ elevatissima; ho visto belle casette e bei giardini. .
Il tutto ruota intorno alla sinagoga dove , nel mentre che ci siamo trattenuti per la visita, il flusso di persone che entravano a pregare era continuo…
Li ammiro per questo.
Da noi il sentire religioso e’ cosi’ blando.
Io stessa che mi reputo credente non entro quasi mai in una chiesa a meno che non ci siano funzioni prestabilite e si’ che passo davanti a molte di esse nel mio continuo spostarmi quotidiano.
Loro pregano e ringraziano Dio tutti i giorni.
Quel pomeriggio c’era anche un consiglio di grandi saggi.

Vederli seduti, in una sala a vetri a discutere dei loro problemi quotidiani, con il loro copricapo tipico e la barba lunga mi ha fatto ricordare il film “Witness il testimone”. Il clima era quello.

Uno per tutti e tutti per uno, in silenzio, secondo regole prestabilite, ogni giorno, tutti i giorni.

Ma iniziano a notarsi i cedimenti di questo celebrato sistema, famoso in tutto il mondo: i giovani si allontanano per non tornare.
Personalmente non vivrei in una organizzazione cosi’.
Sono insofferente alle molte regole, devo avere spazio.
Sbagliare da sola, riprendermi, scoprire, tentare.

Lì mi è parso tutto un tantino preconfezionato, il sentiero segnato dai “vecchi” e nulla che cambia.

Come se, proprio per non perdere di vista le cose fondamentali, si sia tolto il sale a qualsiasi variazione sul tema, al particolare, all’imprevisto, al marginale che solitamente arricchisce e non depaupera.

Ovviamente la mia è solo un’impressione con il sapore del vago; viverci per qualche tempo, affinerebbe la mia visione o ne cambierebbe i connotati, o entrambe le cose. Chissà.

Di certo questo sistema di vita economica e sociale ha salvato e costruito Israele dal 1920 in poi quando gli Ebrei ricominciarono a rientrare, spronati da grandi leaders come Ben Gurion; un concetto su cui si e’ retto tutto fino ad ora.

Questo è e rimarrà il suo altissimo pregio e valore.

Ce ne sono duecentosettanta sparsi in tutta Israele ma oggigiorno chi sceglie la vita del kibbutz, è colto più dal pragmatismo di tempi tornati ad essere economicamente duri che dall’ideologia socialista su cui sorsero le prime comunità.

Visitarne uno mi ha fatto comprendere una volta di più che quando gli uomini si accordano, si impegnano e si sforzano a convivere rispettandosi, il risultato è sempre all’altezza.
Concludo con la considerazione di un altro amico con il quale feci lunghe discussioni appena tornai dal Viaggio, in un forum dedicato all’economia dove però amavamo divagare parlando di tutto.

I libri e i viaggi erano diventati il nostro oggetto del contendere e del desiderio :” I kibbutz funzioneranno finché gli Israeliani avranno memoria dei campi di concentramento e delle privazioni patite, finché si vedranno in una proiezione storica. come qua una volta ci si ammassava nelle case e se si aveva cenato si dormiva felicemente anche in 4-5 in una camera. adesso anche avere una caldaia condominiale ci manda in crisi tanto è esasperato l’individualismo.

Mi sa che stavolta ha avuto ragione lui.

12 Commenti a “sulla via delle pietre 4”

  1. mattiekian dice:

    bello come i precedenti..mamma mia ci hai fatto aspettare troppo per questa 4 tappa.
    Mi piace un sacco questo tuo modo di scrivere a metà tra racconto, diario e saggio.
    Complimenti.
    5 stelline

  2. caterina dice:

    sei veramente tanto cara, Francesca!
    grazie!
    te l’ho detto che ho visitato il tuo blog?
    bellissimo!
    e anche li’, quante stellineeeeeeeeee

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