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Angeli di Pietra (1)

Pubblicato da chris84 il 8 gennaio 2008

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                                             Angeli di Pietra

Presto l’avrebbe raggiunta: era essenziale mantenere il controllo e continuare a fuggire. Non era riuscita a salvare sua madre e sua sorella, ma se fosse riuscita a seminare il suo inseguitore avrebbe poi potuto denunciarlo alla polizia, e cercare di scoprire perché quell’uomo si era tanto accanito contro la sua famiglia. Lo sentiva guadagnare terreno alle sue spalle, udiva il tonfo dei suoi piedi ed il pesante ritmo del suo respiro: la tensione dell’uccisione, lo spavento per essere stato visto, e l’ansia di non riuscire a farla franca fiaccavano le sue energie, gli offuscavano la mente, e lo rendevano incapace di pensare in maniera razionale, facendolo assomigliare ad un segugio il cui unico scopo era quello di affondare i denti nelle carni della preda. Anche se mancava ancora poco al tramonto, per le strade era impossibile scorgere anima viva: da giorni una pioggia torrenziale si abbatteva sulla città, flagellandola senza pietà, come a voler lavare via ogni sporcizia, fisica e mentale, da quel piccolo angolo di Terra. La ragazza, Diana, continuava a correre, senza curarsi della direzione che prendeva, con in testa una sola idea: far perdere le proprie tracce all’assassino, magari rifugiandosi in qualche luogo tranquillo e riparato, in attesa che quest’ultimo si rassegnasse e rinunciasse all’inseguimento ed all’ennesimo spargimento di sangue. Mentre si scostava dal viso le lunghe ciocche di capelli castani, grondanti di pioggia, stando attenta a non scivolare su una delle numerose pozzanghere simili a laghetti che si trovavano un po’ dappertutto lungo la strada, Diana si lasciò sfuggire un debole gemito: di fronte a lei si ergeva cupo e maestoso alla luce dei lampi che squarciavano il cielo riverberandosi sulle vetrate, un vasto edificio abbandonato, che impediva ogni via di fuga: un’antica cattedrale che nonostante fosse ormai vuota da decenni non era mai stata demolita, ed era rimasta lì, nel quartiere antico della città, a fare da ricovero per barboni, drogati e gente senza Dio. Si trattava di un edificio ben strano: vi erano dei grandi portoni di quercia che si aprivano sul sagrato, uno per ogni lato, cosicché vi erano quattro ingressi, e da qualunque lato si entrasse, sulla destra c’era sempre un altare; inoltre i disegni sulle vetrate erano tutt’altro che ispirati alle sacre scritture: vi si potevano scorgere eserciti di uomini che si combattevano, e bande di demoni alati somiglianti a doccioni medioevali combattere per alcuni di essi. In effetti, a guardarla bene la cattedrale aveva più l’aria di una fortezza piuttosto che di un luogo consacrato alla Divinità. Diana, valutata l’impossibilità di tornare indietro, o di trovare un nascondiglio migliore, si precipitò verso il portone più vicino, sperando con tutta se stessa che non fosse chiuso o sbarrato in alcun modo, decisa a nascondersi il meglio possibile e temendo che il breve indugio avrebbe permesso all’assassino di guadagnare ulteriormente terreno. Una volta all’interno della chiesa, sfrecciò verso una lunga scala a chiocciola, semisommersa dall’oscurità, che sembrava condurre in alto, di sicuro verso il campanile. Con il rombo incessante della pioggia che picchiava sulle pietre consunte e sulle vetrate, Diana cominciò a salire gli scalini traballanti, pensando solo vagamente, oppressa com’era dal freddo, dal terrore e dallo shock, che una volta sul campanile avrebbe avuto poche o meglio nessuna possibilità di sfuggire all’uomo che aveva distrutto la sua famiglia, qualora quest’ultimo l’avesse trovata. La scala sembrava salire senza fine verso il cielo nero, solcato da nuvole gonfie di pioggia e da lampi abbacinanti, e Diana cominciava a temere di non avere fiato a sufficienza per arrivare fino in cima, quando inciampò e cadde proprio sull’ultimo scalino. Si guardò intorno: si trovava all’interno della torre campanaria; si trattava di una torre molto alta, traforata da archi ogivali simili a feritoie per tutta la sua altezza. All’incirca ad una ventina di metri sopra la sua testa, Diana vide due immense campane di bronzo, divenute verdi per l’azione degli agenti atmosferici, scosse piano dal vento, insieme alle corde muffite che le azionavano. Rabbrividì: c’era molto più freddo lassù in cima, perché il vento entrava ed usciva fischiando ed ululando come una bestia ferita attraverso gli archi. Doveva essere quasi il tramonto, anche se era quasi impossibile esserne certi, dato che il sole non si vedeva da giorni, e senza un orologio era impossibile capire quando finiva il giorno ed iniziava la notte; Diana lo intuiva, così come, si dice, i gatti avvertano la presenza di spiriti o fantasmi… Mentre si aggirava circospetta per la torre, ebbe l’impressione di aver scorto delle figure umane sul tetto: sporse timorosa il viso fuori da un arco alla sua destra e cercò di penetrare con lo sguardo la cortina di pioggia, che proprio in quel momento era diventata un po’ meno fitta. Così potè vedere una mezza dozzina di grandi statue di pietra grigia, che somigliavano in tutto e per tutto alle inquietanti figure di demoni alati che aveva intravisto dipinte sulle vetrate, giù nella navata della chiesa. Dimentica per un attimo del pericolo che correva, si soffermò a chiedersi il perché della presenza di quelle statue, che tanto sapevano di superstizione e di magia, in un luogo come quello: sembravano immensamente antiche, ed erano singolarmente ben fatte; erano sette in tutto, e per quello che Diana riusciva a vedere e capire erano dei demoni-guerrieri, sei uomini ed una donna, che emanavano un loro singolare fascino. Ogni minimo dettaglio, dai drappeggi delle corte tuniche che coprivano le membra muscolose di solida roccia, alle espressioni dei visi austeri, alle audaci acconciature che svettavano verso l’alto, trattenute da cerchietti e legacci di pietra, alle armi brandite minacciosamente o custodite nei loro foderi, era scolpito con la sapienza di un’arte dimenticata e forse mai appartenuta all’Uomo: sembrava che sotto quegli involucri di roccia centenaria, erosa dalle piogge e dal vento dormissero dei demoni fatti di carne e sangue…Diana era ormai fuori, sotto la pioggia, incurante di tutto e come in preda ad un incantesimo, desiderosa soltanto di vedere le statue più da vicino, e magari di toccarle. E fu in quel preciso istante che l’uomo mise piede all’interno della torre, avventandosi verso di lei, con un ansito rauco. La ragazza cacciò un urlo e restò paralizzata per un attimo, le spalle a contatto contro il petto di roccia di una delle statue di pietra; in un lampo colse il suggerimento che il suo cervello disperatamente le inviava e girò attorno al gargoyle, mettendolo tra lei e l’uomo, che aveva lo sguardo folle, ed un lungo coltello dal manico di corno, insanguinato fino all’impugnatura, stretto nella mano che tremava di tensione repressa. Per diversi minuti andò avanti un crudele botta e risposta, tra gli accenni dell’uomo a slanciarsi contro la ragazza, e le disperate finte di quest’ultima per cercare di sfuggire alla morte. Ma era chiaro che non sarebbe potuto andare avanti per molto: l’uomo sembrava essersene reso conto, perché si rilassò leggermente, si concesse un breve ghigno e scattò un’altra volta, oltre la statua dietro cui si nascondeva la ragazza, dritto verso il suo cuore. Diana urlò e nella foga di evitare il colpo mise un piede in fallo, e dovette chinarsi per evitare di precipitare giù dal tetto, sul sagrato della chiesa; ma il suo aggressore, che era meglio bilanciato sulle gambe, si riprese fulmineamente dall’affondo fallito, e tirato il braccio sopra la testa, affondò con forza la lama tra le scapole della ragazza, facendola accasciare e raggomitolare su se stessa. Mentre con un rantolo di sollievo e di sadismo l’uomo contemplava lo squarcio sul corpo della ragazza, da cui scorreva tanto sangue da arrossare la pioggia che scivolava sul tetto di pietra, verso oriente le nuvole si diradarono, lasciando intravedere un’esilissima falce di luna che si faceva strada nel firmamento squassato dai fulmini. L’uomo si concesse uno sguardo distratto verso il cielo, ancora solcato da lampi azzurrini e sferzato incessantemente dalla pioggia, poi abbassò lo sguardo verso la strada, giù ai suoi piedi, per assicurarsi che nessuno si fosse accorto di quello che era accaduto sul tetto di quella chiesa diroccata di periferia, e che avesse via libera per la fuga. Nonostante tutto, si riteneva soddisfatto: è vero, aveva rischiato grosso, e se non avesse fatto fuori la ragazza, probabilmente nel giro di poche ore la polizia gli sarebbe stata alle costole; ma la ruota della fortuna aveva girato a suo favore, ed ora la sua sola preoccupazione era quella di godersi al meglio il frutto delle sue iniquità. Ma il destino beffardo è sempre in agguato, e una sorta di rozza giustizia cosmica pervade l’universo, seguendo disegni che spesso sfuggono al comune senso logico. Mentre l’assassino si apprestava a scendere dalla torre campanaria, con le mani ancora sporche del sangue della sua vittima, e con l’anima colma di pensieri cupi e foschi, sentì dei suoni alle sue spalle, soffocati dallo scrosciare della pioggia. L’ultima cosa che sentì prima che la testa gli fosse letteralmente spazzata via dal collo, fu un rapido scalpiccio ed un sibilo che squarciò l’aria, traendone una nota, singolarmente grave e profonda…..

Da quando ero stato allontanato dalla polizia, ed avevo aperto il mio studio di investigatore privato, avevo preso la discutibile abitudine di frequentare un locale situato nel bel mezzo del quartiere più povero e malfamato della città: era un buco frequentato da tossicomani, ricettatori, spacciatori, prostitute con i loro protettori, e più in generale da quella che viene solitamente definita la “feccia della società”. Il proprietario l’aveva chiamato, con un buon senso che non finiva mai di stupirmi il “Paradiso Artificiale”.  Perché lo frequentavo? Beh, in primo luogo ero convinto che fosse il posto migliore per trovare qualche buon ingaggio, dato che la maggior parte dei responsabili di quasi tutte le azioni illegali perpetrate in città era un assiduo frequentatore di quel pub; in secondo luogo, probabilmente perché mi sentivo feccia anch’io. Da quando ero stato costretto da miei superiori a “mettermi in proprio” perché accusato di essere diventato incapace di svolgere il mio lavoro, facevo letteralmente la fame: nonostante fossi l’unico investigatore privato nel giro di diversi chilometri, sembrava che la gente mi evitasse, e alcuni sembravano avere seriamente paura di me, e mi guardavano come se fossi stato il Diavolo in persona. Dopo l’iniziale stupore, e qualche soffiata dai pochi amici rimastimi tra i miei ex-colleghi, scoprii che erano state sparse delle voci infondate sul mio conto, che mi descrivevano come un pazzo visionario, a cui aveva dato di volta il cervello dopo aver perso la moglie in un incidente. Scoprii a mie spese che era inutile combattere i miei diffamatori, come era inutile cercare di capire perché lo avessero fatto, dato che mi avevano già licenziato, per non parlare dei miei ridicoli iniziali tentativi di convincere qualcuno che non ero affatto pazzo…
Subito dopo l’incidente che mi aveva portato via mia moglie, su consiglio di una mia collega, ero entrato in analisi presso la psicanalista che lavorava da noi, al comando di polizia. Personalmente sono sempre stato un po’ scettico, riguardo a strizzacervelli e roba simile, ma per me quello era un periodo davvero difficile, ed avevo bisogno di trovare un modo qualunque per restare a galla…che cosa c’era da perdere? Dopo alcune sedute, la psicanalista mi suggerì che forse avremmo potuto tentare con l’ipnosi; quando ero in sua presenza ero costantemente in bilico tra il farmi quattro risate, ed il ricredermi sulle mie convinzioni di una vita, ma dato che ormai ero lì, decisi di accettare.

3 Commenti a “Angeli di Pietra (1)”

  1. Diego dice:

    Mi piace moltissimo l’atmosfera che hai scelto, a metà tra i noir di Raymond Chandler e i racconti gotici (la cattedrale deserta in una sera di tempesta è sempre favolosa…), con un pizzico di Lovecraft (o sbaglio?). Interessantissima anche la divisione delle scene. Parti con una terza persona nell’antefatto per poi passare alla prima. Un’unica annotazione tecnica: il tuo protagonista dice ‘in primo luogo ero convinto che era…’ la forma corretta sarebbe ‘in primo luogo ero convinto che fosse…’ Se è un errore segnatelo, se è una scelta consapevole per il linguaggio del personaggio non la condivido. Insomma, le premesse sono ottime, e non vedo l’ora di leggere come prosegue. Bravo Chris!

  2. Chris84 dice:

    Grazie della dritta, Diego! Ho corretto l’errore…sai scrivendo di getto a volte qualcosa sfugge! Grazie anche per i complimenti! Sono andato avanti diverse pagine, ma per ora preferisco vedere “dove andrò a finire” con questo racconto prima di continuare a postarlo!

  3. wildant. dice:

    i dettagli molto particolareggiati delle descrizioni (della chiesa , delle statue ..)smorzano però molto la tensione della fuga..pare un pò strano che una ragazza in fuga da chi le ha sterminato la famiglia e vuole concludere l’opera con lei, si soffermi ad apprezzare i particolari architettonici del suo rifugio..
    comunque è probabile che ci sia un motivo ben preciso per questa scelta, quindi aspetto con ansia il seguito !!!!

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