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Angeli di Pietra (2)

Pubblicato da chris84 il 13 gennaio 2008

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. I primi risultati furono alquanto deludenti per me, poiché non notai alcun cambiamento degno di nota nel mio stato cosciente. Alla fine di una seduta particolarmente lunga e profonda, alzatomi dal lettino, immancabile nello studio di ogni buon psicanalista, indossai un sorriso sardonico, mi buttai l’impermeabile sulle spalle, e salutai la dottoressa con un breve cenno della mano, accendendomi una sigaretta, che mi avrebbe riscaldato lungo il percorso che mi avrebbe portato a casa. Non appena giunsi a casa, frugai un po’ alla ricerca delle chiavi, aprii la porta d’ingresso, ed ebbi appena il tempo di richiuderla e buttare la giacca sul pavimento: una devastante spossatezza si faceva strada a grandi passi verso di me. Caddi profondamente addormentato sul divano, e la cosa buffa è che mentre mi addormentavo era come se ci fosse stato un altro me stesso al di fuori del mio corpo, che mi osservava mentre mi assopivo. Come sempre capita quando si dorme, e l’inconscio prende il comando della nostra mente, persi la cognizione del tempo, ma nei più profondi recessi della mia anima mi sentivo come se fossero trascorsi anni da quando mi ero addormentato…Ad un tratto cominciai a sentire un turbinio di voci, che urlavano, piangevano, sussurravano, si lamentavano, imprecavano, tutte insieme nello stesso istante: ero disorientato più che mai, e leggermente intimorito da quel sogno criptico in cui ero scivolato, quando ad un certo punto sentii una voce alzarsi di volume, e stagliarsi nitida al di sopra di tutte le altre. Si trattava di una voce di donna, una voce calda, dai toni pieni, che lasciava indovinare una personalità forte ed appassionata, anche se in quel momento era leggermente venata di tristezza. Quella voce mi sorprese e mi mise addosso una sensazione di rabbia mista a malinconia, perché ovviamente l’avevo subito riconosciuta, e non avrebbe potuto essere diversamente, poiché quella voce l’avevo amata con tutto me stesso, insieme alla donna cui apparteneva. Chiamava il mio nome, con insistenza, come a volermi svegliare da quello strano sogno, ma dolcemente, con fare rassicurante. Nel sogno, mi voltavo a destra e a sinistra, per individuare la fonte della voce, ma sembrava che questa si diffondesse diafana attraverso l’etere, e quindi mi rassegnai, limitandomi a fissare il vuoto davanti ai miei occhi. “Sono qui per spiegarti questo sogno,” disse la voce, “e le sue conseguenze…” – “Quali conseguenze?” pensai, “i sogni non hanno conseguenze: è il loro miglior pregio! Qualunque cosa sogni, al tuo risveglio sai che nulla è accaduto davvero…” – “Stavolta no,” rispose la voce, leggendo nei miei pensieri, mi parve, con facilità. “Qualcosa si è risvegliata in te, qualcosa che hai sempre avuto, ma che hai cercato di nascondere, senza neanche renderti conto di quale immenso dono avrebbe potuto rivelarsi!” – “E sarebbe?” chiesi io. Ma come diavolo facevo ad essere tanto cinico anche nei sogni? La voce continuava inarrestabile, negandomi la possibilità di riflettere su ciò che diceva, ammesso che all’interno di un sogno sia possibile riflettere. “Tu possiedi il potere di varcare le porte tra i mondi, e di comunicare con coloro che non sono più…” Inutile dire che tale rivelazione, ammesso che la si possa considerare tale, in una persona come me non avrebbe suscitato altro che ilarità e una punta di cinico disprezzo, per coloro che ci avrebbero potuto credere; tuttavia, forse perché stavo sognando, o magari perché quella notizia sconvolgente era giunta alle mie orecchie al suono della voce della donna che amavo, non risi, né a dire la verità, replicai in alcun modo. La voce disincarnata di mia moglie sembrò cogliere la mia perplessità, perché continuò a parlare: “Il tuo compito d’ora in poi sarà quello di riparare i torti e le questioni lasciate in sospeso da coloro che non possono più risolverle personalmente, in quanto i loro corpi non camminano più sulla terra…” – La mia espressione doveva essere davvero sconvolta, in quel momento, anche se si trattava sempre di un sogno… La voce disse un’ultima frase, prima di congedarsi: “Questa è stata la prima e l’ultima volta che qualcuna delle anime di coloro che sono morti si metterà in contatto con te in sogno: ogni qualvolta la tua opera sarà richiesta, riceverai la visita di uno spirito; sii dunque vigile e pronto in qualunque momento del giorno e della notte, e non farti spaventare dalle apparizioni, poiché essi cercano solo il tuo aiuto e non hanno intenzione di nuocerti in alcun modo. Addio!” Ricordo che nel sogno accennai qualche passo avanti, nel futile tentativo di inseguire e raggiungere la voce, ed insieme ad essa, mia moglie, ma sentivo che il mio inconscio si stava lentamente ritirando nei recessi più oscuri della mia mente, lasciando spazio al mio Io cosciente, ed alla veglia. Mi sentii precipitare nel vuoto, ed infine mi risvegliai, biascicando mozziconi di frasi incoerenti. Ero madido di sudore, quasi febbricitante. Dalla finestra entravano, obliqui, alcuni esili raggi di luna: il sogno, se di un sogno si trattava, era durato per ore. Mi alzai dal divano, non senza difficoltà e con un lieve senso di nausea, e mi diressi verso la cucina, alla ricerca di un bicchiere d’acqua, quando il mio sguardo, vagando distrattamente nella semioscurità che invadeva le stanze di casa mia, cadde oltre il divano su cui avevo dormito, in direzione della porta d’ingresso: quello che vidi mi gelò il sangue nelle vene, quasi abbatté il muro della mia ragione, e mi convinse senza possibilità di ripensamento che il sogno dal quale mi ero da poco risvegliato non era affatto un sogno, ma un’assurda realtà. Vidi il fantasma di mia moglie, in piedi dietro il divano: era trasparente, proprio come i fantasmi dei cartoni animati, e vestita con una lunga sottoveste di un bianco immacolato, dalla quale spuntavano due piedi bianchi come la neve anch’essi. Contemplai la figura per qualche secondo, con il cuore che mi scoppiava per il terrore e l’agitazione; ero assolutamente incapace di qualunque reazione, e mai in tutta la mia vita avevo provato tanta paura tutta in una volta…Pian piano sollevai il mio sguardo, fino ad incrociare quello ultraterreno dei suoi occhi, che brillavano fiocamente, come un lanterna attraverso una cortina di nebbia. Ci fissammo per non più di un istante, poi lei si voltò e camminò verso la porta, scomparendovi attraverso. Rimasi a fissare la mia porta d’ingresso per un tempo infinito; poi mi riscossi leggermente, rabbrividendo fin nel midollo delle ossa, e temendo un subitaneo assedio di fantasmi che gemevano agitando catene arrugginite, così come l’iconografia classica mi aveva insegnato a rappresentarli nella mia mente. Per un attimo persi il controllo di me stesso, e crollai a terra, singhiozzando piano, mentre il buio si infittiva, la luna si spegneva per lasciare posto all’alba che tra poche ore sarebbe sorta, illuminando un nuovo giorno. Ricordo che mentre stavo accovacciato per terra, in un attimo di lucidità pensai che stavolta ero impazzito per davvero , e che avrei terminato la mia esistenza in una squallida casa di cura per malattie mentali. Forse fu questo pensiero rimettermi in moto, o più semplicemente era la mia indole, scarsamente incline a cedere alla disperazione che riprendeva il sopravvento. Fatto sta che mi rialzai e, sempre guardandomi attentamente attorno, ma soprattutto alle mie spalle, convinto che avrei visto sbucare spettri da ogni angolo buio della casa, raggiunsi la cucina ed accesi la luce: giuro di non aver mai amato tanto una lampadina come in quel momento. Mi appoggiai al piano lucente dell’acquaio e bevvi in rapida successione mezza dozzina di bicchieri d’acqua, che oltre ad alleviare l’arsura che avevo in gola servirono anche a calmarmi. Soddisfatta la sete, e ripreso almeno in parte il controllo di me stesso, decisi di passare a qualcosa di più forte: dal frigorifero tirai fuori sei birre, che mi avrebbero aiutato a riflettere, e da una credenza presi una bottiglia di scotch, che mi avrebbe aiutato a mantenere la concentrazione innescata dalla birra. La situazione era talmente assurda che in più momenti quasi mi convinsi di essermi immaginato tutto, ma dubitare dei miei sensi, per un uomo d’azione quale avevo imparato ad essere, era qualcosa di inaccettabile. Solitamente, eventi come quello di cui ero stato appena testimone, non accadono se non nei film, o nei fumetti: tutta una serie di inquietanti futuri si aprivano a ventaglio davanti a me, e come era mio solito di fronte a qualcosa di nuovo, qualunque essa fosse, sentii il malumore strisciare ed annidarsi dentro di me come una serpe. In fondo, riflettei dando fondo all’ultima birra, e avventandomi sullo scotch alla ricerca della sbronza definitiva, nessuno in questo mondo, e nemmeno nell’altro, mi obbligava a fare ciò che mi era stato…offerto? chiesto? Imposto? Non lo sapevo nemmeno io. Alla paura si stavano rapidamente sostituendo la rabbia e la cocciutaggine tipica degli ubriachi. Cominciai a borbottare frasi sconclusionate al vuoto semi immerso nell’ombra di casa mia, e ben presto conclusi il mio exploit notturno fiondandomi in bagno a vomitare l’anima, dopo essermi quasi scolato per intero la bottiglia di scotch…

Tutto era buio intorno a me, senza alcun punto di riferimento: sotto, sopra, destra e sinistra erano concetti che, ne ero certo, non avevano mai nemmeno sfiorato le mie conoscenze. All’improvviso, udii dei battiti sordi e profondi provenire da migliaia di chilometri di distanza; il loro ritmo aumentava sempre di più, diventando simile al suono che potrebbero emettere alcuni milioni di ciottoli lasciati cadere sopra una lastra di piombo. Ben presto, a quel suono se ne aggiunse un altro: era come se un vecchio demente incapace ormai di articolare una sola parola, stesse provando per la prima volta nella vita, a cantare una canzone, una qualunque, senza neanche sapere troppo bene le parole. Dapprima la cosa suscitò in me una vaga ilarità, irritata tuttavia dal continuo rimbombare in sottofondo, e sostituita dopo un po’ da un’ira tanto feroce quanto improvvisa, tanto che cominciai anch’io ad urlare, con tutto il fiato che avevo in corpo, di smetterla un po’ con tutto quel baccano. Mi risvegliai al suono della mia stessa voce, che urlava stridule parole senza significato: ero sdraiato davanti al water, in una maniera che definire scomposta è più che un eufemismo; mi tirai su a fatica, aggrappandomi al bordo del lavandino, e la mia faccia, o meglio una pessima caricatura di quella che di solito usavo come faccia, apparve nello specchio: ma come accidenti faceva la gente a non scoppiare a ridere quando si trovava di fronte a me? Al loro posto, io non ci sarei riuscito, ed al solo vedermi avrei cominciato a sghignazzare senza alcun ritegno. Fu solo in quel momento, mentre ero perso in questa riflessione, che un meteorite si abbatté inspiegabilmente sulla mia porta, mandandola in frantumi. Reggendomi sulle gambe malferme, ed aggrappandomi ad ogni appiglio possibile, corsi verso l’ingresso di casa, dove trovai, incorniciata insieme a due robusti allievi dell’accademia di polizia da ciò che rimaneva della porta e con un’espressione furente come non mai, la mia ex-collega Mariane Zimmer, l’unica con cui ero riuscito a mantenere un qualche rapporto, anche se non era merito mio. Dopo avermi lanciato un’occhiata a metà tra il critico ed il disgustato, congedò bruscamente i due giovani agenti, e marciò a passo di carica verso di me, che ero rimasto intontito a fissarla, appoggiato allo stipite della porta dell’ingresso. “La mia porta…” cominciai a farfugliare, ma fui subito investito da una sibilante quanto feroce reprimenda: “Ma si può sapere che accidenti credi di fare?! Sono rimasta a bussare per quasi mezz’ora! Ho dovuto far buttare giù quella stupidissima porta! Buon dio, Paul, ma quanto hai bevuto per ridurti in questo stato pietoso? Ma ti sei guardato?” Quest’ultima frase Mariane la pronunciò con un tono intriso di compassione, che traboccava dai suoi grandi occhi scuri, e probabilmente fu quel suo compatirmi a farmi perdere le staffe, anche se la compassione me la meritavo, eccome. “Sono libero di fare ciò che voglio, e bere uno o due bicchieri, mia cara crocerossina, era esattamente quello che mi andava di fare ieri sera! Sarebbe proprio bella se dovessi rendere conto a te delle mie azioni!” Il mio tono di voce e le mie parole la ferirono, ed io lo sapevo, ma Mariane invece di prendersela, si irrigidì e prendendomi a spintoni sul petto, mi ricacciò fin dentro il bagno, dove mi afferrò per i capelli e mi ficcò la testa sotto un getto di acqua gelida: lei era fatta così, ed era una delle non poche qualità della sua persona che ammiravo. Dopo avermi tenuto per un paio di minuti sotto l’acqua, giusto il tempo di congelarmi anche le idee, mollò la presa, mi lanciò un asciugamano e disse: “Riacquista un aspetto decente e vieni fuori di lì: ho bisogno di un caffé e devo parlarti…” Io non dissi nulla, e dopo essermi dato una vigorosa strigliata uscii dal bagno diretto in cucina. Preparai la caffettiera grande, e finalmente mi voltai a guardarla in faccia. “Senti, Mariane, io ti…” chiedere scusa a qualcuno non era mai stato il mio forte, ed ogni volta sudavo sette camicie. “ecco, insomma, mi dispiace di averti fatto preoccupare, e mi dispiace anche che tu mi abbia visto così…” Il suo sguardo era ironico e le si poteva leggere il principio di una risata negli occhi. “Insomma, non penserai mica che io trascorra tutto il mio tempo attaccato al collo della bottiglia, no?” Versai il caffé in due tazzine e le feci cenno di andarci a sedere in soggiorno. Lei si accomodò sul divano, ma io ero ancora diffidente dopo l’esperienza della notte prima, e preferii prendere posto sulla mia vecchia poltrona d’ordinanza. Lei continuava a guardarmi mentre sorseggiava il suo caffé: “Brutto periodo, eh?” disse. Non era necessario che le rispondessi: sapeva che non me la passavo per niente bene, e che facevo fatica ad arrivare alla fine di ogni mese. “Sai, è anche per questo che sono qua…” – “Ma non mi dire? Cos’è, hai trovato la cura ai mali del mondo? E poi, se non ti spiace, posso sapere chi diamine erano quei due armadi a muro che ti sei portata appresso? Adesso ti metti ad importunare le matricole?” Continuavo a blaterare per sfogare la tensione psichica provocata dall’irruzione di tre agenti di polizia in casa, ed inoltre cercavo di provocarla. Stava per rispondermi a tono, ma poi cambiò idea, e sorridendo disse: “Non attacca…” Si alzò in piedi e si diresse verso la porta-finestra, da cui era possibile vedere un’ampia porzione della città; rimase lì per un po’, poi senza preavviso disse: “E’ stata uccisa una ragazza ieri sera…” – “Non riesco a capire perché tu lo stia venendo a raccontare a me,” dissi. Si voltò di scatto, fulminandomi con un’occhiata: mi stupiva sempre il fatto che dopo tanti anni passati nella polizia a vederne di tutti i colori, Mariane parlasse sempre di ogni nuovo omicidio con un rispetto che ai miei occhi rasentava il timore reverenziale, e pretendeva inoltre che i suoi interlocutori facessero altrettanto. “Ehm, scusa; ma sai benissimo che non posso fare nulla per aiutarti…” – “E questo chi lo dice?” replicò lei. “Puoi sempre fare finta di aver ricevuto un biglietto o una chiamata anonima, in cui ti venivano fornite soltanto le indicazioni per ritrovare il corpo…” – “Ma che senso avrebbe? Anche se facessi quello che mi suggerisci, verrei allontanato dal luogo del delitto per ordine dei tuoi superiori in meno di un minuto; o forse non ricordi più che sono un soggetto disturbato e potenzialmente dannoso per la società? E poi mi spieghi perché dovrei intervenire proprio in questo caso?” – “Perché così ti terrai lontano dalla bottiglia!” rispose, ma era chiaro che l’aveva detto solo per replicare alla mia frecciata di poco prima. Dopo qualche istante di silenzio, Mariane continuò: “Noi non siamo riusciti a capirci quasi nulla: ieri nella zona residenziale della città, un pazzo armato di un coltello da cacciatore, forse alla ricerca dei soldi per la sua dose quotidiana, si è intrufolato in una casa ed ha ucciso tre persone: un uomo ed una donna, marito e moglie, e una delle loro figlie, poco più di una bambina. L’altra figlia della coppia è invece la ragazza di cui ti ho appena accennato; supponiamo che durante l’aggressione si trovasse fuori casa, e che sia rientrata proprio mentre l’assassino stesse cercando di allontanarsi: probabilmente l’aveva visto in faccia, ed ovviamente era necessario ridurla al silenzio. La ragazza – si chiamava Diana Wimbley – è riuscita a scappare ed a sfuggire al suo carnefice per un po’, ma alla fine lui l’ha raggiunta. Secondo la nostra ricostruzione, dopo averla uccisa con alcune coltellate, ha cercato di occultarne il cadavere in un posto che probabilmente riteneva sicuro…” – “Scusa,” intervenni io, “ma sembra che non ci sia un bel niente da indagare: un drogato ha fatto fuori un’intera famiglia e si è dato alla macchia, eludendo gli sforzi della polizia…Non me ne stupirei, non è nemmeno la prima volta che succede qualcosa del genere!” Mariane, si voltò per lanciarmi un’occhiata indefinibile, poi disse: “Non mi hai lasciato finire: poco distante dal corpo della ragazza abbiamo trovato il cadavere dell’assassino, con la testa staccata dal collo: la ferita è stata provocata con una qualche arma da taglio, magari con il suo stesso coltello, anche se per vibrare un colpo del genere ci sarebbe voluta la forza di tre uomini.” – “Sicuramente qualcuno avrà pensato di fare la festa al nostro assassino, così come lui l’ha fatta a quella povera ragazza…si sarà trattato di un regolamento di conti, o qualcosa di simile…” dissi, cercando di minimizzare l’accaduto: si rischiava di impazzire se ci si concentrava ad analizzare l’implacabile crudeltà della morte, in ognuna delle sue orribili manifestazioni. “E’ quello a cui abbiamo pensato in un primo momento, ma i risultati degli esami fatti dalla Scientifica rendono improbabile questa versione dei fatti: le uniche impronte ritrovate all’interno della torre campanaria della chiesa dove si è svolto il duplice omicidio sono quelle dell’assassino e della sua vittima, e tutte le impronte digitali sul coltello appartengono all’uomo…” – “Mi stai dicendo che questo tizio prima ha ucciso una ragazza e poi, improvvisamente colto da rimorso, si è staccato la testa da solo?” – L’essere messo a conoscenza di tutti i dettagli di un caso su cui non avrei potuto minimamente intervenire mi rendeva più cinico del solito, ed io ovviamente non facevo nulla per auto censurarmi, dando risalto ai molteplici lati peggiori del mio carattere. “E’ esattamente per questo motivo che abbiamo bisogno di te,” insistette Mariane. “magari agendo attraverso canali secondari potresti venire a conoscenza di dettagli che a noi sarebbero preclusi per più di una ragione…” – Dubitavo profondamente di riuscire a trovare alcun “canale secondario”, come l’aveva definito Mariane, ed anche se fossi riuscito a trovare una qualche pista da seguire, ero certo che dall’alto dei vertici del comando di polizia, i miei ex-superiori avrebbero cercato di ostacolarmi in tutti i modi. Ciononostante, promisi a Mariane che avrei fatto qualcosa, e che avrei cominciato a muovermi a modo mio, per trovare un buon punto d’inizio. “Ho bisogno di vedere il luogo del delitto, però,” le dissi, mentre la lasciavo uscire da quello che restava della mia porta d’ingresso. Mariane si fermò sulla soglia, assorta, probabilmente alla ricerca di qualche scappatoia cavillosa che mi avrebbe permesso di mettere piede in un’area altrimenti a me assolutamente preclusa; dopo qualche secondo, mi disse sorridendo a mezza bocca e porgendomi un foglietto: “Questo è l’indirizzo preciso del luogo: si tratta di una vecchia chiesa abbandonata; presentati all’ingresso principale stasera sul tardi, e dì al piantone che ti sei recato lì su mia richiesta: non dovresti avere problemi. Ricordati però che gli agenti si danno il cambio ogni tre ore, quindi vedi di non farti trovare ancora dentro al cambio della guardia!” – “Bene,” dissi, mentre guardavo Mariane discendere la prima rampa di scale, “visto che sei così gentile da consentirmi questa allegra visita notturna, per questa volta non ti farò pagare la porta che mi avete distrutto!”

4 Commenti a “Angeli di Pietra (2)”

  1. Diego dice:

    Bravo, Chris, non mi dilungo ma penso che sia davvero un buon racconto. Continua così.

  2. maria cristina dice:

    Caro Chris, ho letto il tuo racconto con molto piacere. Onestamente, mi è piaciuta molto la prima parte, la Chiesa, i demoni, l’oscurità. E’ il genere di cose che adoro e che vorrei sempre essere capace di scrivere. Un appunto, se permetti. Dai nomi dei personaggi, credo che il racconto non sia ambientato in Italia. Perchè? Sai, di luoghi oscuri ne esistono tanti anche da noi (io vivo in una città che ne è un classico esempio), Per il resto mi è piaciuto molto. Complimenti.

  3. wildant. dice:

    io invece non amo molto demoni , chiese, oscurità e mi è piaciuta di più questa parte…vero però, perchè ambientarlo in terra straniera?

  4. Chris84 dice:

    Fondamentalmente l’ho fatto senza rifletterci: l’esterofilia regna! Il mio primo intento era quello di ambientare la storia in un posto non troppo ben definito; poi al momento di dare nomi ai personaggi mi è venuto spontaneo dare loro nomi stranieri…cmq è vero che anche l’Italia può essere un ottimo posto per ambientare racconti gotici e/o horrorifici!

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